“La tecnologia spegne la morale”, è il titolo di una lunga intervista rilasciata da Sheila Jasanoff a Paolo Giordano (“La lettura del Corriere della Sera” del 30 aprile 2023): in quella sede la studiosa indo americana affronta l’interazione tra ricerca, cittadinanza, politica anticipando alcuni temi come la pandemia (“gli abitanti di un Paese hanno più fiducia nella medicina se hanno fiducia nei rispettivi governi, a prescindere dalla qualità della democrazia”), lo choc climatico(“è un problema educativo”)l’intelligenza artificiale (non è poi così intelligente, ma il guaio è che siamo eticamente passivi).

La richiesta è quella di un “prossimo illuminismo: un rapporto più umano con scienza e tecnologia”.

Rimane così sospeso l’interrogativo di fondo: quale “politica” potrebbe servire come tramite e governo di diffusione di questo nuovo illuminismo e di questo diverso rapporto tra l’agire umano in funzione sociale e l’apparente “neutralità” della relazione tra scienza e tecnologia?

Un interrogativo particolare in tempi nei quali appare dominante la tecnica economica per il cui dominio ricompare lo spettro della guerra globale?

Le complesse vicende delle diverse crisi finanziarie e il loro riflesso sul pensiero e la realtà politica hanno prodotto l’affermarsi di una vera e propria egemonia della tecnica mentre appare sfumare quell’accelerazione nel processo di dismissione della realtà dello “Stato-Nazione” che molti avevano pronosticato avvenisse in tempi brevi.

La pretesa dell’affermazione piena del marginalismo quale fattore teorico fondamentale su cui si è basata l’offensiva neo-liberista fin dagli anni’80 ha quindi prodotto accompagnandosi al clamoroso sviluppo di una innovazione tecnologica misurata sull’affermazione del “virtuale” effetti molto precisi dei quali forse si comincia soltanto adesso a rendersi pienamente conto.

La scienza economica è stata intesa come una disciplina autoreferenziale che finisce con l’assorbire ogni tensione conflittuale proveniente dal mondo della politica assumendo integralmente un ruolo di governo fondato sul funzionamento del mercato concepito come istituzione autoregolata.

Un’autoregolazione in grado di massimizzare le proprie utilità esclusivamente secondo le curve della domanda e dell’offerta.

Insomma: “l’economics” al posto della “policy”.

E’ questo il punto che oggettivamente viene sollevato attraverso la riflessione sulla ricerca del “nuovo umano” rispetto alla “relazione secca” scienza/tecnologia.

Ne risulta così completamente spiazzato il concetto di “autonomia del politico” che aveva egemonizzato, almeno a partire dagli anni’80 del XX secolo, qualsiasi prospettiva teorica riguardante l’azione di governo della società.

L’ “autonomia del politico” aveva accompagnato – appunto – il ciclo liberista con il compito, anteposta la funzione di “governabilità” a quella di “rappresentanza”, di sfoltire la domanda sociale, riducendone al minimo il rapporto proprio il fantasma con la democrazia liberale, ridotta al ruolo dello Stato, sulla linea del funzionalismo strutturale di Luhmann.

Una vittoria piena, all’apparenza, della riflessione di Heidegger sull’essenza della tecnica.

Una sconfitta, altrettanto piena, per chi pensava di costruire un’ipotesi diversa, attraverso una strategia di “contenimento” del prevalere dell’economia sulla politica, dimenticando la lezione di Hilferding sul prevalere del fenomeno della finanziarizzazione.

Sul piano politico siamo di fronte alla creazione di una nuova oligarchia, indifferente alla realtà democratica e alle istanze sociali.

Come può essere possibile contrastare questa nuova dimensione egemonica, attraverso la quale sul piano concreto si sta cercando di porre quasi “al di fuori dalla storia” milioni di persone considerate semplicemente come oggetti da sfruttare.

Non sarà sufficiente riproporre la realtà di un’organizzazione politica degli “sfruttati” posta al di fuori e “contro” la realtà dell’unificazione tra economia e politica.

L’obiettivo dovrebbe essere quello di riguadagnare tutta intera la dimensione politica dell’economia rovesciando completamente l’impostazione oggi temporalmente prevalente.

Così è necessario tornare a introdurre un principio di “contraddizione sistemica”, nel rapporto di tensione tra scienza e tecnologia.

Deve riemergere una visione di “distinzione – opposizione” che non riguardi soltanto le finalità, per così dire, “ultime” nella prospettiva di costruzione di una società diversa, ma già nell’immediato con la ricostruzione di un principio di dialettica politica.

Una capacità dialettica politica non schiacciata sull’esistente e capace di porci al di fuori dal processo in corso di “rivoluzione passiva”.

Anzi, l’espressione di una capacità di dialettica politica che pur nella scansione obiettiva di finalità limitate all’interno di successivi passaggi di transizione, risulti in grado di proporre un diverso, alternativo, edificio sociale.

In questi anni le forze della sinistra hanno finito con l’acconciarsi al ribadimento della catastrofe, senza riuscire in qualche modo ad allontanarla: se si pensa che sia ancora possibile, invece, un movimento di liberazione da quella stessa catastrofe che stiamo vivendo allora bisogna porsi, ancora, il tema del guardare in modo diverso al rapporto tra l’uomo e il mondo rispetto a quello stabilito, e apparentemente obbligato, dalla triade sfruttamento- appropriazione – dominazione.

Di Franco Astengo

Lunga militanza politico-giornalistica ha collaborato con il Manifesto, l'Unità, il Secolo XIX,. Ha lavorato per molti anni al Comune di Savona occupandosi di statistiche elettorali e successivamente ha collaborato con la Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Genova tenendo lezioni nei corsi di "Partiti politici e gruppi di Pressione", "Sistema politico italiano", "Potere locale", "Politiche pubbliche dell'Unione Europea".

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