Mario Lombardo 

Proteste di massa e pericolo concreto di destabilizzazione del paese sono tornati a caratterizzare la vita quotidiana dello stato ebraico in parallelo al rilancio, da parte dell’esecutivo di estrema destra del premier Netanyahu, dei piani di “riforma” del sistema giudiziario israeliano. Dopo qualche mese di sospensione, la legge ultra-controversa che ridimensiona drasticamente il ruolo della Corte Suprema ha superato questa settimana il primo ostacolo legislativo, innescando nuove manifestazioni pubbliche e clamorose azioni di resistenza dentro gli organi dello stato. Sullo sfondo restano le dinamiche regionali in pieno fermento, con gli Stati Uniti fortemente allarmati per i riflessi sui propri interessi strategici della deriva autoritaria del regime di Tel Aviv.

Martedì è andato in scena il “giorno della resistenza” contro la decisione di introdurre il provvedimento che, tra l’altro, intende liquidare la cosiddetta clausola di “ragionevolezza”, su cui si basa l’autorità del più alto tribunale israeliano di revocare leggi o nomine ritenute illegittime. La Corte Suprema agisce in sostanza da organo di controllo sul potere legislativo in un paese che non dispone di una Costituzione scritta, ma solo di una serie di “leggi fondamentali” che ne fanno le veci.

Se approvata in maniera definitiva, la nuova legge renderebbe di fatto inappellabile qualsiasi misura o nomina decisa dal governo, dal parlamento (“Knesset”) e da qualsiasi altro organo amministrativo israeliano. La determinazione di Netanyahu e dei suoi alleati estremisti nel mandare in porto questa legge è da ricondurre all’agenda radicale del gabinetto in carica, ben intenzionato a procedere, senza vincoli di alcun genere, con l’ulteriore espansione degli insediamenti illegali, l’indebolimento del carattere nominalmente laico dello stato e, in generale, il controllo di tutti i principali organi di potere.

Un altro obiettivo più immediato raggiungibile grazie a questa legge è la nomina a ministro del leader del partito religioso Shas, Aryeh Deri, fermato proprio dalla Corte Suprema perché condannato in passato per evasione fiscale. Netanyahu punta con ogni probabilità anche a vedere finalmente approvato un qualche provvedimento che gli eviti in maniera definitiva i guai legali in cui è da tempo coinvolto.

Lo scorso mese di marzo, la legge sui poteri della Corte Suprema era stata congelata sempre in seguito a oceaniche e ripetute manifestazioni di protesta. Grazie all’intervento del presidente israeliano, Isaac Herzog, era stato proposto un negoziato con l’opposizione per trovare un compromesso sulla “riforma” della giustizia. La fermezza dell’estrema destra che compone il governo Netanyahu non aveva però permesso di arrivare a un accordo e recentemente la legge è tornata in aula.

Nelle prime ore di martedì, la “Knesset” l’ha approvata in prima lettura con una maggioranza di 64 a 56. Per essere definitivamente ratificata, la legge dovrà passare attraverso altre due letture e, salvo imprevisti, ciò potrebbe accadere entro la fine di luglio. In tal caso, molti prevedono una possibile crisi “costituzionale” in Israele, visto che la legge potrebbe essere esaminata e bocciata dalla stessa Corte Suprema.

Il clima in Israele resta comunque esplosivo. Le proteste in corso contro il governo sono infatti alimentate anche da una situazione economica e sociale sempre più precaria. Basti pensare che lo stato ebraico ha livelli di disuguaglianza tra i più alti dei paesi “avanzati”. La crisi perenne con cui deve fare i conti il governo porta inoltre Netanyahu a cercare valvole di sfogo esterne per ridurre le tensioni. Infatti, negli ultimi mesi si sono registrate iniziative particolarmente estreme e criminali anche per un regime che opera quotidianamente al di fuori della legalità, come la nuova espansione degli insediamenti nei territori occupati e l’intensificata offensiva contro la resistenza palestinese.

Il comportamento del governo Netanyahu è stato criticato insolitamente anche dagli Stati Uniti, tanto da sollevare la questione di un’imminente revisione dei rapporti tra i due alleati di ferro. Un messaggio abbastanza chiaro è stato recapitato a Tel Aviv attraverso l’editorialista del New York Times, Thomas Friedman, considerato molto vicino all’amministrazione Biden. Friedman ha avvertito che la visita in programma a breve del presidente Herzog a Washington sarà l’occasione per comunicare a Israele la necessità di riconsiderare le relazioni bilaterali alla luce degli ultimi eventi.

Significativamente, Friedman scrive che la cooperazione militare e nell’ambito dell’intelligence non è in discussione. Il problema, per la Casa Bianca, si presenta piuttosto sul fronte “diplomatico”, con un governo israeliano orientato fermamente a perseguire la soluzione di “un solo stato”, ovvero quello “ebraico”, con “il destino e i diritti dei palestinesi” sostanzialmente nel limbo.

Friedman critica apertamente le politiche espansioniste di Israele, arrivando a citare la parola “apartheid”, per poi disegnare un quadro regionale destabilizzato dalle conseguenze del radicalismo di Netanyahu e dei suoi alleati. Quello che Friedman e, quindi, il governo americano temono non è in sostanza la deriva dittatoriale di Israele, quanto il crollo della finzione di uno stato democratico che intende perseguire l’utopia della soluzione dei “due stati”.

Il venir meno anche come politica ufficiale della disponibilità ad accettare la creazione di uno stato palestinese scredita ulteriormente Israele e Stati Uniti e rischia di mettere in crisi gli equilibri regionali che favoriscono gli interessi di Washington. Rivelando più di quanto probabilmente intende, l’articolo di Friedman elenca una serie di conseguenze negative delle azioni di Netanyahu, dalla destabilizzazione della Giordania al fallimento degli Accordi di Abramo per la normalizzazione dei rapporti tra Israele e i regimi arabi.

L’altro motivo di apprensione riguarda l’effetto dirompente che la “riforma” della giustizia di Netanyahu sta avendo, tra l’altro, nelle forze armate dello stato ebraico. L’esercito è l’istituzione su cui si regge la macchina della repressione anti-palestinese di Israele e che, grazie all’appoggio americano, consente alla classe politica di questo paese di agire nella pressoché totale impunità. In segno di protesta contro il ridimensionamento della Corte Suprema si stanno diffondendo iniziative clamorose tra i militari, come la minaccia di centinaia di “riservisti”, anche con incarichi delicati, di rifiutare il servizio nell’esercito.

L’eventuale dilagare della protesta potrebbe, nella peggiore delle ipotesi, indebolire seriamente le forze armate di Israele. Una prospettiva, quest’ultima, vista con orrore da molti sia a Tel Aviv sia a Washington, soprattutto in un frangente caratterizzato dalla minaccia crescente di Hezbollah e delle forze emergenti della resistenza palestinese

https://www.altrenotizie.org/primo-piano/10027-netanyahu-infiamma-israele.html

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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