La condizione dei lavoratori e il loro mancato riconoscimento sociale a casa della strafottenza e della volgarità dell’alta borghesia osannata dai media

 di Eliana Catte  

Quando si emigra, tornano in mente alcuni aspetti della cultura popolare che si tendeva ad ignorare vivendo nel proprio ambiente natio.

Succede così che si ricordino canzoni come quella di Sergio Endrigo, in grado di dipingere con due pennellate il quadro della stragrande maggioranza delle realtà dalle quali intere generazioni decidono di andare via: “Io sono nato in un dolce paese/ Dove chi sbaglia non paga le spese/ Dove chi grida più forte ha ragione/ Tanto c’è il sole ed il mare blu” [1].

Perché appare giusto e sacrosanto seguire il consiglio del professore universitario contro i vecchi dinosauri de La Meglio Gioventù, allontanatosi da un Paese che promette ma non mantiene, sacrificando sull’altare dei vacui valori di patria gli investimenti sulla formazione e lo studio fatti dai giovani nati in famiglie non influenti alla ricerca della loro emancipazione di classe. Pure altrettanto concreto è il rovescio della medaglia con le difficoltà legate all’emigrazione ed all’infinita gavetta che ancora comporta.

Simone Weil, filosofa ed insegnante francese, scrisse La condizione operaia come summa degli appunti e delle riflessioni sull’esperienza diretta da lei compiuta nelle vesti di operaia in una fabbrica metallurgica, la Renault parigina.

Le sue parole restano però troppo spesso citate quasi esclusivamente dentro circoli composti da pochi soggetti politicizzati ed attivi e mai abbastanza propagandate oltre, nel sistema produttivo basato sullo sfruttamento capitalista.

L’eterna validità di questi contenuti è immediatamente verificabile, nonché tristemente indicativa della ciclicità della storia produttiva nella contesa del potere tra coloro che lo esercitano, i padroni delle aziende e delle attività, e i lavoratori dipendenti che lo subiscono. Così come divaricato è l’oggetto dello stesso che se, per i primi, è il mero profitto, per i secondi è incarnato dai bisogni soddisfatti o dall’illusione dei sogni comprati a rate.

“Mentre questi moventi occupano l’anima, il pensiero si contrae su un punto del tempo, per evitare la sofferenza, e la coscienza si spegne, per quanto almeno lo consentano le necessità del lavoro. Una forza quasi irresistibile, paragonabile alla pesantezza, impedisce allora di avvertire la presenza d’altri esseri umani che soffrono, anch’essi, accanto a te; è quasi impossibile non diventare indifferenti e brutali come il sistema nel quale si è invischiati, e, reciprocamente, la brutalità del sistema è riflessa e resa sensibile dai gesti, dagli sguardi, dalle parole di chi ci sta intorno. Dopo una giornata passata così, un operaio si lamenta di una sola cosa, lamento che non giunge alle orecchie degli uomini estranei a quella condizione e che non direbbe loro nulla anche se vi giungesse: ho trovato lungo il tempo” [2]. 

Nelle vesti di cameriera, capita di servire altre persone che prendono la denominazione di “clienti”. Anche solo per l’uso di questa parola così cara al capitalismo, verrebbe istintivo sentirsi alienati sino alla nausea quando, nella tragicommedia della quotidianità, capita persino di imbattersi in alcuni avventori che intavolino discorsi politicamente impegnati sulla “emancipazione femminile come aspetto fondamentale della battaglia ucraina contro la Russia“ esprimendo contemporaneamente la loro stizza per il disturbo arrecato dalla cameriera che svolge il suo compito obbligato di sparecchiare e pulire anche il loro tavolo.

La teoria, come sosteneva Gramsci, non è scindibile dalla prassi: per questa ragione, quando si lavora dietro le quinte della società, svolgendo lavori manuali che tutti i liberali descrivono come indispensabili alla crescita umana ma che nessuno di loro sembra voler svolgere, impegnati come sono ad indirizzare il loro disprezzo verso gli ultimi, dai disoccupati più qualificati di loro ai meno istruiti ma “truffatori pigri, beneficiati dal reddito di cittadinanza”, si osservano fenomeni sociali particolari.

Secondo le parole di Silvano Agosti, “il vero schiavo difende il padrone, mica lo combatte. Perché lo schiavo non è tanto quello che ha la catena al piede quanto quello che non è più capace di immaginarsi la libertà” [3].

