Giulio Di Donato 

Si nasce incendiari e si muore pompieri: con questo celebre proverbio si potrebbe liquidare la triste e misera parabola di Luigi Di Maio e dei tanti come lui.

Ma se è vero che il trasformismo del barricadiero che diventa vestale fanatica dello status quo una volta ammesso nelle stanze del potere è una costante della storia, è altrettanto vero che il voltafaccia di tanti ex 5 Stelle rimanda a una vicenda più specifica su cui è utile riflettere criticamente: ai processi di formazione e selezione della classe dirigente grillina.

Valutando la questione dall’esterno e a posteriori, sembra che ci sia stata all’interno del Movimento una sorta di selezione naturale che ha avvantaggiato le persone dotate di maggiore carisma e abilità comunicativa, un meccanismo di promozione in cui l’elemento della fiducia personale, pure importante, ha giocato un ruolo preponderante rispetto all’elemento politico, fino al punto da prescinderne completamente. Se qualcuno, come ad esempio Alessandro Di Battista, era animato da una tensione politico-ideale vera e poi ha fatto un suo personale percorso in vista di una sempre maggiore coscienza collettiva (nei non-luoghi della politica attuale non c’è spazio per esperienze in comune di acquisizione di saperi e conoscenze), c’era anche chi, come appunto Di Maio, muoveva da un generico e impolitico rancore anti-casta e da un desiderio feroce di riscatto individuale, quindi era potenzialmente pronto a servire i più diversi interessi se questi combaciavano con le proprie ansie di collocamento e ricollocamento nei palazzi del potere.

Si può quindi affermare che Luigi Di Maio ha incarnato la versione trash del realismo politico e del rampantismo tardo-democristiano: alla base del suo attivismo non si riscontra nessun senso di giustizia sociale e di legalità democratica, ma un misto di invidia sociale, bramosia di potere fine a sé stessa e familismo/amichettismo amorale.

In molti esponenti della galassia grillina, oltre la battaglia sacrosanta per un ricambio a livello di classi dirigenti, c’era poco o nulla: non una particolare visione del mondo, ma nemmeno una grande idea politica, che non fosse la rottamazione del vecchio, per cui valesse la pena battersi.

Insomma, fare seriamente i conti le miserie umane e politiche di Di Maio e dei suoi simili significa rivedere criticamente alcuni assunti iniziali, che poi si sono rovesciati nel loro esatto contrario: la retorica dell’orizzontalità si è tradotta in dinamiche di cooptazione spesso assai opache, il culto della solitudine dei puri si è tramutato nell’ossessione per gli accordi e le alleanze, l’opposizione barricadiera in governismo subalterno, il dubitare di tutto nell’ingoiare ogni cosa, l’ostilità al mainstream nell’adesione alle parole d’ordine del progressismo delle élite. Dall’“uno vale uno” si è così passati all’“uno vale zero”, anche dal punto di vista del consenso elettorale (vedi Di Maio), e all’uno ben al di sopra dei molti lasciati in uno stato di passività e impotenza (tenuti lontani cioè dalle segrete stanze di Grillo e Conte).

Eppure, tra il richiamo acritico al mito delle origini e l’accondiscendenza verso l’establishment, tra elogio della liquidità e ridotta identitaria, c’è la possibilità di sviluppare una terza via, ove si sappia discernere ciò che è vivo nell’impostazione originaria da ciò che invece deve essere considerato caduto perché privo di fondamento e causa prima degli esiti attuali: ad una comunicazione polarizzante votata alla trasversalità andava e va affiancato un profilo politico-culturale più solido e definito, ovvero visioni e simboli che siano capaci di scuotere positivamente le coscienze e di suscitare consensi soprattutto fra le giovani generazioni, perché se non si conquista la mentalità collettiva e non si instaurano i giusti legami internazionali il potere politico non può che avere basi fragili e compiti minimi.

Allo stesso tempo, alle conseguenze dell’autoreferenzialità e dell’opportunismo bisognerebbe reagire investendo su un’idea di dialettica positiva tra orizzontalità e verticalità, tra istanze partecipative dal basso e ruolo imprescindibile di guida, di indirizzo e di formazione/selezione dall’alto. Perché la volontà politica è sempre il frutto di un processo di maturazione/articolazione e di connessione, anche sentimentale, tra alto e basso; è in definitiva sempre l’esito di una qualche forma di mediazione rappresentativa.

