Raúl Zibechi


La rivista scientifica Nature Sustainability ha pubblicato in maggio una ricerca in cui si afferma che entro la fine del secolo tra i 3 e i 6 miliardi di persone rischiano di restar fuori dalla nicchia ambientale in cui è possibile la vita, esposte al caldo estremo, alla carenza di cibo e a tassi di mortalità più elevati. Di fronte alla portata dei cambiamenti climatici e delle conseguenti migrazioni di massa, i governi del mondo continuano a convocare costose conferenze internazionali e vertici tra leader che, di fatto, non vanno oltre le vuote dichiarazioni in cui nessuno ormai confida. Raúl Zibechi va oltre la ferma condanna di questa rituale pantomima per porre una domanda scomoda, molto più di fondo: ma i governi e gli Stati, con i loro elefantiaci apparati, potrebbero fare davvero quel che serve se fossero del tutto diversi? Per cercare elementi utili a rispondere, Zibechi cita tre esempi che significativi: gli incendi dei boschi in Canada che hanno coperto di fumo e polvere New York e il nord-est degli Stati Uniti, dove decine di milioni di persone si sono sentite soffocare anche da una gran paura. Poi il Venezuela, che da decenni ha scelto di legare ai soli profitti sugli idrocarburi il benessere dei suoi cittadini e oggi è paralizzato dalla mancanza di benzina, pur avendo riserve di petrolio tra le maggiori dell’emisfero occidentale. E infine l’Uruguay, dove vive, che è travolto da una drammatica crisi idrica generata non solo dalla siccità ma anche da politiche economiche che, quale che fosse il segno del governo, hanno avuto nei confronti dell’acqua e della terra il comportamento irresponsabile e predatorio tipico dell’estrattivismo. “Non è siccità, ma saccheggio” e “Denaro oggi, sete domani”, c’è scritto sui cartelli delle quotidiane rabbiose proteste di Montevideo. La gravità della situazione è tale, scrive Zibechi, che non bastano certo le pur necessarie manifestazioni, né basterebbero i cambi di governo. Nemmeno il collasso del sistema-mondo in corso sembra in grado di far cambiare le abitudini delle popolazioni, in modo particolare di quelle urbane. Cosa faremo di fronte all’incombere di pericoli e problemi che né gli Stati e tantomeno i governi sembrano ormai in grado di risolvere?

Sono state immagini improvvise, sorprendenti e drammatiche quelle arrivate nei primi giorni di giugno da New York e altre zone del Nord-Est degli Usa. La coltre arancione di fumo e cenere proveniente dal Canada non lasciava più vedere neanche il cielo. 110 milioni di persone si sono sentite soffocare da una gran paura

Siamo abituati al fatto che i difensori della politica statocentrica diffondano quel che gli Stati fanno mettendo al centro le loro realizzazioni e omettendone la criminalità. Una criminalità (almeno in America Latina, ndt) solitamente attribuita a gruppi di narcotrafficanti e bande armate che si moltiplicano proprio grazie al sostegno che ricevono dalle istituzioni armate ufficiali.

Si parla molto poco, invece, di quel che quegli Stati non stanno facendo, di ciò che non possono o non vogliono fare per i motivi più diversi. Si tenta di occultare, ad esempio, il fatto che la violenza, che continua a crescere nella maggior parte dei nostri Paesi, dal Messico al Cile, non avrebbe tanto spazio senza la complicità, il silenzio o il sostegno diretto della polizia e dei militari, così come degli imprenditori e dei governi federali e statali e municipali.

Vediamo alcuni esempi.

Cosa possono fare gli Stati di fronte alla crisi climatica e alle migrazioni di massa? I governanti dicono che fanno tutto il possibile, si riuniscono, convocano costose conferenze internazionali e vertici tra leader, ma difficilmente vanno oltre le vuote dichiarazioni in cui nessuno ormai confida, tranne chi trae diretto beneficio da quegli incontri.

La domanda posta qui sopra dovrebbe però andare più in profondità. Cosa potrebbero fare gli Stati e i governi se fossero gestiti da persone oneste? Oppure, per dirlo in modo più complesso: è davvero possibile fermare o addirittura far retrocedere l’avanzata dei cambiamenti climatici? E le migrazioni forzate?

Uno studio pubblicato sulla rivista Nature Sustainability afferma che “da 3 a 6 miliardi di persone, cioè tra un terzo e la metà dell’umanità, potrebbero rimanere intrappolate al di fuori della nicchia ambientale in cui è possibile la vita, rimanendo esposte al caldo estremo, alla carenza di cibo e a tassi di mortalità più elevati, a meno che le emissioni vengono drasticamente ridotte o si prenda in seria considerazione la migrazione di massa.

