Mappa dell’immenso Mali

Ad Aminata Traoré, ex ministro della Cultura,  voce del Mali.

Il Mali è immenso. Immensa la geografia, la storia e la cultura. Quasi metà del Mali è un immenso deserto, il Sahara. Anche la povertà è immensa, non tutti i bambinI arrivano ai cinque anni. Ho trascorso in Mali una quarantina giorni, trenta a Manantali, per lavoro, e dieci in giro, sufficienti per rendersi conto dell’immensità del paese, ma non per conoscerlo.                   

 Arrivo di sera a Bamako con un volo Air France da Parigi. L’ Hotel De L’Amitié è un albergo moderno,  senza anima e personalità, salvato da una vista spettacolare sul fiume Niger, sotto un cielo stellato. Appena mi sveglIo mi affaccio al balcone, il sole è già alto nel cielo. Di fronte c’è il fiume chiaro e calmo.In basso i giardini sono verdi, gli alberi di palma alti e immobili. Di là del fiume il profilo della città si confonde in una leggera nebbia tropicale. L’aria di questa Africa è tiepida, non è ancora infuocata, ma tra poco inizierà il calore, la stagione delle pioggie è lontana.  Per andare a Manantali prendo il treno per vedere un pezzetto di Mali. Un proverbio dice:  meglio vedere una volta con i propri occhi che ascoltare cento volte. Ad ogni stazione donne in boubou colorati offrono riso con verdure, frutta e acqua. Il treno è lento e le ore del viaggio trascorrono lentamente.                   

