Pubblichiamo in anteprima online l’editoriale di Egemonia #5, che sarà disponibile online e in versione cartacea in aprile. In occasione del corteo del 25 marzo a Firenze convocato dal collettivo di fabbrica GKN, continuiamo il dibattito sull’evoluzione di questa sua lotta, sui suoi limiti e sulle questioni politiche fondamentali che pone alla classe lavoratrice, alle sinistre, ai rivoluzionari.


I lavoratori dell’ormai ex GKN si sono più volte chiesti, nel corso di oltre venti mesi di lotta, se la loro vertenza fosse storia o mera cronaca. Non è facile rispondere a un quesito del genere. In parte, questa difficoltà deriva dal proprio punto di osservazione. Passare quasi due anni all’interno di una fabbrica occupata spinge in maniera quasi ‘naturale’ ad ingigantire la portata e gli effetti della mobilitazione. Al polo opposto, quella parte della militanza politica che non è mai entrata in contatto con la lotta della GKN o lo ha fatto in maniera sporadica tende a ridimensionare quanto successo nella fabbrica di Campi Bisenzio, non fosse altro per auto-assolvere il proprio impegno limitato. In maniera più sostanziale però, non è detto che esista consenso su cosa significhi per una vertenza operaia diventare storia.

Dal nostro punto di vista, una lotta smette di essere cronaca e diviene invece storia quando riesce a influire in maniera rilevante sui rapporti di forza presenti nei luoghi di lavoro, nel paese. In alcuni casi questo può avvenire in maniera indiretta: la mobilitazione operaia contribuisce alla creazione di un immaginario, di alcune pratiche, oppure alla politicizzazione e all’organizzazione di settori di avanguardia che poi daranno vita ad altre vertenze in altri luoghi di lavoro. E non lo diciamo per “operaismo”, ma semplicemente perchè in una società che si basa sullo sfruttamento del lavoratore collettivo da parte di una minoranza, è qui in ultima analisi che si decidono i rapporti di forza, a tutti i livelli: non è un caso che i grandi movimenti per la rivoluzione della vita quotidiana e per i diritti di genere degli anni ‘60 e ‘70 abbiano fatto epoca solo in relazione a grandi processi di mobilitazione della classe operaia (come l’Autunno Caldo italiano del 1969 e lo sciopero generale che accompagnò il Maggio francese del 1968). È per questo che la questione del “fare – o non fare – storia”  va ricondotta al problema di passare dalla lotta economica “normale” della classe lavoratrice alla lotta di classe, su obiettivi generali e comuni, che nella sua evoluzione diventa lotta politica e apre nuove possibilità per consolidare la coscienza l’organizzazione, la direzione politica.

Tornando al nostro quesito sulla portata della vertenza GKN, un parallelo storico che ci viene in mente è con le proteste dei lavoratori genovesi contro il tentativo dei neofascisti del Movimento Sociale Italiano (MSI) di tenere il proprio congresso, con l’appoggio del governo Tambroni, nel capoluogo ligure nel giugno del 1960. L’evidente provocazione per una città medaglia d’oro della resistenza venne fronteggiata nelle strade da un nuovo settore di classe lavoratrice: giovane, non inquadrata nelle strutture partitiche e sindacali tradizionali, e disponibile ad accettare un insolito livello di scontro con le forze dell’ordine. Questa ‘nuova’ classe operaia vestiva anche in maniera diversa dai ‘vecchi’ lavoratori: blue jeans e magliette di cotone a righe orizzontali con colori vivaci. Non a caso, la vicenda è passata alla storia come le giornate dei ragazzi con le magliette a strisce. Quanto successo nelle strade di Genova non mutò in maniera significativa i rapporti di forza nelle fabbriche. Anzi, non li mutò affatto. Segnò però un punto di svolta rispetto al grande riflusso degli anni Cinquanta e annunciò l’arrivo sulla scena politica di quel settore di proletariato che giocherà un ruolo decisivo negli anni successivi. Ancora oggi quelle giornate rimangono scolpite nell’immaginario della parte più avanzata della classe operaia genovese, come il Collettivo Autonomo dei Lavoratori Portuali (CALP) ha più volte ricordato. 