Seguendo questo declivio, si è dunque passati dal sacrosanto odio di classe, e dai suoi esimi esponenti teorico-pratici, al moderato dissenso di ceto, con tutto il suo codazzo di servi.

Questi ultimi sono gli stessi in grado di trainare le folle a partire dall’alto della dimensione mediatica, sfilando come burattini ai pacchiani funerali pubblici di personaggi che hanno alimentato una china di delirante infotainment, quali Costanzo e Berlusconi.

Questo tipo di mediaticità ha diffuso modelli che collidono con la quotidianità di lavori manuali ai quali, contemporaneamente ma paradossalmente, inneggiano coloro i quali non provengono certo da background di povertà o privazioni di qualsivoglia tipo, non essendo discendenti di dinastie operaie o essi stessi operai, camerieri, lavapiatti, addetti alle consegne, freelance precari e più mai-pagati che malpagati.
Difficilmente si possono infatti conciliare i dorati mondi venduti sui social, fatti di chirurgia plastica, capelli, unghie, ciglia ed altri orpelli fasulli, con la vita di ogni giorno dei lavoratori svuotati nell’anima e nelle carni ormai decadenti, esposte alle dermatiti da contatto a causa delle acque gelate, dei detersivi e degli additivi chimici, nonché afflitti dall’impossibilità di curarsi adeguatamente perché vessati dalla necessità di centellinare lo stipendio.

Giacché “gli uomini non sono spiriti ma corpi in preda al bisogno”, come sosteneva il filosofo Sartre, la rivoluzione continuerà ad essere considerata una questione riservata ai “romantici”, secondo il giornalista Deaglio, fintanto che la sinistra fa sì che scompaiano dapprima i temi e poi i veri e propri diritti sociali consentendo alle maggioranze parlamentari di sostituirli con fascismi concreti ed opponendovi solo un nebuloso moralismo d’accatto; oppure ancora dichiarazioni descritte dalla stampa come roboanti quando, invece, sono solo parodistiche, ed espongono una ridicola e peraltro oggettivamente infondata pretesa di superiorità intellettuale in base alla quale ognuno ammanta il niente di denominazioni anglofone, venendo meno alla propria funzione storica in favore dell’edonismo privato e del solipsismo sociale.

Ci sono persone che non capiranno mai cosa significhi vivere da ultimi i quali solo in qualche caso, più o meno fortuito, qualcuno salverà.

Esistono infatti individui ciechi, sordi e muti alla società che ne avranno schifo proprio perché composta da paria ai margini della loro vita o, per meglio dire, della bella vita che intendono ostentare o far mantenere quale status alle persone che li attorniano e che, nemmeno tanto in fondo, loro disprezzano pure quanto gli altri.

Sono uomini e donne che accalappiano una sistemazione di comodo, con i compagni di vita e i membri della famiglia che trascinano stancamente quasi fossero pezze tra le braccia di un bambino provato da un’intera giornata a scuola.

Sono coloro che non capiscono come si possa finire ad essere gli ultimi, gli intrusi, i pupazzi di nebbia in qualche struttura che li levi dalla strada perché, secondo i loro limitati ragionamenti, ”la colpa è di chi non ha voglia di lavorare”.

Per reagire alla rabbia prima che ci fonda lo stomaco e, per la troppa somatizzazione, infici le nostre funzionalità mentali, bisogna ricordare di essere diversi da certuni per il solo fatto di aver speso il proprio tempo a scegliere la qualità degli anticorpi contro la loro spasmodica ricerca di affermazione tramite il denaro e le scalate sociali.

D’altronde, la borghesia è entrata nella vita degli operai col controllo del loro tempo, la gestione della loro fatica e del loro valore economico – come al mercato delle vacche – anche grazie al suo pacchetto di finti sogni già scassati o pronti per essere infranti.

I padroni fregano la libertà e gli istanti di vita mentre l’operaio, che si identifica con la figura vincente del datore, accumula sogni rampanti, è il venale del lusso degli outlet con grandi marche di seconda e fruscia mano ma a prezzi stracciati, e il materialista dello sballo alle feste degli stagionali in libera uscita.

Vive di passioni tristi ed aspira litrate di frustrazioni accumulate tra casa e lavoro, lavoro e casa che, specie nelle gettonate mete d’emigrazione, spesso coincidono.

La sua è sopravvivenza ai limiti di una ribellione che ostenta ma non c’è.

