di Marco Sferini

Citiusaltiusfortius. Più veloce, più alto, più forte. Ed il contrario: lentiusprofundiussoavvius. Più lento, più profondo e più dolce. Così Alex Langer, uno dei più grandi ambientalisti che l’Italia possa annoverare nella sua storia politica repubblicana, ha sintetizzato icasticamente il contrasto evidente tra una società che procede troppo velocemente, in assoluta verticalità e con estrema forza e durezza.

Una velocità che, da alcuni decenni, è stata moltiplicata in maniera esponenziale dall’arrivo delle nuovissime tecnologie, della rete Internet, delle comunicazioni satellitari, della presenza praticamente immediata delle telecamere davanti ad ogni avvenimento su scala globale. Intendiamoci: non che questo sia per forza un male, anzi, forse rappresenta un aspetto interessante di come si possa, dal proprio piccolo angolo di quieto provincialismo, arrivare fino ai confini del mondo senza spostarsi di un centimetro.

Sappiamo tutto (o quasi), certamente sappiamo molto di più di anche soltanto trent’anni fa. Sappiamo nel giro di pochi istanti cosa accade in ogni parte del pianeta quando al corriere postale di Parigi occorrevano dieci giorni per far arrivare la notizia della fuga di Luigi XVI a Varenne nelle regioni più lontane dalla capitale.

Oggi possiamo parlare tranquillamente di fuga di notizie: ne schizzano ovunque ogni minuto e siamo letteralmente sommersi di informazioni che gestiamo malamente, per lo più superficialmente e davvero tanto distanti da quel profundius che Langer auspicava nel suo trittico della rivalutazione del comportamento umano per una nuova prospettiva di crescita comune tra tutti gli esseri viventi e la Terra.

Il punto in discussione qui è questo: senza modificare il nostro modo di rapportarci vicendevolmente, nel contesto tanto familiare quanto di massa, senza mettere in discussione l’esasperazione velocistica delle nostre vite dentro un liberismo che è emanazione di quel “turbocapitalismo“, che pone in correlazione la dirompente crescita economica per una specifica parte della popolazione mondiale e il consenso di massa che ne dovrebbe derivare sul terreno prettamente politico, con tutte le influenze sociali del caso, il destino cui mandiamo incontro le giovani generazioni è quello di un rapporto sempre più conflittuale tra umanità e natura.

La ribellione climatica del pianeta non è il frutto di una sorta di nemesi crudele, l’atto di una dea della vendetta che viene a riprendersi il maltolto (quand’anche ne avrebbe tutti i diritti…), ma la semplice reazione della complessità della materia, divenuta così articolata da generare una straordinaria molteplicità di vita su questa piccola sfera ruotante su sé stessa e attorno al Sole, ed entrata in aperto conflitto con un modello di sviluppo solo ed esclusivamente umano.

Non c’è spazio nell’elaborazione delle riforme “green” dei grandi agglomerati di Stati per una inclusione veramente egualitaria di tutti gli esseri viventi in un piano di salvezza generale.

Ogni riforma ecologista formulata dai governi europei, dagli Stati Uniti d’America, dalla Cina o dalla Russia assume come punto di vista esclusivamente quello umano ed imposta premesse e conclusioni su un sillogismo specista che perpetua l’antropocentrismo, che ne fa la cultura di un futuro sostenibile al prezzo di sacrificare ancora la vita animale nel nome della sopravvivenza dell’essere umano.

Come non può esservi una vera liberazione dal capitalismo e dal liberismo senza prendere in considerazione l’interezza degli esseri viventi sul pianeta e, quindi, con loro la casa comune in cui tutte e tutti viviamo, così non può esistere un vero ecologismo istituzionale se non sganciato dagli interessi delle grandi multinazionali dell’industria della carne (il che significa anche delle aziende che depredano mari e oceani e fanno profitti sulla domanda di pesce che esse stesse contribuiscono ad alimentare).

Ma la velocità con cui la riorganizzazione capitalistica procede, dopo la pandemia da Covid19 e la ristrutturazione dei disequilibri tra i grandi poli liberisti ad Est e a Ovest, e con l’aprirsi dei nuovi ipocritamente inusitati scenari di guerra dall’Europa all’Asia, dall’Africa fin dentro le sommosse golpiste in America Latina, è inversamente proporzionale al tempo che abbiamo per frenare il disastro globale, per tornare, se non proprio indietro, almeno al punto della questione: sono in grado i governi nazionali, europei, americano, cinese, russo, indiano, e così via…, di concordare un nuovo modello di sviluppo?