Per invertire la rotta che ci ha condotti alla crisi climatica, sarebbe necessario produrre un cambiamento drastico su due questioni centrali: l’accumulazione di capitale per espropriazione o rapina e il modo di vivere della parte di umanità che vive abbastanza bene, cioè le classi medie e alte della il mondo. Entrambe le cose sembrano impossibili. La prima perché l’uno per cento più ricco della popolazione mondiale ha mostrato di non aver alcuna intenzione di rinunciare al suo privilegio.

La seconda perché i cambiamenti culturali sono molto lenti e nessuno vuole cambiare il proprio tenore di vita, di consumo. Quante persone tra coloro che stanno leggendo queste righe sarebbero disposte a vivere davvero come i popoli indigeni del Chiapas che sono poveri e, solamente per esserlo, vengono puniti dai potenti?

Non è facile cambiare il modo di vivereTanto meno farlo per volontà e non per necessità. Se la metà della popolazione del pianeta potrebbe finire per essere costretta a migrare per ragioni climatiche, è del tutto evidente che questa proporzione enorme e brutale di persone non potrebbe essere contenuta nemmeno dallo Stato più potente. Le autorità statunitensi sono assolutamente impotenti nel pensare di poter fermare le nuvole di fumo e polvere provocate giorni fa dagli incendi boschivi in ​​Canada.

Non c’è benzina nei distributori e il Paese è paralizzato. Eppure il Venezuela ha 80 miliardi di barili di riserve di petrolio, secondo le stime di PDVSA, sono le maggiori nell’emisfero occidentale e complessivamente (p. es. conteggiando il crudo leggero saudita e iracheno assieme a quello extra-pesante dell’Orinoco) è pari a circa la metà del totale (Wikipedia).

In questi giorni sono stato in Venezuela, dove non c’è benzina e il Paese è paralizzato. Vengo dall’Uruguay, dove vivo e dove non c’è più acqua potabile. Il Venezuela ha le più grandi riserve di petrolio del mondo e l’Uruguay era un paradiso con abbondanza di acqua potabile di ottima qualità.

In entrambi i casi vediamo l’impotenza degli Stati. Le raffinerie in Venezuela hanno tra i 60 e i 70 anni, non sono state riparate e adesso presentano guasti quasi permanenti. Ora il Venezuela dipende dalle spedizioni di benzina che arrivano dall’Iran. La “monocoltura” degli idrocarburi è alla base di questa tremenda crisi.

In Uruguay, la produzione agricola e l’allevamento destinati all’esportazione sono responsabili dell’attuale penuria di acqua, sebbene essa sia stata aggravata dalla lunga siccità dovuta al cambiamento climatico. Deforestazione, monocolture di soia e allevamenti di animali da latte sono alla base dell’attuale scarsità d’acqua, poiché i principali bacini vengono contaminati senza che nessuno ne risponda, né l’attuale governo di destra, né quelli precedenti di sinistra.

Non è siccità è saccheggio; denaro oggi e sete domani; l’acqua non è business, dicono i cartelli della protesta. Montevideo e gli altri centri urbani dell’Uruguay stanno vivendo la peggiore crisi idrica almeno degli ultimi 40 anni. L’estrattivismo e la gestione predatoria e sviluppista del suolo e dei territori mettono oggi a rischio quello che è forse davvero il primo dei diritti alla vita, quello a bere. La foto è di Redes.org.uy

In entrambi i paesi, l’accumulazione per espropriazione è in ultima analisi responsabile dei disastri. Ma non si può più sperare di risolvere la gravità della situazione che ci colpisce con le manifestazioni (a Montevideo ce ne sono ogni giorno, sono necessarie per almeno mettere in stato di allerta la popolazione di fronte al silenzio ufficiale), né con i cambi di governo. La “forza d’inerzia” a cui alludeva Fernand Braudel è così importante che nemmeno il collasso del sistema-mondo in corso è in grado di far cambiare le abitudini delle popolazioni, in modo particolare quelle urbane.

Sette anni fa, nell’incontro intitolato Il pensiero critico di fronte all’idra capitalista, tenuto a San Cristóbal de las Casas, l’EZLN ci mise in guardia sulla dimensione delle migrazioni previste per questo secolo. Ad alcuni di noi sembrò esagerato, la realtà ci sta superando.

Cosa faremo di fronte all’evidenza del fatto che ci troviamo a vivere pericoli e problemi che né gli Stati né i governi possono risolvere? È evidente che dobbiamo scegliere tra autonomia e barbarie.


Fonte e versione originale in La Jornada

Traduzione per Comune-info: marco calabria

https://comune-info.net/limpotenza-degli-stati/

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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