Altre vertenze impattano invece direttamente sui rapporti di forza tra capitale e lavoro. Si può ricordare la straordinaria occupazione della Fiat Mirafiori di Torino nel marzo del 1973, quando oltre 60 mila operai presero possesso dell’enorme stabilimento e tappezzarono i vari ingressi di cartelloni e bandiere rosse. La trattativa si risolse in un pieno successo per i metalmeccanici che ottennero, oltre all’inquadramento unico e un aumento salariale uguale per tutti, la riduzione della settimana lavorativa a 39 ore, una settimana in più di ferie retribuite e il riconoscimento del diritto allo studio attraverso le 150 ore retribuite. Alcune di queste conquiste sarebbero poi divenute patrimonio dell’intera classe lavoratrice italiana negli anni successivi. 

Per quanto gli episodi riportati provengano da momenti storici molto diversi e abbiano avuto chiaramente una valenza maggiore – non fosse altro per i numeri coinvolti – della vertenza GKN, aiutano forse a trarre un bilancio di una lotta che si avvicina ai due anni di vita. Se questa contribuirà indirettamente a cambiare i rapporti di forza tra capitale e lavoro, e a rompere il clima di passività e debolezza che caratterizza le forze anti-capitaliste in Italia, non lo possiamo dire ancora: la lotta di classe e i suoi effettivi sviluppi non sono cose che si possono calcolare a tavolino. Non solo – e insisteremo su questo punto più avanti: la prospettiva con cui le forze organizzate intervengono nei conflitti sociali ne influenza in maniera decisiva gli esiti e i risvolti futuri.

Quello che possiamo dire con certezza è che il Collettivo di Fabbrica abbia fatto molto per modificare l’immagine sconsolata che troppo spesso ci consegnano gli operai vittime di crisi aziendali. In contrasto con le chiusure corporative a cui ci hanno abituato le burocrazie sindacali, i lavoratori di Campi hanno fin da subito messo in chiaro come la loro situazione fosse il risultato di scelte politiche e dinamiche generali. In questo modo, anche il particolarismo dei vari movimenti – studentesco, transfemminista ed ecologista – sono stati messi in discussione. Non molti anni fa (febbraio 2018) chi scrive partecipava a una lotta contro l’installazione di un sistema ad accesso selettivo (i “tornelli”) nella biblioteca di lettere dell’università di Bologna. Quella vertenza fu circoscritta, ma finì per dare vita ad assemblee con oltre mille partecipanti, dopo che la celere dell’allora ministro dell’interno, il piddino Minniti, entrò nella sala di lettura occupata a manganellare gli studenti. Attorno a quella mobilitazione si coagulavano questioni politiche di vasta portata: dalla privatizzazione dell’università alla crescente repressione messa in campo dall’allora governo PD contro le lotte per la casa e gli immigrati. Non mancarono durante le assemblee interventi di studenti, spesso non organizzati, che parlavano di ampliare le rivendicazioni della vertenza ed estenderla, scontrandosi però contro la direzione del movimento (gli autonomi del CUA) per cui questo avrebbe distolto l’attenzione dall’obiettivo di occupare la biblioteca e dalla questione degli spazi in università (come se fosse scollegata da tutto il resto). Nel novembre 2022, la celere entra ancora in università – questa volta è la Sapienza di Roma – dopo che i collettivi hanno impedito che si tenga un’iniziativa neofascista. La mobilitazione che segue rimane confusa negli obiettivi e si disperde in poco tempo, ma all’assemblea che inaugura l’occupazione della facoltà di Scienze Politiche risuona il coro “Occupiamola” dei lavoratori GKN e gli interventi dei membri studenteschi del gruppo “Insorgiamo” – invitati apposta da Firenze per fare appello alla “convergenza” delle lotte – sono i più applauditi. 

