A gridare all’utopismo dinanzi all’ideale di una società senza classi sono spesso proprio quei liberali o liberaldemocratici che non di rado finiscono con l’espungere le contraddizioni di classe della società borghese esistente, dipingendola di fatto come una società che ha già superato la divisione in classe e le classi in quanto tali, secondo la tesi secondo la quale ci sarebbero, ormai, esclusivamente i ceti medi.
Con il suo consueto ed efficacissimo metodo comparatistico, Domenico Losurdo dimostra in modo inoppugnabile come siano molto più utopistiche le prospettive dei liberali e dei liberaldemocratici rispetto alle posizioni comuniste, da sempre criticare per il loro presunto utopismo. Senza contare che mentre l’utopismo marxista ha una forte carica progressista e rivoluzionaria, in quanto sottopone a una giusta critica tutti i limiti dell’attuale società, mostrandoli peraltro come storicamente transitori, al contrario l’utopismo liberale e liberaldemocratico è apologetico dell’esistente nei paesi in cui domina, nei quali tende a trasfigurare e a far scomparire tutte le contraddizioni reali e oggettive, spacciando i terribili costi sociali che impone come necessari e imprescindibili e non come storicamente determinati e causati da precise e scellerate scelte oligarchiche di politica economica. Dunque, come denuncia Losurdo, con riferimento a due dei più noti teorici del comunismo e del liberalismo: “se l’utopia rimproverata a Marx ha un potenziale critico nei confronti della società esistente, questa è invece trasfigurata e appare persino consacrata dalla Provvidenza in Tocqueville” [1], secondo il quale nulla è possibile fare per alleviare la condizione spaventosa di miseria in cui sono costretta a vivere le classi subalterne, in quanto si andrebbe contro gli stessi piani divini che, per quanto oggi possano apparire incomprensibili, non possono che produrre il migliore dei mondi possibili. Dunque, se ne può concludere, seguendo Losurdo, che “a gridare all’utopismo dinanzi all’ideale di una società senza classi sono spesso coloro che finiscono con l’espungere le contraddizioni di classe della società borghese esistente, dipingendola di fatto come una società che ha già superato la divisione in classe e le classi in quanto tali” (54-55).
D’altra parte l’ideologia liberale e liberaldemocratica, che porta avanti senza tregua la denuncia dell’intera storia del movimento comunista come una vera e propria distopia, in tal modo cerca di affossare le due più decisive vittorie conseguite grazie alle lotte dei comunisti, cioè la conquista dei diritti economici e sociali e la liberazione dei paesi coloniali. Non a caso le ideologie neoliberiste e ordoliberiste oggi dominanti – ed egemoni ai giorni nostri non solo fra liberali e liberaldemocratici, ma persino fra i democratici – mirano a eliminare con l’idea stessa di giustizia sociale il così detto Stato sociale o Welfare state, mentre in politica estera, dopo aver costretto alla resa il secondo mondo socialista, sono da anni all’attacco di quanto resta del terzo mondo, secondo una precisa strategia di guerre neocoloniali.
Peraltro, l’eccezionale sviluppo delle forze produttive che si è avuto nella Repubblica popolare cinese e nel Vietnam, dopo la sconfitta internazionale delle forze in lotta per la transizione al socialismo, viene oggi posto sotto attacco persino a sinistra dall’ideologia dominante, che ha sfruttato il disastro ambientale prodotto dal modo di produzione capitalistico per sviluppare la prospettiva ecologista reazionaria – questa sì realmente distopica – della decrescita. Perciò sarebbero proprio i paesi guidati dal movimento comunista a mettere maggiormente a repentaglio la sopravvivenza stessa della specie umana sulla terra, in quanto hanno elaborato dei sistemi misti – con elementi di capitalismo, di socialismo e di capitalismo di Stato – che hanno consentito un eccezionale sviluppo delle forze produttive, al contrario dei paesi a capitalismo avanzato in cui la crisi dovuta ai vecchi rapporti di produzione impedisce da decenni una reale crescita economica. In tal modo, con la ormai consolidata strategia rovescista del revisionismo storico imperante, si scarica proprio sulle sole forze in grado di superare in senso progressivo la società capitalista – l’unica e reale causa efficiente del disastro ecologico – la responsabilità della distruzione dell’ambiente, evitando naturalmente di mettere in luce il ruolo davvero devastante della guerra necessaria all’imperialismo per aggirare la propria strutturale crisi di sovrapproduzione.
