Tutti i bei proclami propagandistici del governo sull’affezione da parte della maggioranza di destra nei confronti delle fondamenta del fu stato-sociale, dei beni comuni e dell’interesse della nazione, si infrangono impietosamente davanti allo spettro manifesto delle cifre: prima fra tutte quella che riguarda l’investimento sempre più ridotto di risorse in materia di sanità e salute pubblica.

E’ un’ottima notizia lo svolgimento della manifestazione che sabato 24 giugno aprirà una mobilitazione sindacale, associativa e sociale a favore del comparto appena citato. Il governo intende ridurre la spesa sanitaria dal 7 al 6% del PIL, allontanandosi così sempre di più dalla media europea (che viaggia intorno all8%; nei paesi OCSE sia attesta quasi al 10%, 9.8% per la precisione) e da quella dei singoli Stati dell’Unione.

Al pari fa con le pensioni e i salari, privatizzando, liberalizzando, introducendo sempre maggiori ostacoli ad un’espansione dei diritti sociali, ad un riequilibrio del costo della vita, obbedendo ad una logica liberista che è la linea economica dominante nell’esecutivo e nella maggioranza parlamentare (con riflessi marcati anche nel centro e in parte a sinistra).

La nostra sanità, regionalizzata e ridotta a venti tipi di modelli differenti, classificabili a seconda della ricchezza dei territori e, quindi, espressione di una ineguaglianza di prestazioni che registra delle disparità eclatanti tra nord e sud del Paese, è passata dall’essere una eccellenza mondiale ad uno strumento altamente insufficiente per larga parte della popolazione.

I dati dell’ISTAT confermano che milioni di italiani rinunciano alle cure a causa dei costi e a causa della lentezza con cui le prestazioni vengono erogate: per fare un esame diagnostico servono sei mesi almeno, nel migliore dei casi. A volte si sorpassa l’anno… Per ricevere i risultati passano settimane e settimane. Anche soltanto per un semplice controllo di routine, di mera prevenzione, l’assenza del numero adeguato di personale la si percepisce senza alcuna ombra di dubbio.

Soltanto in alcune regioni come il Lazio – calcola la CGIL – occorrerebbe assumere più di diecimila nuovi infermieri, medici, specialisti. Ed andrebbe investito parte di quel PNRR, che invece langue stancamente dopo tutti questi mesi di promesse magnificenti del governo Meloni, proprio nell’ammodernamento delle strutture, nella riqualificazione di tanti settori e nella creazione di una sanità pubblica di prossimità che, oggi, è praticamente inesistente.

Tutti i deficit che si possono registrare negli ospedali, tutti i ritardi, le mancanze, le inefficienze sono il prodotto di una progressiva disincentivazione della complessa macchina di un Sistema Sanitario Nazionale che oggi viene meno sotto il peso di una proposta di autonomia differenziata che, ancora più di prima, consentirà alle Regioni di amministrare appalti, forniture, gestioni contrattuali, salari, disposizione dei presidi ospedalieri, aperture e chiusure.

Una visione di insieme della sanità pubblica è quindi esclusa dall’agenda liberista di governo: sarebbe un pericolo troppo grande per quella privata, per un suo ulteriore accrescimento a scapito di un diritto fondamentale, costituzionalmente sancito e difeso nella sua oggettiva incentivazione dentro il quadro di una uguaglianza che le destre non hanno nemmeno in mente come fattore fondante la Repubblica e, con essa, l’insieme di ciò che chiamiamo “democrazia“.

Una democrazia non può essere soltanto un regime governativo, una forma e una sostanza amministrative che si riverberano nei tecnicismi e negli automatismi che regolano i rapporti tra i poteri dello Stato e tra questi e la vita dei cittadini. Proprio nel biennio pandemico appena trascorso abbiamo avuto la prova che il diritto alla salute è per chi governa uno dei primissimi doveri da espletare e da garantire senza alcuna distinzione.

Salvo quella tra pubblico e privato: se per liberali e liberisti è soltanto una questione di concorrenza che dovrebbe stimolare il primo a fare meglio e il secondo ad incassare di più, per chi ha una visione anche soltanto timidamente sociale delle garanzie costituzionali su ogni persona e sulla collettività, si tratta invece di una incessante corsa al rialzo delle quotazioni di privilegi che mortificano un diritto che, ben più che affidato soltanto alla nostra Carta fondamentale, dovrebbe avere i caratteri dell’universalità.