Più di favorire il riconoscimento crescente – e non è poco – che le varie istanze possono darsi forza a vicenda, magari perché in qualche modo collegate all’accumulazione senza fine del capitale nell’interesse di pochi, la lotta della fabbrica di Firenze non è però riuscita a fare. Non si tratta, sia chiaro, di un rimprovero al Collettivo in quanto tale: un’analisi coerente della società capitalista e una messa in campo di una strategia efficace per superarla necessita infatti di uno sforzo che va al di là delle possibilità di un singolo gruppo di operai, non fosse altro per motivi di massa critica. C’è allora una differenza che va segnalata tra GKN e le magliette a strisce di Genova 1960. All’epoca, non sarebbe mancato molto prima che per tutta una generazione di militanti e intellettuali orbitanti attorno alle organizzazioni del movimento operaio diventasse chiaro che si trattasse di riconnettersi con la classe e proporre nuove forme di organizzazione. Nel 1963, nacquero i Quaderni Rossi, seguiti da tutta una serie di esperienze che avrebbero favorito l’emergere di gruppi rivoluzionari con decine di migliaia di membri a sinistra del PCI qualche anno più tardi. Oggi l’idea che per costruire nuovi rapporti di forza in senso anti-capitalista sia necessario radicarsi nella classe lavoratrice è molto meno diffusa di qualche decennio fa. La chiave che viene proposta spesso nella sinistra radicale italiana sarebbe invece, alla peggio, riaggregare il “popolo della sinistra” ed emulare il neoriformismo europeo (in barba ai limiti strutturali che esso ha incontrato ogni volta che è stato messo alla prova), o alla meglio, concentrarsi – anche con parole d’ordine radicali – in lotte parziali e attività di mutualismo. In nuce, queste posizioni sono l’altra faccia di una visione che – più o meno esplicitamente – identifica nei ricchi e nella diseguaglianza (al massimo nella “logica del profitto”) il problema, non nei rapporti di produzione che ne stanno alla base e nella natura di classe della democrazia borghese. In gioco non sono qui però solo limiti soggettivi e chi non l’ha compreso, tra cui diversi gruppi che rivendicano il marxismo rivoluzionario, si è progressivamente condannato all’isolamento. Tale aspetto è evidente dall’atteggiamento settario o massimalista che formazioni come SCR o il PCL tengono nei confronti del movimento Insorgiamo. Se vi intervengono, esse lo fanno esternamente, proponendo parole d’ordine che esulano completamente dal dibattito che lo anima (come la proposta fatta al Collettivo da SCR di lanciare una “grande assemblea operaia contro i licenziamenti”, in un quadro in cui i delegati influenzati da questa organizzazione non hanno mai nemmeno fatto uno sciopero di solidarietà con GKN), o semplicemente liquidandolo come “post-moderno” perché si rivolge alle varie identità e movimenti sociali. 

La frammentazione della classe lavoratrice rende più complesse le questioni ad essa legate:  l’impatto della globalizzazione neoliberista (e della sua crisi) sulla riproduzione sociale, sui movimenti internazionali di forza-lavoro e sull’ecosistema sono fenomeni reali – per non parlare delle rinnovate pressioni ideologiche determinate dalla corsa al riarmo e alle manovre imperialiste giustificate con la difesa dei valori liberali e progressisti dell’Occidente. Tutto ciò ha rappresentato – e rappresenta – un ostacolo enorme alla ripresa di un prospettiva politica di classe e rivoluzionaria, insieme alla crisi delle organizzazioni tradizionali del movimento operaio (social-democratiche e post-comuniste) dettata dal crollo dell’URSS e da una crescente compromissione con la restaurazione neoliberista. Questo non vuol dire però che basta ‘riportare luce’ in un contesto inquinato dalla falsa coscienza “postmoderna”. Al contrario, il punto è evidenziare come le lotte per i diritti di genere, contro il razzismo, per l’ecosistema ecc. possano vincere solo se le intendiamo innanzitutto come lotte per ricomporre la classe lavoratrice, contro i tentativi di dividerla facendo leva su risposte ideologiche reazionarie alla crisi della riproduzione sociale, di civiltà e dell’ecosistema (il ricambio organico uomo-natura) dettate dal capitalismo. Come scrivevamo lo scorso 22 ottobre:

la convergenza tra movimento ecologista e movimento operaio deve essere incoraggiata, non solo però quando settori avanzati come i lavoratori GKN chiamano alla mobilitazione, ma nell’orientamento strategico di intervento quotidiano del movimento ecologista. Il movimento ecologista deve ambire a conquistare quant* più lavorator* e quanto più spazio di influenza politica nel movimento operaio.

In ultima analisi, i lavoratori non sono in prima linea nel movimento ecologista (ma anche transfemminista ecc.) non perché ‘disinteressati’, ma anche perché serve maggiore comprensione da parte degli attivisti della loro importanza strategica; quindi della necessità di coinvolgerli in uno sforzo di organizzazione volto a liberarli dall’influenza di burocrazie sindacali sempre più concertative – da cui l’assenza della CGIL nazionale dalle piazze combattive come quelle lanciate da GKN – e pronte a cedere alla retorica padronale della dicotomia “ambiente-lavoro”, come ha dimostrato la vicenda dell’Ilva di Taranto. Per non parlare della dignità di interlocutore data Meloni – con l’invito al congresso CGIL – in barba alla sua pericolosità nei confronti degli immigrati e delle identità di genere. I nostri nemici a destra vedono la situazione e si compiacciono del campo libero lasciato dalle vecchie strutture politiche, civili e sindacali del centrosinistra storico a favore dell’ascesa di letture xenofobe e reazionarie per il disastro sociale in corso. 