È solo perfettamente incasellato tra gli alienati che, convinti di sfuggire al male che li stritola e rilascia triturati come gli ingranaggi di una catena di montaggio quotidianamente oliata da loro stessi, incombe nella cosificazione della sua persona aggiungendo altre cianfrusaglie, abitudini malsane e dipendenze.

La vittima di una cocciuta operaiolatria, che livella tutti verso il basso, tenta di sfuggire alla scomodità del suo passato o alle ganasce della tradizione pur insistendo cocciutamente nel restare immersa dentro il suo stesso brodo di noia, tedio e male.

Tuttavia, nel frattempo, la variegata classe operaia dei tempi moderni, che si è lasciata convincere delle differenze tra un lavoratore e l’altro, come se non fossimo tutti accomunati dal lavoro dipendente e, quindi, sempre sotto padroni, parafrasando la poetessa Sylvia Plath, mangia “bugie e sorrisi”, nonostante sembri inesistente, poiché le persone vivono in una dimensione completamente scissa da quella riportata dalla stampa mainstream, come dimostrano le ultime dichiarazioni rilasciate dall’attore e regista Claudio Amendola: “faccio fatica a trovare personale – per il suo nuovo ristorante recentemente aperto a Roma, ndr –. Manca l’umiltà. Oggi i giovani non vogliono fare i lavori che facevamo noi. Si ambisce a lavori moderni, quelli da tastiera. Sudore e fatica fanno paura“.

Mentre in teatro e nelle produzioni indipendenti sopravvivono sceneggiature credibili, concrete e senza tempo, relative alla vita brutta, sporca e cattiva dei proletari che ancora esistono e lottano, contrariamente allo spettro di chi si definisce comunista per opportunismo, sostenendo poi pubblicamente Salvini o posizioni socio-politiche altrettanto deliranti come quelle riportate sopranzi, i media continuano ad alimentare le due velocità della quotidianità e dell’informazione perpetuando le sperequazioni economiche e le false invidie sociali, ma reali odii nei confronti dei privilegi ereditati e mai veramente né faticati né, tanto meno, meritati.

Concretamente, senza i “lavori da tastiera” ai quali allude il figlio d’arte, non esisterebbero le interviste come continua, martellante, tanto fastidiosa quanto inutile cassa di risonanza delle dichiarazioni dei prezzemolini della politica, ossia quelle rilasciate da tutti gli attori, artisti, scienziati, influencer e presunti personaggi che assurgono al pubblico rilievo per merito delle provocazioni rilanciate a mezzo stampa, radiotelevisivo e social dai giornalisti che, nel pieno della gavetta, sono pagati con un forfettario mensile insufficiente a pagare l’affitto di una stanza o direttamente 2 euro a pezzo, se e quando viene pubblicato dai dinosauri delle redazioni centrali.

Perciò, per campare, i pubblicisti, forzatamente freelance perché non contrattualizzati, debbono versare sudore, lacrime e sangue nello svolgimento di qualsiasi tipo di lavoro manuale che viene pubblicamente descritto sempre e solo dal punto di vista dei padroni delle attività i quali, allo stesso modo, tendono a disporre delle intere vite dei dipendenti e che, soprattutto ultimamente, anche all’estero tendono a saturare i posti di lavoro, in special modo nella ristorazione, con gli apprendisti provenienti direttamente dalle scuole superiori e dagli istituti professionali – perché giovanissimi servi muti da sfruttare dietro un compenso nullo o quasi.

Tuttavia, se non si lavora, si rimanda un’immagine di sé perdente, volutamente ai margini, da aspirante barbone e totale nullafacente, arrogantemente chiuso nel suo sterile sapere umanistico che, al giorno d’oggi, rende quanto i sottobicchieri di feltro delle case borghesi coi divani incellophanati come i loro membri, davanti alla tv per sentire un’altra nostalgica telenovella.

La disoccupazione, nella stragrande maggioranza dei casi, non è certo una pigra attitudine dei singoli.

L’individualismo spinto che si è affermato non ha creato solo gli influencer “che ai miei tempi non c’erano perché si lavorava dai tredici anni e filare”, ma anche la netta convinzione secondo la quale chi non trova non cerchi o non si impegni a sufficienza in un percorso di reperimento che non ha niente a che vedere coi criteri produttivi ed occupazionali del dopoguerra, è antiquato e inadeguato.

In realtà, nessuno obbliga qualcun altro a diventare imprenditore, né ad assumersi alcun rischio di impresa.