La risposta sarebbe sì se davvero avessero il controllo del loro agire politico e potessero dichiararsi in grado di far cambiare corso ad una economia che, invece, da brava struttura che domina e ispira ogni azione della sovrastruttura, detta le tappe del nuovo involuzionismo ad un processo istituzionale che conserva uno spettro decisionale soltanto fino a dove arriva il punto di non superamento del contrasto con l’interesse privato.

I beni comuni sono oltre l’orizzonte dell’ecologismo e della “transizione” verde che un po’ tutti gli esecutivi sbandierano modaiolamente oggi.

Il funzionamento del capitalismo (soprattutto di quello moderno) è indissolubilmente legato ad una spinta accelerativa che è connaturata allo spirito della concorrenza spietata, a tutto tondo, globalmente intesa in una globalizzazione feroce e indiscriminata. A suffragio di queste considerazioni, partite dalle intuizioni di Alex Langer, possiamo citare David Harvey:

«Se mi muovo più rapidamente di te, vincerò. Per questo si pone tremendamente l’accento sull’accelerazione di tutto e il risultato è che la maggior parte di noi deve vivere una vita all’insegna della velocità in tutti gli ambiti: dobbiamo consumare più velocemente, adattarci più velocemente e lavorare più velocemente. Il consumo lento e rilassato diventa un feticcio irrealizzabile» (Cronache anticapitaliste, ed. Feltrinelli, pag. 131)

Lentezza, profondità e dolcezza non possono essere la rivoluzione del futuro per questo sistema economico antisociale. Non è immaginabile, e tanto meno auspicabile, una fase riformista della politica che tenti di addomesticare un liberismo che non può cambiare così radicalmente e che nemmeno può farsi dare delle regole da quella sovrastruttura istituzionale che, più o meno con la stessa intensità, controlla senza soluzione di continuità. Perché è nella natura del capitale essere privato, onnivoro e totalizzante.

Non possiamo pensare che la riforma ecologista venga fatta per decreto, così come nemmeno una rivoluzione si può cominciare mettendo nero su bianco i cambiamenti che dovrebbero intervenire nella società.

La lentezza richiamata da Alex Langer non è semplicemente un rallentamento delle produzioni e dei consumi; è qualcosa di molto più “profondo“, per usare uno dei tre aggettivi adoperati dall’ecologista altoatesino. E’ un modo di affrontare le nostre giornate separandoci il più possibile dalle imposizioni del sistema, rendendo autonome le nostre decisioni, regolando i nostri tempi su quelli della natura e non su quelli del mercato.

La legge della domanda e dell’offerta viene qui messa in secondo piano e sostituita con quella dell’interazione armonica con un mondo che ci appare sempre più disumano proprio perché lo abbiamo eccessivamente antropizzato, appropriandoci di qualunque cosa e di qualunque essere vivente fosse utilizzabile per i nostri scopi.

Dalla ricerca della diminuzione degli sforzi materiali nel lavoro ad un puro, cinico, sadico divertimento, dal piacere del palato alle presunte esigenze scientifiche che violerebbero così la vita in quanto tale come diritto inviolabile, noi animali umani abbiamo fatto del pianeta Terra uno scempio.

Consideriamo l’”umanità” come una qualità di noi stessi, ed invece dovremmo considerare la nostra “animalità” come il vero tratto unificante con gli altri esseri viventi.

Perché noi siamo animali. Sapiens, come sottolineerebbe quel grande divulgatore di verità ecologiche e scientifiche che è Mario Tossi. Siamo una specie che ha coscienza di sé stessa e degli altri, che distingue il bene dal male secondo un’etica fondata sulla perpetuazione dell’esistenza e, quindi, piegata all’ovvietà dell’autoconservazione,  ma questo non ci dà un diritto di proprietà e di uso di tutto ciò che ci circonda.

