La relazione di Maurizio Landini al XIX Congresso nazionale della CGIL non delude certamente le aspettative di chi rivendica per il sindacato un ruolo che oltrepassi le sue stesse funzioni, che, pure nella incedente destrutturazione dei diritti del lavoro, tutti preda del liberismo moderno, lo inserisca a pieno titolo tra i presìdi di tutela della democrazia formale e sostanziale, dei diritti sociali e civili.
In questo, la relazione di Landini è esauriente: mette insieme tutte le problematiche di una Italia in cui governano le peggiori destre di sempre, postafasciste, xenofobe e davvero reazionarie sotto ogni punto di vista, e vede correttamente i tanti nessi, le cause e gli effetti che legano dinamiche diverse ed eterogenesi di fini che convergono nella rimodulazione antisociale, privatista all’eccesso, fortemente incentrata su un adeguamento degli standard economici italiani a quelli di un modello europeo legato a doppio filo alle impostazione della Federal Reserve, del FMI e della Banca Mondiale.
Altrettanto corretta è la messa al centro della discussione cigiellina del ruolo della fiscalità generale: le tasse non sono soltanto una variabile dipendente dalle politiche ideologiche di governo. Sono l’espressione più determinata di una strutturazione di tutto quello che le riguarda. A cominciare dal lavoro, dalla vastità del precariato, dalla segmentazione dei contratti che, infatti, sono nettamente un mondo a parte rispetto agli altri paesi europei.
La Germania viene presa a prestito, in questo frangente, per ricalcare una idea certamente non nuova ma forse innovativa se potesse trovare seguito presso la instabile politica italiana.
Si tratta della “codeterminazione delle imprese“, di una responsabilizzazione comune tra proprietà e forza lavoro (non solo operaia) che riguardi non solo la vigilanza sulle risorse eventualmente date dal pubblico al privato, dallo Stato al padronato, ma che si estenda – sulla scorta dell’esempio teutonico – ad una uniformità in materia di diritti, di eguaglianza salariale tanto per i precari quanto per gli autonomi.
Landini vincola la qualità del lavoro alla stabilità dello stesso. Non si tratterebbe di un salto di poco conto, se si osserva la letterale squalificazione attuale di intere categorie e settori produttivi. I salari fermi al palo, mentre il costo della vita aumenta vertiginosamente, la fuoriscita da una crisi, quella pandemica, per entrare in un’altra, quella bellica, non sono di sicuro una prospettiva di riguardo per tutta una larga fetta di popolazione che, ogni giorno che passa, precipita sempre più ai margini, se non dentro l’indigenza endemica.
Landini non parla di “lotta di classe“, non fa riferimento a quelli che, almeno da una ampia parte dell’ancora più grande sindacato italiano, sono considerati ferri vecchi del passato.
E’ una sottovalutazione non da poco, una mancanza che si sente, perché l’analisi del reale, per quanto cruda, oggettiva e pragamtica sia, non può non tenere conto dei rapporti di forza e, con questi, della quasi completa assenza di una coscienza diffusa, laicamente intesa tale, come ad esempio avviene in Francia.
Le prepotenze antisociali del governo italiano non sono certo da meno di quelle dell’esecutivo macroniano, eppure in Italia non scatta una lotta continuativa, non viene fuori dai luoghi di lavoro una collegialità nell’espressione del malcontento, della rabbia sociale che dovrebbe rappresentare tutta l’insoddisfazione per le ingiustizie trascinatesi nel corso degli ultimi trent’anni sull’onda lunga delle privatizzazioni di ogni sorta di bene comune e di messa all’angolo dei più elementari diritti delle lavoratrici e dei lavoratori.
E’ lecito supporre che tutto questo non sia soltanto dovuto alle differenze storiche tra Italia e Francia, al fatto che noi non abbiamo vissuto una stagione rivoluzionaria come quella della Parigi del 1789 o della Comune del 1871, oppure i “fronti popolari” degli anni ’30 del Secolo breve? E’ lecito poter pensare, molto timidamente ma anche con una certa dose di rammarico propositivo, che le responsabilità per un assottigliamento progressivo della lotta di classe siano da ricercarsi pure nel sindacato italiano?
