Fanno a gara i giornali dell’imprenditoria italiana per mostrare quanto gli sfruttati non si sentano tali e quali.
Dal caso della giovane bidella che, per 1.160 euro al mese, prenderebbe ogni giorno il treno alle 5 del mattino da Napoli per arrivare a Milano e fare il percorso inverso in giornata, rientrando nel capoluogo paternope intorno alla mezzanotte, al caso del rider veronese che preferisce ad un lavoro in ufficio quello in bicicletta.
Mentre la storia della bidella è tutta da verificare, visto che pare abbia fatto quel lunghissimo percorso solo due volte e poi si sia messa in aspettativa retribuita, quella del giovane rider veneto è il cuore della critica che poniamo di seguito.
Dalle colonne dei quotidiani a quelle dei siti Internet è un profluvio di esternazioni e commenti che mostrano come, tutto sommato, si possa trovare il bello nell’orribile, la vita nella non-vita, il lavoro nella più evidente depersonalizzazione dallo stesso, la separazione netta tra tempo occupato e tempo libero.
Il giovane rider veronese, che accetta la consegna di un hamburger a 50 chilometri di distanza da cui si trova, fa emergere un quadro più desolante, persino inquietante: sostiene di non sentirsi sfruttato, di preferire ad un lavoro in ufficio, in cui dovrebbe stare in silenzio otto ore (mai visti uffici in cui regni il silenzio monacale e per giunta tutto il giorno) e ad una paga certamente maggiore, le pedalate che gli consentono di gestirsi il tempo pur avendo meno soldi in tasca.
Partiamo dal presupposto (assurdo) che ognuno è libero di farsi sfruttare come meglio crede; tuttavia, questa considerazione un po’ banale ci serve come provocazione per definire meglio quello che può essere chiaramente considerato un allarme sociale: se un giovane non comprende di essere comunque sfruttato, al di là della sua percezione, si ritorna nella questione marxiana della incoscienza della classe lavoratrice, della “classe in sé“.
Non si tratta di fare una sorta di oziosissima discussione accademica o di fare le pulci alle parole del giovane rider. Semmai si tratta di capire come quel ragazzo non avverta di essere non sfruttato, ma ipersfruttato. Davvero quello scambio che lui stabilisce tra orario di lavoro flessibile e paga è il prezzo da pagare per sentirsi liberi? Si è veramente liberi così?
Pedalare 50 chilometri per consegnare un panino è libertà? Stare in ufficio otto ore è forse più libertà? Mettiamo tutto in dubbio, in forse, per entrare ancora di più all’interno di questioni veramente “di classe“, di frammenti di coscienza critica che sembrano pulviscoli in un’atmosfera di imbarazzante accettazione di condizioni di lavoro che diventano sostenibili e quasi “normali” mentre sono la manifestazione palese di uno sfruttamento quasi endemico e, per l’appunto, accettato acriticamente.
Partiamo dalle otto ore: bisognerebbe lavorarne meno oggi, senza stare zitti, senza avere l’immagine un po’ fantozziana dell’impiego alla scrivania, ma comprendendo anzitutto che ad ogni mansione va data una retribuzione equa (tralasciamo le considerazioni sulla giustezza della composizione del salario, visto che il capitalismo è ingiusto, diamo per acquisito il fatto che non esiste un “giusto salario“, ma che la paga è per conseguenza considerata “giusta” in questo sistema, a prescindere da quanto venga dato dal padrone).
Bisognerebbe lavorare meno, quindi, per redistribuire le ore di lavoro e permettere a più persone di poter accedere all’occupazione. Ma questo, si intende, non dipende soltanto dalla volontà dei singoli salariati: dipende fondamentalmente da quella massa critica, collettiva e di lotta che deve assumere su di sé questa rivendicazione e farne uno strumento di protesta, di rivendicazione di diritti proprio di vivibilità degna della propria esistenza.
Non si può pensare di mettere in contrapposizione orario di lavoro flessibile e paga minore con un lavoro più stabile in quanto a continuità quotidiana della mansione (ma non è detto che sia a tempo indeterminato in quanto a contrattualità…) e paga maggiore.
Se si riduce la propria vita a variabile dipendente dalle esigenze del mercato del lavoro e, soprattutto, del mercato nel senso più propriamente capitalistico del termine, allora siamo ben al di sotto di quel minimo di coscienza critica necessaria per difendere i propri elementari, costituzionali diritti in termini di evitamento dello sfruttamento becero da parte del “datore di lavoro“.