Nonostante ciò la visione generale, corroborata dall’infotainment martellante, continua a rimandare alla perdizione del lavoratore, dello studente o del disoccupato come possibile se non direttamente scontato e rigetta quello dell’imprenditore come se la chiusura di un’attività o il fallimento non fossero ampiamente codificati dal diritto commerciale.

Gli imprenditori continuano ad essere coloro che scelgono tutto – dal settore produttivo nel quale intendono inserirsi, ai macchinari, passando per la forza lavoro e la sua paga –, pur non essendo coloro che, materialmente, producono.

A farlo, in nome e per conto loro, sono i dipendenti.

Su di loro ricadono obblighi verso l’impresa ed anche una serie di diritti, tra i quali non compare certo la richiesta degli impresari ai lavoratori “che dovrebbero mettersi una mano sul cuore prima che sul portafoglio”, come se i creatori dell’impresa badassero al sentimento e non ai profitti, dall’apertura fino alla liquidazione.

Secondo le statistiche Ocse, nella fascia d’età compresa tra i 25 ed i 35 anni, l’Italia conta solo il 29% dei laureati, piazzandosi davanti solo alla Romania.

Le statistiche ISTAT 2022 stimano invece come un giovane su 10, di età compresa tra i 18 ed i 24 anni, abbandoni gli studi – o sia costretto ad abbandonarli, per ragioni economiche, familiari, scolastiche e sociali – prima di ultimare le scuole superiori.

La spesa pubblica italiana per l’istruzione resta tra le più basse d’Europa, mentre è altissimo il dato relativo alla quota di adulti, tra i 25 ed i 64 anni, in possesso di una sola licenza media, la cui percentuale è stimata attorno al 37,4%.

Tuttavia per l’illuminata classe politica nostrana, legittimata dagli stessi che fanno riservare qualsiasi posto di tirocinio o lavoro ai figli altrimenti destinati a perire per incapacità o inerzia, il Paese ha solamente bisogno di manodopera – questa sì, “a prezzi calmierati” – da importare soprattutto se quella sfornata col ricatto lavorativo dell’alternanza scuola-lavoro si rivelasse numericamente insufficiente per sopperire alle necessità produttive dei capitani d’industria.

Prendendo come esempio le paradigmatiche dichiarazioni dello chef Borghese, secondo cui “lavorare per imparare non significa per forza essere pagati”, si può giungere alla traduzione del pensiero padronale: ovvero, il figlio degli operai che abbia osato fuoriuscire dai binari storicamente tracciati per qualificarsi, si prepari a pagare lo scotto per non essersi fermato alla terza media della scuola dell’obbligo rivaleggiando e battendo, fino ed oltre la laurea, i figli fortunati ma incapaci di qualche papavero ancora influente.

Perciò il potenziale professionista di origini proletarie rimarrà legato al palo della formazione mai ultimata perché resa poi esclusiva, elitaria e inaccessibile, dovendo restare umilmente funzionale al soddisfacimento dei bisogni produttivi delle poche famiglie che si tramandano ricchezze e privilegi.

Noi, camerieri, operai, rider, commessi, precari di qualsivoglia settore manuale ed intellettuale; i loro figli ereditieri di percorsi formativi ad hoc, stipendi da quadri dirigenti e lavori d’ufficio ma mai manuali, nemmeno per lo sbaglio di sporcarli con la gavetta, che solo gli ultimi come noi devono eternamente e vanamente fare.

Note:

[1] La strofa riportata è tratta dalla canzone Il dolce paese di Sergio Endrigo, datata 1968. 

[2] Citazione tratta dal libro La condizione operaia, scritto da Simone Weil (titolo originale La condition ouvrière): trattasi di una raccolta di appunti, lettere e saggi della filosofa francese, composti fra il 1933/34 ed il 1942, e pubblicati postumi dalle Éditions Gallimard nel 1951. La prima edizione italiana è quella tradotta da Franco Fortini per le Edizioni di Comunità, Milano, 1952.

[3] La frase virgolettata è stata estrapolata dall’intervista allo scrittore, regista e poeta bresciano Silvano Agosti. Questa, nota col titolo Il discorso tipico dello schiavo, è reperibile al link
https://youtu.be/CWhYGNq-hKg.

https://www.lacittafutura.it/editoriali/riflessioni-di-una-cameriera-contro-l-operaiolatria

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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