Chi ricopre ruoli di leadership è chiamato quindi a formare e valorizzare le migliori sensibilità, giudicando il singolo attivista dal punto di vista della passione e dell’intelligenza politica, più che dal punto di vista delle sue qualità di individuo privato; premiando chi sente dentro di sé quel “grido dell’anima” urgente, drammatico, nazionale-popolare, “scritto dagli uomini per altri uomini”, all’insegna del senso dell’autonomia della politica e della giustizia sociale.

Si tratta allora di passare, parafrasando Max Weber, dalla dialettica tra etica dell’uomo probo ed etica dei competenti nel segno del mito della società civile, che ha caratterizzato gli ultimi tre decenni della storia del nostro Paese, a una dialettica di tipo nuovo tra etica delle convinzioni politiche ed etica della responsabilità pubblica.

In tempi di spoliticizzazione e neutralizzazione tecnocratica di matrice globalista e neoliberale, il tradimento del Di Maio di turno viene fatalmente giudicato con le lenti della morale privata (anche perché non c’è un passaggio da un’idea ad un’altra, ma un semplice mutamento di umori e di contesti di vita), generando un tipo di indignazione che il più delle volta precipita nel riflusso rancoroso; quando invece la contesa coinvolge grandi visioni mobilitanti, la partita degli abbandoni e degli avvicinamenti non raffredda la temperatura dell’impegno e della fiducia nella politica.

Certo, in questa fase di stanchezza democratica e di crisi radicale dei meccanismi di rappresentanza/rappresentazione finora conosciuti, è inevitabile che il giudizio politico coincida e si risolva per la gran parte nel giudizio sulla persona: contano più i vizi e le virtù private che le pubbliche inadempienze, si potrebbe dire. Al tempo della politica ridotta al livello elementare dell’inimicizia assoluta e della compensazione moralistica, più che il “corpo politico” legato a una specifica funzione pubblica, è il “corpo naturale” di quella specifica individualità concreta chiamata a ricoprire ruoli politico-rappresentativi apicali a divenire oggetto di identificazione e investimento emotivo.

Naturalmente la doppiezza dei “puri” non solo alimenta la nostalgia per la doppiezza “Migliore” del totus politicus, ma approfondisce sempre più la frattura tra lo spettacolo offerto dal carnevale della politica minima e il sentire giustamente indifferente e infastidito di buona parte della popolazione italiana, che continuerà a disertare i riti logori della democrazia formale per lasciarli in dote alle ztl, ai paladini di single-issue e agli ambienti più ideologizzati.

Tuttavia le vie della politica, se da una parte si chiudono, dall’altra sono destinate ad aprirsi: chissà che l’esodo dai canali tradizionali della partecipazione (per esplorare vie inedite, ma più promettenti?) non preluda alla comparsa di una verticalità di tipo nuovo (auspicabilmente sotto forma di “cesarismo progressivo”) o all’irruzione di nuovi “barbari” che prima o poi assedieranno la cittadella di una politica autoreferenziale e priva di propulsione ideale. Speriamo solo che questa nuova irruzione dell’imprevisto avvenga in un quadro di vera rinascita e non di caduta definitiva nella barbarie.

Insomma, anche se non è più il tempo per una visione mitologica e totalizzante della politica capace di rispondere a tutti i problemi dell’uomo, non è tuttavia scritto in alcuna necessità della storia che lo sbocco sia per forza l’estremo opposto di una politica ridotta a giochi di potere personale, a iniziative di corto respiro, alla pratica del piccolo cabotaggio, a diplomatismi, a pura amministrazione dell’esistente.

Seppure in una situazione largamente compromessa, anche alla luce dei fallimenti e dei tradimenti dei presunti homines novi della politica italiana, c’è ancora oggi – noi crediamo – la possibilità di introdurre un elemento di resistenza a un tempo politica e spirituale, in grado di prefigurare l’annuncio di una vita in comune diversa

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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