Se non è troppo infamante tutto questo, se è possibile criticare senza essere accusati di far parte di qualche congrega settaria, utopistica, estremista o, peggio, di essere al soldo del nemico, allora, visto che non si tratta di una provocazione, perché quello che di positivo Landini ha detto è stato colto e messo a valore, si potrebbe nel congresso della CGIL aprire una discussione sul ruolo proprio di classe del sindacato moderno e sulla sua passata disposizione ad essere indulgente verso alcune “svolte di sinistra” che hanno portato tanto questa stessa quanto il mondo del lavoro ad una soglia di crisi evidente.
Il centrosinistra ha pesantemente influenzato il ruolo davvero classista di un sindacato tardo novecentesco che ha abbandonato, da decenni e decenni, l’idea di far incontrare l’alternativa di società con le piattaforme aperte nelle grandi industrie come in quelle meno importanti.
Quel legame che, pure in un quadro complessivo di traduzione riformistica, dati i rapporti di forza del dopoguerra in Italia (e non solo), metteva insieme lotta operaia e lotta politica nelle istituzioni e nelle piazze, arrivato a saldare le rivendicazioni di generazioni a volte contrapposte, si è inesorabilmente consumato.
La concezione liberale, surclassata da quella liberista e permeata di essa, ha trascinato nell’inedia la “cinghia di trasmissione” tra partito e sindacato: venuto meno il grande Partito Comunista Italiano, anche la grandezza della CGIL è stata messa in discussione dal “compatibilismo“, dalle necessità governiste, dagli equilibrismi politici che rendevano evidente quello che doveva per forza essere tale: lavoro e capitale dovevano trovare un modo per convinvere e scontrarsi il meno possibile.
Lo esigeva un nuovo assetto mondiale, post-sovietico, dove l’Europa della CEE intendeva divenire quella della nuova moneta unica, quella di un nuovo polo del capitalismo e del mercato mondiale in aperta competizione con quello americano e quello asiatico. Lo esigeva Confindustria, lo pretendavano quelli che si imbellettavano con diciture come “democratici di sinistra” e al contempo smentivano le aspettative di un popolo che li guardava ancora come se fossero il PCI o la sua copia sbiadita.
Insomma, lo pretendeva tutta una sinistra riformista e consociativa col padronato che ha portato tutta, ma proprio tutta la sinistra italiana all’irrilevanza: per dichiarazione congressuale, per consunzione, per contrasto storico con chi ha avuto l’ardire di rappresentare ancora quel “comunismo italiano” che aveva saputo dare alle masse la percezione immediata di essera altro da tutto il resto, pur con tutti gli errori commessi lungo una storia complicata ma profondamente esaltante.
La CGIL rimane e deve rimanere un luogo in cui la franchezza sia parte stessa dell’essenza sindacale: per questo non è possibile non rilevare che molti milioni di lavoratrici e lavoratori oggi non si sentono rappresentati sia dai partiti politici sia dai sindacati e che questo legame tra corpi intermedi sempre meno attrativi e crisi verticale della delega popolare ai propri rappresentanti parlamentari non è scindibile ma, invece, fa parte di una drammatica erosione della partecipazione nel suo complesso.
L’attacco frontale che la destra sta portando al mondo del lavoro, ora anche attraverso la riforma “epocale” del fisco, al pari delle grandi opere come il ponte sullo Stretto di Messina, è parte di una medesima politica che tratta i cittadini più fragili economicamente e deboli socialmente così come i territori fragili che, in Italia, non sono certamente pochi. La destra segue la politica draghiana sul piano dell’economia internazionale e, soltanto adesso, si discosta dal precedente governo con uno stravolgimento della fiscalità che premierà i ceti più abbienti con l’introduzione della famigerata “flat tax“.
Landini ha fatto benissimo a mettere al centro delle preoccupazioni prime del sindacato questo tema che, come si evince, viene avanti con una prepotenza inaudita perché è uno dei pilastri del berlusconismo di prima data, una battaglia storica per un vasto mondo di evasori che verranno, in parte “legalizzati“.
A cominciare anche da queste destrutturazioni dei fondamentali diritti di lavoratori, lavoratrici, pensionate e pensionati, studenti, casalinghe, badanti e migranti, il rilancio del sindacato è possibile su un piano veramente di classe: mettendo da parte le compatibilità di sistema, provando a sollecitare una rinascita di una sinistra politica non più filocentrista ma nettamente alternativa a qualunque ipotesi liberale e liberista.
Non è il tempo della rassegnazione, nemmeno per il sindacato, ad essere un semplice interlocutore del governo: la controparte padronale – si diceva un tempo – ne merita una altrettanto determinata. Le parole di Landini sono utili e credibili soltanto se vanno in questa direzione.
MARCO SFERINI