La Covid19 ha messo in straordinaria negativissima evidenza come la salute di ognuna e ognuno di noi sia tutelabile soltanto a partire dai grandi centri urbani, là dove appunto la ricchezza si esprime nel numero; mentre tanti comuni della Repubblica sono rimasti privi di servizi fondamentali, di cure elementari, di personale di base.

La prossimità di cui si faceva cenno all’inizio dovrebbe essere la messa in pratica di una presa in cura dei cittadini-pazienti il più vicino possibile alle loro residenze, alle loro scuole, alle residenze assistite e protette. Invece, spesso e volentieri, i piccoli comuni sono la periferia estrema dei diritti, l’ultima landa di un Paese che lascia sempre più indietro chi ha meno e mena vanto per una ricchezza nazionale fondata sul mito assoluto dell’impresa e del privato.

Premesso che ci rendiamo conto di vivere nel capitalismo e che, quindi, una data impostazione influenza inevitabilmente un carattere completamente pubblico dello Stato e delle sue prerogative (quindi delle sue funzioni primarie), è inaccettabile che si investa sempre meno nella sicurezza sociale dei cittadini e che si affidino ai grandi gruppi privati i rifornimenti esclusivi per gli ospedali, gli appalti per esami esterni, le sovvenzioni per la costruzione di case di cura gestite completamente da esterni al servizio pubblico.

Gli anziani, in un paese veramente civile, dovrebbero poter trascorrere gli anni restanti della loro vita il più possibile nel loro ambiente e non essere ammassati in residenze protette dove, per effetto di tutto questa impostazione alla ricerca del profitto e non al miglioramento dei servizi, si utilizza il minimo del personale, si acquistano prodotti scadenti e inadatti ad una dieta confacente alle loro esigenze, si comprimono gli spazi e si fanno sopravvivere persone con gravi patologie mentali in camere anguste, in una coabitazione che diventa un ulteriore, deprimente coercizione.

Tutti questi fatto sono vere e proprie violenze. Violenze psicologiche, sovente anche fisiche, subite dagli ospiti delle RSA e delle RP, mentre il personale che li dovrebbe assistere è frustrato dal troppo lavoro, da paghe indecenti, da una vita esterna che non li tratta certamente meglio.

Per quanto il governo si sforzi di affermare che “tutto va bene, madama la marchesa” e che, quindi, a breve vedremo i risultati degli investimenti dei soldi del PNRR, le cifre, come già detto, parlano da sole e continuano a dirci che meno miliardi per la sanità vuol dire anche meno ricerca, meno sperimentazione, meno studio e meno considerazione del ruolo delle università e della scuola in generale nella preparazione di nuovi medici, di nuove eccellenze e anche di nuovo personale ospedaliero.

Il sindacato fa bene a saldare le lotte, a far spiegare ai lavoratori della sanità i problemi di tutto il comparto che si riversano sull’insieme della società e, quindi, anche del resto del mondo del lavoro. Deve altresì, in questa lotta pubblica, sociale e di classe, inserire la questione istituzionale, perché quella dell’”autonomia differenziata” calderoliana non è una riforma che livella le diseguaglianze ma, anzi, le amplifica e le rende più evidenti proprio perché improntata a liberalizzare i servizi.

In questo scenario abbastanza inquietante per il complesso dei diritti fondamentali di ogni persona, di ogni cittadino, assisteremo, se non sarà ostacolata la sempre maggiore regionalizzazione del sistema sanitario pubblico, ad una tariffazione dei servizi con disparità esagerate, ad esempio, tra Sicilia e Trentino, tra Calabria e Lombardia, tra Campania e Veneto. Così, pure, una maggiore autonomia sulla gestione dei fondi integrativi aprirebbe la strada ad un ricorso sempre maggiore alle assicurazioni e al mutualismo privato, lacerando la già fragile tenuta del SSN in merito.

I lavoratori e le lavoratrici, dai medici agli infermieri, dal personale OSS a tutti gli indotti che riguardano il sistema sanitario delle singole regioni, sarebbero penalizzati anche nella contrattazione dei loro rapporti occupazionali. La stessa medicina di base ne sarebbe coinvolta appieno: avremmo dottori della stessa categoria pagati molto meno a Bari e altrettanto di più a Milano.