Manantali e letteratura poliziesca. L’acqua è importante per il Mali, la diga di Mantali produce dall’acqua elettricità, anche per il vicino Senegal. Manantali  è  incastonata tra  montagne, il fiume e foreste e offre un contrasto architettonico tra i tetti a punta delle capanne rotonde in bambù e le case del campo del cantiere. I tetti delle capanne mi ricordano i  cappelli vietnamiti, ho lasciato il Viet Nam da poco. Il fine settimana visito i dintorni: laghi,fauna selvaggia e villaggi. Le sere leggo i gialli, che mi sono portato dall’Italia, ma li termino in un paio di settimane. Un collega francese, Jean-Philippe mi presta un libro con due romanzi polizieschi, L’assassin du Banconi e L’honneur des Keïta di uno scrittore maliano, Moussa Konaté. Oltre che polizieschi i due romanzi sono un ritratto della società del Mali. Nel primo le credenze popolari, l’influenza dei marabout e, soprattutto, la denuncia della polizia politica e dei loro metodi di tortura. Nel secondo i segreti di vita di una famiglia in un villaggio. Un clan chiuso con pesanti segreti. In certo senso sono un’introduzione al paese dove stavo trascorrendo alcuni giorni.                       
Oro. L’oro del Mali è l’oro. Già ai tempi dell’Impero del Mali la sua ricchezza erano miniere d’oro. Nel quartiere Bamako-Coura, in  centro città vi sono decine di gioielleri che vendono gioielli in oro di produzione artigianale maliana. Molte sono ancora le miniere d’oro, ma appartengono, in genere, a stranieri. Con un aereo privato volo da Mantali alla miniera di Syama, 300 chilometri a sud-ovest di Bamako. C’è interesse a comprare due sonde che sono state importate per il consolidamento della diga di Mantali, ma possono essere utilizzate per sondaggi a diamante. A Syama il rumore assorda giorno e notte. Fa molto più caldo che a Manantali. Perforazioni  a diamante individuano l’estensione del deposito d’oro.  Gli strati estratti vengono analizzati. Una fabbrica rompe il minerale estratto e recupera circa un paio di grammi d’oro per tonellata di minerale.  Mentre in miniera e nella fabbrica lavorano neri, maliani e africani, l’unico luogo frequentato quasi solo da bianchi è il Bar Gold, un caffè dove si beve birra, una piscina,un bigliardo, aria condizionata. La miniera già sfruttata è un grande mare di fango, profondo due o tre metri. Ogni tanto l’oro estratto prende il volo, ma non tutto atterra a Bamako.
Bamako. Bamako città mussulmana. Anche quando ritorno a Bamako vado ad abitare all’Hotel De L’Amitié. Mi sveglia il canto un muezzin con la prima preghiera del mattina. Il sole non è ancora sorto, quando sorge faccio colazione nella terazza dell’albergo. Per andare in centro attraverso il Niger, vi è un lungo ponte dove un cartello dice il nome,” Pont du Gardien du Lieux Saints”  e che è stato regalato dal re saudita re Fahd.  Su muri della città vi sono scritte: ” Viva l’Islam”,  ” Abbasso la pornografia”, “Chiudere tutti i bar e i night club”, “Allah akbar”. Sembra che lo scopo principale dell’Islam sia la chiusura di certi locali. Bamako però è colorata, nelle strade si sentono musica e canzoni sensuali, e le donne non portano i veli, ma hanno le spalle nude e alcune ragazze indossano minigonne. Nei mercati si vendono molti gris-gris, l’ amuleto vudù  che protegge dalla sfortuna e attira la buonasorte, niente a che fare con l’Islam, ma con religioni etniche.  Insomma, Bamako non sembra per niente a una città mussulmanadell’ Arabia Saudita.
Musica. Il Mali è un paese di musiche, ogni gruppo etnico ha la sua. La musica e i canti accompagnano tradizionalmente tutti gli eventi della vita. Ho preso  il treno per  Manantali alla stazione di Bamako e vi sono ritornato. Nel 1970 nel buffet del Station Hotel fu fondata la Rail Band divenuta poi la Super Rail Band  fu una tappa fondamentale per Salif Keita e Kante, e Kante Manfila.  Quando ritorno a Bamako compro diversi cd di Salif Keita.
Cinema. Il francese, Jean-Philippe, che mi ha prestato i due romanzi di Moussa Konaté mi  mi parla del cinema del Mali, che si é sviluppato dopo l’indipendenza nel 1962, innanzituto nel periodo socialista fino al 1968. Poi la dittatura militare ha condizionato, ma non completamente, la libertà d’espressione filmica. Quei film hanno  temi vari, ma profondamente radicati nella cultura del paese e nell’ambiente socio-politico del Mali. Jean-Philippe mi fa il nome di alcuni cineasti, Souleymane Cissé, Cheick Oumar Sissoko ed altri, che mi segno. A Bamako leggo nei giornali i film che proiettano nei cinema della città, il Rex, vicino alla stazione, il Soudan, il Babemba. Tutti proiettano film americani con sottotitoli francesi o doppiati in francese. Visito il Centre français de documentation de Bamako all’ambasciata di Francia, ma, al momento, danno solo film francesi di qualità. Casualmente compro la video cassetta di un vecchio film di Cheick Oumar Sissoko, Nyamanton ou la leçon des ordure. E’ un film per ragazzi, protagonisti sono due giovani, sorella e fratello, costretti a lavorare per potersi comprare un banco a scuola. Il fratello racoglie immondizie. La trama si svolge a Bamako e ed è una forte denuncia delle condizioni di vita nei quartieri poveri della città.
Segou, Mopti, Djenne. Segou si trova a nord-ovest di Bamako, a circa 200 chilometri. A tratti lungo la strada, ai lati, vi sono degli alberi verdi che contrastano con un paesaggio di terra color ocra e di sabbia rossa. La visita a Segou è un viaggio nel passato coloniale. Gli edifici pubblici, il municipio, la caserma, l’ospedale, la cattedrale sono architetture coloniale, colori sono delicati, giallo dorato, arancione azzurro. Anche le abitazioni, ville o costruzioni a due o tre piani sono costruzioni di quando il Mali era Sudan francese. Non è difficile immaginare come i francesi vi vivessero comodamente: la siesta nel pomeriggio, ricevimenti la sera con abiti lunghi e smoking tropicali, camerieri in livrea. Francesi normali in quegli anni a Segou  erano principi e principesse. Tutta la città  del Sudan francese ora nel Mali indipendente è in uno stato di abbandono. Il fiume, il Niger, è sempre presente lo si vede. In una strada che porta al fiume un portone aperto da su un cortile, una sala cinematografica dell’epoca coloniale sulla spiaggia del fiume. I muri che la recintano sono gialli, i banchi e lo schermo sono i pietra ancora intatta. Vi è una sala di proiezione in mattoni. Venivano proiettati film francesi con Jean Gabin e Michelle Morgan. Ora, forse, se il tempo lo permette, le pioggie, i film che si possono vedere sono americani, indiani di Hong Khong.                                                       A Mopti mi fermo un paio per guardare un’ edificio di un architetto italiano, Fabrizio Carola. Di lui a Bamako ho visto il Mercato delle Erbe Mediche. Carola non usa il legno, che contribuisce alla desertificazione. Il sistema costruttivo si basa sull’esclusivo utilizzo di strutture funzionanti per compressione: archi, volte e cupole. La malta usata in entrambi i casi era fatta di san. I materiali erano pietra locale per la piattaforma di terra e mattoni di terra cotta per gli archi, le volte e le cupole. Gli archi e le volte sono stati costruiti con l’aiuto di forme di legno fatte sul posto. d e cemento. Non sono richiesti rendering o finiture. Sono colpito per il sostanziale disinteresse in Mali per le costruzioni di Fabrizio Carola, che sono un sistema costruttivo originale che non si è diffuso.