Quando non ci si accorge che lo sbaglio è a monte e che non sei davvero mai libero di scegliere il “grado di sfruttamento” che pensi ti debba riguardare, allora vuol dire che manca una visione complessiva del mondo in cui si vive e che, quindi, si accetta qualunque cosa pur di avere una comodità apparente, una vita degna di essere vissuta soltanto nel proprio circolo, escludendo il resto del mondo del lavoro, quindi del mondo dove lo sfruttamento si realizza pienamente nel capitalismo.
Ripiegarsi su sé stessi e pensare soltanto al proprio monte ore, alla propria giornata, al pezzetto di libertà che credi di esserti conquistato dopo aver pedalato per 50 chilometri per consegnare un panino, non è lavorare, non è nemmeno quasi essere “soltanto” sfruttati: è essere privi di empatia sociale, di una consapevolezza di quello che ci circonda, di non accorgersi di come vanno veramente le cose.
Il sistema liberista è riuscito in questo: ha atomizzato le incoscienze, le ha separate le une dalle altre e ha ridotto persone chiaramente pensanti in depensanti, destrutturandole dal contesto, rendendole singolarità esclusive, aliene da sé stesse, facendo loro credere di amare un lavoro che invece detestano.
Solo un masochista ama salire su una bicicletta e fare decine di chilometri al giorno, se non centinaia come nel caso del rider veronese, per consegnare cibo correndo da una parte all’altra di grandi città, per strade piene di traffico col rischio di rimanere sotto alle auto, ai tram o agli autobus.
Un masochista è, infatti, chi gode nella sofferenza, chi prova piacere nell’essere maltrattato: sessualmente parlando può essere un feticismo degno di nota. Ognuno cerca il piacere dove meglio lo trova, a patto che sia condiviso e consenziente. Ma se si lavora, soltanto dal punto di vista padronale e capitalistico è comprensibile e condivisibile che un salariato accetti paghe di miseria per un lavoro oggettivamente ai limiti dello schiavismo moderno piuttosto che cercare una occupazione migliore.
Che la si trovi, poi, è ovvio, è altra questione. Ma che si sia stabilita quella equazione inversa tra orario di lavoro flessibile e paga è davvero imbarazzante. E deve esserlo prima di tutto per noi che, da sinistra, guardiamo al mondo dell’occupazione, della precarietà e della disoccupazione come al problema dei problemi di questa società, come ad un elemento cardine del cambiamento sociale, dell’intervento sindacale e soprattutto politico nel contesto di policrisi attuale.
Ecco, è sconvolgente sentire un giovane che, senza rassegnazione, dice di amare questo tipo di condizioni di lavoro. Soltanto in Veneto i rider sono tremila. In tutta Italia sono circa 70.000. E’ un comparto lavorativo dove le cosiddette “zone d’ombra” contrattuali sono enormi, dove le garanzie sono rasoterra, le tutele sottoterra, i livelli di sfruttamento invece a livelli stratosferici.
Quanti bidelli e insegnanti, quanti studenti sacrificano gran parte della vita e della giornata per un lavoro e una istruzione che potrebbero avere più vicini a casa propria. Si lamentano e protestano. Mentre i giornali li intervistano, li fanno sorridere nelle foto e mettono titoli che magnificano questo “sacrificio“. Non esiste nessun sacrificio, perché esiste soltanto la condizione precaria del lavoro, quella altrettanto precaria e pericolosa dell’alternanza scuola-lavoro agganciato alle esigenze esclusive del mercato e dell’imprenditoria.
Ad accettare la versione della contentezza dello sfruttamento, in qualunque forma e modo si manifesti, si rischia davvero di entrare nel tunnel di un grande interrogativo: se essere dentro un grande mondo parallelo dell’irrealtà o se, invece, essere proprio in quella realtà deformata e alterata che, tuttavia, esiste e si solidifica nell’essere malleabile a menti completamente prive di una voglia di riscatto, di un miglioramento delle proprie condizioni senza dover fare a cambio con nulla, senza dover per forza scendere a patti tra orario di lavoro e salario da percepire.
La più bella notizia sarebbe, in questi casi, che quel giovane rider veronese, alla prossima richiesta di un panino anche “solo” a dieci chilometri di distanza da dove si trova, non rispondesse o dicesse alla sua azienda: pedalate voi per venti chilometri in tutto per far mangiare a qualcuno un hamburger che si può comperare tranquillamente nelle vicinanze di casa propria.
Ma le ultime frasi in un suo post su Facebook fanno poco ben sperare: «Non vogliamo regole, siamo rider apposta perché così ci lasciate in pace». Ci si lasci concludere così: absit iniuria verbis.
MARCO SFERINI