E’ questo il modello che il liberismo, il governo che lo rappresenta politicamente e amministrativamente, vogliono imporre al Paese delle già mille e più diseguaglianze? Quale idea di comunità nazionale può crescere là dove i diritti sociali sono spezzettati e dati in pasto alla logica del mercato e dell’inevitabile cinismo affaristico? I LEA, Livelli Essenziali di Assistenza, ne subirebbero un contraccolpo mortale. Sarebbe la fine dell’Italia di una sanità pubblica immaginata e cercata nel corso della imperfetta “prima repubblica“, come modello di efficienza proprio sociale ed anche civile.

Prendersi cura dei corpi per potersi prendere cura anche delle menti. Senza una sanità veramente pubblica, prossima ai nostri bisogni, vicina alle nostre stesse abitazioni, capace di raggiungerci con i servizi e con le cure senza che si debbano creare dei lazzaretti e delle strutture tanto inefficienti quanto somiglianti a veri e propri lager e dimenticatoi del disagio e delle sofferenze.

La cosiddetta “mobilità sanitaria” è un indice, un termometro dello spezzettamento dei ventuno sistemi sanitari regionali, delle loro differenze abnormi in materia di prestazioni e di efficienza: gli spostamenti di personale e di risorse indicano che dal Sud al Nord si muovono non solo risorse umane in grande quantità ma, ovviamente, anche una serie di miliardi che fanno registrare alle regioni del Mezzogiorno un saldo negativo tanto nei bilanci quanto nelle prestazioni erogate per inefficienza, intempestività, inappropriatezza di strumentazioni altamente obsolete.

Il degrado sociale che ne consegue è del tutto tangibile, evidente, lapalissiano, tremendamente oggettivo. La salute dei cittadini peggiora, la qualità della vita scende a livelli sempre più ingestibili e il quadro complessivo dell’Italia del 2023 è quello di una nazione piegata al dogma del privato, del profitto, della mercificazione della salute nel nome dell’innovazione e della modernità.

Una ipocrisia criminale che, tuttavia, è giustificata con i stretti cordoni delle borse, con il “fare i conti con i numeri” dei grandi azionariati, delle grandi forniture che, quasi sempre, sono l’ultimo anello di una catena di speculazioni per cui finiscono indagati ex parlamentari e direttori amministrativi di questa o quella ASL… I dati della Fondazione GIMBE testimoniano tutto questo con una precisione encomiabile: nel decennio 2010-2019 le regioni del Sud hanno accumulato un saldo negativo pari a 14 miliardi di euro in materia sanitaria.

Sempre GIMBE evidenzia come siano proprio le regioni del Nord, quelle che hanno richiesto al governo una maggiore autonomia gestionale, ad avere invece registrato un saldo più che positivo.

Per terminare con i dati, caso mai servisse la prova del nove, la fondazione di Cartabellotta comunica: «Nel 2020 su € 3,33 miliardi di valore della mobilità sanitaria, il 94,1% della mobilità attiva si concentra in Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto, mentre l’83,4% del saldo passivo grava su Campania, Lazio, Sicilia, Puglia, Abruzzo e Basilicata, peraltro con la Calabria non contabilizzata» (dal rapporto di GIMBE al Senato della Repubblica, audizioni presso la Commissione Affari Costituzionali).

Ce n’è abbastanza per la mobilitazione sindacale a tutto tondo. Per qualcosa che vada persino oltre lo sciopero generale. Ce ne sarebbe abbastanza per un capovolgimento dal basso di questo disordine, di questa immoralità, di questo spreco di risorse pubbliche a favore dei privati, di questa enorme ingiustizia, tra le tante altre, che il popolo italiano deve subire nel nome dell’interesse di pochi, grandi speculatori e dei loro lacchè istituzionali.

Si può cominciare con l’appoggiare ogni iniziativa del sindacato e delle associazioni in difesa del lavoro, della salute, dei diritti sociali. Convintamente, sapendo che o si sta con chi vuole riportare il Paese ad un livello di stato-sociale quanto meno dignitoso o si sta con il governo che ne continuerà lo smantellamento che, oramai, data da tanti, troppi decenni a questa parte…

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e di profilazione. Cliccando su accetta si autorizzano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su rifiuta o la X si rifiutano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su personalizza è possibile selezionare quali cookie di profilazione attivare.
Attenzione: alcune funzionalità di questa pagina potrebbero essere bloccate a seguito delle tue scelte privacy