Un progetto dell’arch. Fabrizo Carola

Djenné. Djenné è un monumento storico, circondato dall’acqua del fiume Bani. Si raggiunge con un battello. E’ isolata, a stento il secondo millennio, che nel resto del mondo sta terminando, è arrivato qui. Vi è una sola linea telefonica, che non sempre funziona, la posta arriva e parte con irregolarità una volta per settimana. Non c’è nessuna parabola che pure esistono in Mali. Richiede tempo per conoscerla, io vi ho trascorso poche ore, l’ho guardata poco, ho letto poco. E’ domenica pomeriggio, Djenné è deserta, abitata solo dal calore. Ritorno il giorno dopo. E’ lunedi, il giorno dopo, giorno di mercato. La spianata di fornte a una maestsa mosche si riempie di vita e di colore. Per lo più donne  vendono di tutto. Le più giovani hanno gioielli e sorridono. Le merci arrivano, da sud e da nord in piroghe sono zeppe di cotone, riso, pesci, noci di cola. Si vendono montone grigliato e te alla menta che odorano il mercato.  Per il mercato girano anche dei tuareg nel loro tradizionale vestito blu. C’è  musica da radioline. Cammino un pò, con una guida, per le stradine di Djenné le case sono tutte in fango color ocra, l’architettura è omogenea. Rimpiango di non avere con me una macchina fotografica. Me ne vado presto, un pò dopo mezzogiorno, ma prima di lasciare Djenné la guida mi racconta la sua leggenda di Djenné. Gli dico di parlare piano, traduco e scrivo le sue parole su un quaderno.
E’ isolata, una sola linea telefonica, che non sempre funziona.
La leggenda di Tapama a  Djenné.  Si tratta di un mito, del 1200, fondativo della città. Djenné era un villaggio agricolo  e di pesca dove convivevano contadini Bobo e pescatori Bozo. Dopo la distruzione di Koumbi, capitale del regno di Wagadu, i Soninké si stabilirono a Djenné.  Rifiutando le case dai tetti di paglia, volevano costruire case di mura. Ma ogni volta che innalzavano le mura delle case, a una certa altezza, l’argilla si trasformava in sabbia e le pareti crollavano. I costruttori si erano impegnati a costruire un recinto per proteggere il loro luogo di residenza dall’aggressione. Un oracolo fu consultato per scongiurare l’incantesimo malvagio. Questi disse che  semi umani, sperma, avevano inquinato l’acqua del fiume e che era necessario un sacrificio umano per ristabilire l’ordine, perché gli spiriti dell’acqua erano arrabbiati. L’oracolo indicò cheTapama, una giovane Bozo, doveva essere murata viva in modo che le pareti reggessero. La designazione della ragazza provocò nei Djenenke un sentimento misto a dolore e pena; ma i genitori di Tapama accettarono la decisione dell’oracolo con orgoglio, per loro la scelta del sacrificio della loro figlia era un motivo d’onore. Per questo  la madre di Tapama incoraggiò sua figlia a sacrificarsi con dignità e onore. Il sacrificio doveva avvenire il settimo giorno del mese lunare. Nel giorno stabilito, mentre le ragazze che l’accompagnavano piangevano, Tapama cantava: “Che onore per me! Ah, che onore! Sono orgogliosa di morire per il mio villaggio. Orgogliosa di morire per prosperità del mio villaggio.Domani, il mio nome sarà onorato. Il nome di mio padre sarà onorato. Il nome di mia madre sarà onorato. Sono orgogliosa.” I muratori erano al lavoro e aspettavano che la ragazza per murarla. Tapama era vestita come una principessa e fu consegnata ai muratori. Vennero cantati i meriti del padre, Kalifa Djenepo,  e della  madre della ragazza. Tapama ora piangeva e il fiume si infuriò, le acque strariparono. Le pareti si scioglievano sotto la furia delle acque distrussero le pareti. I muratori non si scoraggiarono ripresero  la costruzione del muro. Quando le pareti raggiunsero le  ginocchia della ragazzza e le sue lacrime si mescolarono con le acque le pareti crollarono. E così più volte fino a che i muratori riuscirono a costruire i muri sino al collo di Tipama. Allora Tipama Djenepo smise di piangere fu murata e morì. Il lutto durò sette anni, sette mesi e sette giorni.  La tradizione dice che ogni volta che qualcuno canta la canzone di Tapama, conosciuta come Canzone di Mezzanotte, a Kanafa, un quartiere di Djenné, si sente il respiro della ragazza.  
Paesi Dogon, Timbuctu, il Sahara. Non ho tempo per visitare i paesi Dogon, Timbuctu e, tantomeno il Sahara. Dei Dogon  in un piccolo museo di Bamako vedo. maschere, costumi, e foto della gente, della falesia e dei villaggi. Compro e leggo Les Dogon du Mali di Gérard Beaudoin. Di Timboctu leggo in una rivista culturale maliana: la sinagoga, il mercato e il cimitero ebrei, la biblioteca, le università, le moschee, le arti, le musiche e le danze.  A poche ore di cammello o di fuoristrada c’è il Sahara, quasi la metà del Mali. Il Sahara è abitato dai tuareg che non sono maliani, ma tuareg. Non conoscono confini e limiti territoriali, non è difficile vederli a Bamako o in altri luoghi vendendo i loro gioielli in argento.
Aminata Traoré. Tempo dopo aver lasciato il Mali compro e leggo L’immaginario violato, Le viol de l’imaginaire di Aminata Traoré. Di Aminata Traoré si parla molto a Bamako, per essere stata ministro della cultura e per il suo impegno sociale nel qartiere popolare di Missira dove ha fondato il centro culturale San Toro, dove una galleria espone sculture, quadri, costumi maliani. Al San Toro acquisto una maschera in legno Dogon. Lo scopo del libro è analizzare il ruolo della globilazzione a creare povertà, ma nei primi capitoli Amina Traoré ricorda l’indipendenza del 1960. Sono ricordi personali, nel 1960 era adolescente  ma anche ricordi storici. Dopo l’indipendenza fu tentato di costruire una società socialista. Il tentativo fu fatto fallire dall’interno, ma in prima fila dalla Francia. Il Mali visse quello che vissero gli stati africani, che con l’indipendenza sconfissero il colonialismo, ma dopo furono conquistati dal neocolonialismo.