Eppure il modello economico antisociale in cui viviamo e che, per ora, non trova ancora il rapporto di forza sfavorevole nei confronti di quel “movimento reale che abolisce lo stato di cose presente“, sopravvive nel mezzo di una catastrofe annunciata. E gli è possibile farlo perché gli interessi in gioco sono tanti, diversi e spesso si intersecano e si incontrano e queste connivenze si reggono le une con le altre ed impediscono una emersione delle contraddizioni massime.

Osservare e ripeterci tutta l’inadeguatezza della sovrastruttura ad intervenire in un processo di modificazione del capitalismo liberista, non significa non prendere atto che l’azione politica ha una sua utilità se è una parte della sollevazione contro il modello economico dominante, globale e totalizzante. I nostri comportamenti individuali virtuosi, per preservare la natura e proteggere gli altri esseri viventi sono necessari, ma da soli non possono costituire una leva così potente da scardinare il sistema.

Possiamo contenerne gli eccessi, limitare i danni e dare seguito ad una espansione delle coscienze critiche verso i problemi veri dell’animale umano con il resto del pianeta.

Ma non possiamo ritenere queste nostre azioni l’unico impegno a supporto di una rivoluzione che metta fine allo sfruttamento della terra, dei mari e, perché no, anche dei cieli. Serve una unità di intenti che accomuni lotta sindacale, politica, ecologica, etica, culturale in una prospettiva unitaria, convergente e che sia il luogo, e non l’u-tópos, in cui dal basso, con lentezza e con profondità di analisi, si crei una nuova animalità.

Non più una umanità insieme al resto del mondo, ma una animalità di cui siamo parte e dobbiamo iniziare a sentirci parte. Perché una nuova etica nasce, cresce e si afferma se si cambiano i rapporti di forza che determinano il permanere della attuali condizioni di distruzione della Terra.

Davvero è pensabile che il capitalismo sia l’ultimo orizzonte della storia degli esseri viventi? Se vogliamo dare un futuro ai sapiens, allora dobbiamo smetterla di appropriarci di tutto e di tutti. Dobbiamo riconsiderare il concetto di “proprietà” e dobbiamo affidarlo ad un senso comune, ad un principio di collettività che metta al bando il diritto di ciascuno se entra in contrasto col diritto di tutti.

Sempre David Harvey, a proposito della pandemia da Covid19, scrive della necessità di una “azione collettiva” per superare oggi e in futuro difficoltà, problemi e drammi che ci si presentano come tali: la natura è molto democratica in questo senso. Non fa distinzioni. Il capitalismo sì. Citando ancora il nostro geografo, sociologo e politologo inglese:

«Il capitale mira a creare una società in cui la maggior parte di noi non è libera di fare quello che vuole, perché siamo effettivamente impegnati a produrre ricchezza per la classe capitalista».

Nel momento in cui tentiamo di abbandonare questo dettame, ci vengono contro tutte le accuse di non collaborazione per il bene comune, mentre si tratta sempre e soltanto dell’ultrabenessere dei padroni, dei grandi ricchi e dei finanzieri. Già citata altre volte, vale anche qui la frase di Rosa Luxemburg: «Noi siamo i milioni del cui lavoro vive l’intera società». Tutta quanta, ma con la distinzione che a vivere sono gli sfruttatori e a sopravvivere sono gli sfruttati.

Tutto deve essere dunque veloce: dalla bicicletta o dalla moto del rider che corre a più non posso per portare pizze, panini, sushi a domicilio, al consumo di ogni altra merce che ci capita sotto il naso.

Anche la velocità con cui si deteriorano i prodotti fa parte di una logica di scadimento qualitativo delle merci, al fine di ricreare costantemente quella perversa spirale consumistica che invita a gettare ciò che ancora magari potrebbe funzionare per avere tra le mani il cellulare ultima moda, la televisione 4K, la macchina ultraccessiorata, il computer più adatto per creare sempre più contenuti social.

Dovemmo iniziare da qui la nostra rivoluzione moderna: dal rallentare la foga con cui accogliamo le seduzioni del mercato. E’ una impresa enorme, difficilissima, ma vale la pena sperimentarla e diffonderla. Perché la natura ci farà pagare un conto sempre più salato per il nostro considerarci padroni di tutto e di tutti. Noi ci vogliamo soltanto lamentare per i disastri o vogliamo invece dare un senso alle nostre esistenze facendo qualcosa insieme, di reale, concreto e davvero rivoluzionario?

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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