Da questo punto di vista, molto efficace è, come di consueto, la capacità di Losurdo di smontare e decostruire l’ideologia dominante, facendo emergere una prospettiva radicalmente opposta a quella da essa propagandata. Losurdo dimostra, in effetti, come sia proprio lo “sviluppo delle forze produttive”, di cui negli ultimi decenni sono stati protagonisti proprio i paesi governati dal movimento comunista, a consentire l’affermazione sempre più ampia del nuovo senso comune, che “ha sviluppato una sensibilità del tutto diversa del paesaggio urbano e rurale” che, proprio al contrario di quanto sostiene l’ideologia reazionaria della decrescita – non a caso di matrice heideggeriana – “non potrebbe essere neppure pensabile senza lo sviluppo delle forze produttive” (62).
Losurdo passa poi, altrettanto brillantemente, a decostruire un altro dei luoghi comuni elaborati dall’ideologia dominante per condannare alla damnatio memoriae il movimento comunista e i suoi straordinari successi. Da questo punto di vista si è affermata anche a sinistra l’ideologia per cui tutte le volte in cui il socialismo, per cui si batte il movimento comunista, si è affermato ciò avrebbe inevitabilmente prodotto dei regimi totalitari, fondamentalmente dispotici, che sarebbero proprio l’opposto delle garanzie liberali e libertarie che assicurerebbe la tradizione liberale e, più in generale, borghese. Naturalmente questa apologia dei regimi liberali e questa demonizzazione di ogni forma di socialismo reale è possibile solo occultando completamente la storia. In caso contrario sarebbe evidente come non solo il liberalismo, la liberal-democrazia, la democrazia anche radicale e persino la socialdemocrazia sono responsabili delle peggiori forme di dispotismo e totalitarismo che sono nate e si sono affermate con il colonialismo e, poi, con l’imperialismo, come peraltro la stessa Hannah Arendt ha ampiamente dimostrato nella sua opera, posta quale base filosofica dell’ideologia dominante sul totalitarismo. Così, si domanda retoricamente Losurdo, facendo il verso all’ideologia dominante: “il liberalismo è sinonimo di libertà o di attaccamento alla libertà? Da questo quadro sono dileguate la schiavizzazione dei neri (e il successivo ricorso ai coolies indiani e cinesi), l’espropriazione, deportazione e decimazione dei nativi, l’assoggettamento dei popoli coloniali e il lavoro coatto e le pratiche genocide messi in atto contro di loro” (100).
Si cancella, inoltre, il dato di fatto che i regimi fascisti e nazisti – che hanno importato anche in Europa, in primo luogo in funzione antisovietica, il totalitarismo e il dispotismo del colonialismo e dell’imperialismo – sono dei regimi a tutti gli effetti capitalistici. Al contempo si occulta la storia che dimostra come il colonialismo, l’imperialismo, i fascismi e il nazismo siano stati sempre strenuamente contrastati e spesso storicamente sconfitti proprio grazie al movimento comunista.