Amina Traoré

Dal Mali porto con me una maschera in legno Dogon, che in Italia scopro che all’interno vi sono tarli che la mangiano , i cd di Salif Keïta, il libro Le Dogon du Mali, una guida turistica del paese, molti il rimpianto di doverlo abbandonare.
A Marsiglia poco dopo compro Un Pays Pauvre di Nadia Khouri-Dagher un libro utile per capire il Mali di una volta.



Copertina del libro di Nadia Khouri-Dagher

Nadia Khouri-Dagher è una giornalista e reporter libanese, specializzata nel mondo arabo, i paesi del sud e il multiculturalismo.

Di Francesco Cecchini

Nato a Roma . Compie studi classici, possiede un diploma tecnico. Frequenta sociologia a Trento ed Urbanistica a Treviso. Non si laurea perché impegnato in militanza politica, prima nel Manifesto e poi in Lotta Continua, fino al suo scioglimento. Nel 1978 abbandona la militanza attva e decide di lavorare e vivere all’estero, ma non cambia le idee. Dal 2012 scrive. La sua esperienza di aver lavorato e vissuto in molti paesi e città del mondo, Aleppo, Baghdad, Lagos, Buenos Aires, Boston, Algeri, Santiago del Cile, Tangeri e Parigi è alla base di un progetto di scrittura. Una trilogia di romanzi ambientati Bombay, Algeri e Lagos. L’ oggetto della trilogia è la violenza, il crimine e la difficoltà di vivere nelle metropoli. Ha pubblicato con Nuova Ipsa il suo primo romanzo, Rosso Bombay. Ha scritto anche una raccolta di racconti, Vivere Altrove, pubblicata da Ventura Edizioni Traduce dalle lingue, spagnolo, francese, inglese e brasiliano che conosce come esercizio di scrittura. Collabora con Ancora Fischia IL Vento. Vive nel Nord Est.

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