Nel quadro che abbiamo fin qui descritto, l’occupazione GKN sta difficilmente segnando la fine del lungo arretramento operaio e della sinistra politica cominciato negli anni Ottanta. Per ora rimane cronaca. E rimane tale perché, se la convergenza dei movimenti è stata ampia attorno al Collettivo, essa è avvenuta in maniera per lo più esteriore. Se in molti hanno compreso l’importanza di solidarizzare con gli operai – molti sono anche quelli che l’hanno fatto in modo superficiale per opportunismo politico – l’idea che la lotta possa vincere solo creando rapporti di forza sul terreno dell’estensione ad altri settori della classe lavoratrice è rimasta minoritaria. Così, dopo le grandi manifestazioni promosse da “Insorgiamo”, i più sono semplicemente tornati alle loro routine di movimento o di partito. Possiamo però ancora lavorare perché la vertenza GKN diventi Storia in un processo più largo e più profondo di radicalizzazione politica, rottura della routine adattata alle burocrazie sindacali e di movimento, e cambiamento dei rapporti di forza tra le classi a livello nazionale.

Tutto questo, a differenza di come ha suggerito finora il dibattito politico dentro e attorno a GKN-Insorgiamo, non può correre separatamente alla costruzione di un’organizzazione politica che sia in grado di dare unità, convergenza nell’elaborazione e nella prassi, capacità di direzione ai vari settori che costituiscono l’avanguardia dei movimenti di oggi. Si tratta di chiarire se la nostra lotta parte dall’obiettivo generale di instaurare una società socialista superando il capitalismo, e di conseguenza affrontare la problematica ‘classica’ dell’unione tra socialismo e movimento operaio (e non solo). Se questo è il caso, e noi lo rivendichiamo, va detto chiaramente, rompendo la cappa di diplomazia tra sette che paralizza la sinistra radicale italiana, dove risulta impossibile persino affrontare un bilancio sistematico e serio, e non di relativizzazione e giustificazione storica, delle correnti e dei grandi cicli politici della sinistra del secolo scorso. A partire dal PCI il quale, ne siamo convinti, ha rappresentato una capitolazione tragica e devastante della causa comunista alla vecchia logica dell’evoluzione pacifica, lenta, governista verso il socialismo – la stessa per la quale si rese necessario rompere col PSI. 

Si tratta di pensare ai processi concreti che possono portare alla formazione di un partito della classe lavoratrice, punto di riferimento per tutti gli oppressi, con una strategia rivoluzionaria, che integri anche le lezioni della lotta politica recente, comprendendo (e non è poco) quelle legate a GKN-Insorgiamo. 

A questo obiettivo, per quanto riguarda l’elaborazione e il dibattito teorico-politico, è interamente dedicata questa rivista, giunta ormai al suo quinto numero. Veniamo così brevemente ai temi e ai testi che lo compongono.

Il primo articolo di Iside Giergij fa il quadro sulle continuità – nella discontinuità – delle politiche di gestione dell’immigrazione, mettendo in luce i rapporti tra il colonialismo e la formazione del nucleo del diritto borghese in materia. Nel secondo articolo, Giacomo Turci riprende alcuni temi di dibattito centrale nella discussione sulla guerra in Ucraina e sull’evoluzione della situazione militare e geopolitica ad essa collegata. Segue un pezzo di Mattia Giampaolo e Lorenzo Lodi sulla dipendenza economica imposta dall’imperialismo, in particolare UE, ai popoli e ai lavoratori del Nord Africa, ove si concentrano le strategie imperialiste dell’Italia, in barba a una retorica che la vorrebbe in declino e financo subordinata. 

Il quarto articolo consiste in un intervento di Josefina Martínez, che esamina il tentativo di Ashley J. Bohmer, col suo Marxism and Intersectionality, di mettere a confronto e in dialogo il marxismo con le teorie dell’intersezionalità, ragionando su quale articolazione è possibile tra lotte contro le oppressioni e contro lo sfruttamento capitalista.

Infine, una recensione a sei mani di Carlotta Caciagli, Gianni Del Panta e Federica Frazzetta dell’ultimo libro di Cynthia Cruz indaga come e in che modo la Melanconia di classe possa evolvere in una forza per cambiare il presente, passando dall’estraniazione alla critica della società attorno a noi, e all’azione politica a partire da una identità come classe lavoratrice ritrovata e attualizzata. 

Redazione Egemonia

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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