Da questo punto di vista Losurdo non ha difficoltà a mostrare come persino le forme più avanzate di liberalismo e democrazia, come quelle di John Stuat Mill – considerato il padre nobile del liberalsocialismo ovvero della liberal-democrazia di sinistra – si dimostrano incomparabilmente più totalitari e dispotici del movimento comunista non appena si affronta la dirimente questione coloniale. Così, ad esempio, “il dispotismo così enfaticamente celebrato [da John Stuat Mill] non riguarda solo i popoli minorenni presi nel loro complesso, ma anche i singoli individui che li compongono”, dal momento che questi ultimi devono “essere educati al «lavoro diuturno» (che è il fondamento della civiltà); e per conseguire tale risultato, quando si ha a che fare con «razze non civilizzate», non resta che far ricorso all’istituto della schiavitù. La schiavitù politica delle colonie è al tempo stesso la schiavitù propriamente detta dei singoli individui che le abitano” (71).
Si potrebbe credere, continuando a dare credito all’ideologia dominante, che questi limiti del liberalismo, anche nelle sue forme più avanzate, siano relative esclusivamente al mondo coloniale, ma non ai paesi liberali e liberaldemocratici. Anche in tal caso tale ideologia può affermarsi esclusivamente cancellando la storia. In effetti, basta studiare la storia di quei paesi considerati come dei veri e propri campioni del liberalismo e della liberal-democrazia come gli Stati Uniti, il Canada, l’Australia o la Nuova Zelanda, per prendere finalmente coscienza che “il sistema capitalista e imperialista privava delle più elementari libertà e sottoponeva alla più crudele oppressione non solo i popoli coloniali ma anche le popolazioni di origine coloniale, collocate nel cuore stesso della metropoli capitalista” (92). Si pensi alla tragica sorte dei nativi in tutti questi paesi considerati dei paradisi del liberalismo e della democrazia borghese.
Si potrebbe pensare, continuando a dare credito all’ideologia dominante, che una cosa è la prassi, altra la teoria, e, dunque, questi spaventosi eventi che hanno portato al genocidio dei nativi sarebbero il prodotto di una applicazione erronea dei sacri princìpi della liberal-democrazia. Naturalmente se si volesse accettare questa astratta e intellettualistica separazione fra teoria e prassi verrebbero anche meno la maggior parte degli argomenti utilizzati dall’ideologia dominante contro il movimento comunista, che sarebbe stato latore di utopie astrattamente affascinanti, ma tragiche nella loro applicazione pratica. Del resto, proprio il fatto che l’ideologia dominante condanni le società prodotte dal movimento comunista proprio sulla base dello iato fra teoria e prassi – mentre pretende di assolvere da questo medesimo punto di vista le società liberaldemocratiche – è indizio che anche per quanto riguarda il dogmatismo, generalmente rimproverato al comunismo, non è certo assente nelle concezioni liberali. Tanto che si potrebbe ritenerlo un residuo caratteristico delle precedenti società capitaliste, che non è stato ancora possibile debellare nelle prime esperienze storiche di transizione al socialismo.
Tornando all’efficacissima decostruzione prodotta da Losurdo dell’ideologia dominante, vediamo come è proprio la medesima utopia realizzata del liberalismo – “che aveva presieduto alla guerra di indipendenza dei coloni americani contro il governo di Londra” – ovvero “la libertà della società civile” (98), che ha prodotto nella storia molteplici forme di dispotismo e di totalitarismo. Proprio perché in diversi paesi liberali e liberaldemocratici la democrazia che si è affermata è stata una democrazia per il popolo dei signori. Ad esempio, tornando al paese in cui si sarebbe affermata per prima la democrazia moderna, cioè gli Stati uniti, vediamo che proprio la libertà della società civile – essendo egemonizzata dai bianchi, che hanno conquistato l’autogoverno in una sanguinosissima lotta contro il dispotismo della Gran Bretagna, terra natale del liberalismo – “può andare di pari passo con l’oppressione delle minoranze etniche e persino con la loro decimazione e con il loro annientamento (come avviene nel caso dei pellerossa)” (98).
Note:
[1] Losurdo, Domenico, La questione comunista. Storia e futuro di un’idea, introduzione e cura di Grimaldi, Giorgio, Carocci editore, Roma 2021, p. 53. D’ora in poi citeremo direttamente nel testo quest’opera indicando fra parentesi tonde il numero della pagina
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