Il colonialismo europeo, che a suo tempo ha fatto del Vecchio continente il dominatore di quasi tutto il mondo (eccezion fatta per la Persia, la Cina e il Giappone, pur notevolmente influenzati dalla primissima economia capitalista otto/novecentesca), oggi trova la sua espressione più confacente ai nuovi interessi geopolitici e finanziari nello scambio di favori che intercorre tra Stati che devono affrontare il problema epocale delle migrazioni.

A dire il vero si tratta di un seguito attuale di uno storico fenomeno che si presenta ogni volta che i popoli decidono di spostarsi per cercare di sopravvivere; oppure quando le depressioni economiche sono così forti da indurre, se non proprio intere nazioni come ai tempi delle migrazioni barbariche entro l’Impero romano, quanto meno milioni di individui a ricercare la terra in cui esiste la più concreta possibilità di aggrapparsi ad un futuro altrimenti intravedibile.

Il colonialismo ottocentesco e novecentesco era l’invasione di terre ancora in parte sconosciute, l’appropriazione materiale di qualunque bene vi fosse presente, comprese le vite degli autoctoni che, quindi, diventavano dei cittadini di serie B nel migliore (si fa per dire) dei casi o, nel peggiore di questi, dei veri e propri schiavi da deportare laddove era necessaria mano d’opera nei settori di maggiore fatica.

La rotta dall’Africa all’America, tanto del Nord quanto Latina, è la linea di congiunzione tra sfruttati e sfruttatori. L’Europa del ‘400, del ‘500 e dei secoli successivi aveva colonizzato le terre del Nuovo Mondo e ne aveva fatto dei territori da cui prendere qualunque tipo di risorsa, tassando così tanto i coloniali stessi da farli ribellare contro la madrepatria per eccellenza: la Gran Bretagna.

La storia della nascita degli Stati Uniti d’America inizia con un atto di rivolta fiscale, con un gesto platealmente eversivo contro Sua Maestà britannica: i coloniali contro i colonizzatori. Mentre i colonizzati, lentamente, finivano nelle riserve per poi essere sterminati sulla via dell’espansione economica “coast to coast“, tra ferrovie che accorciavano le distanze e fucili che accorciavano le esistenze degli indiani e di chiunque solidarizzasse con loro.

Il colonialismo modernissimo, attuale, proprio dell’oggi, invece si è involuto a tal punto da non avere più bisogno di far finta di esportare la civiltà occidentale con i suoi valori: lingua, istituzioni e religione sono già state distribuite a piene mani dalla violenza che si è imposta sulla resistenza degli autoctoni oltre cento anni fa.

L’Africa è uscita dalla fase coloniale propriamente detta per entrare nella fase di una globalizzazione che non l’ha mai messa al riparo dagli effetti del capitalismo e, tanto meno, della sua torsione liberista a far data dagli ultimi trent’anni del secolo scorso. Le guerre portate dall’Occidente nei nuovi Stati che si sono venuti creando in questi ultimi lustri, dopo la ventata di speranza, ben presto disillusa, delle “primavere arabe“, sono servite a scompaginare gli assetti timidamente indipendenti dei regimi che si andavano affermando.

Dalla Libia di Gheddafi fino al Sudafrica di Mandela, quello del dopo-apartheid, dalle tante guerre tribali combattute dalle coste della Somalia a quelle dell’Africa occidentale, dall’eterna lotta tra Saharawi e governo marocchino fino alle turbolenze del più indipendente Egitto, i tumulti di questo che è sempre stato, molto spregiativamente, chiamato “terzo mondo“, hanno finito per cumularsi e riversarsi in larghissima parte nel nuovo millennio.

Quanto è davvero possibile affermare che tutta una serie di problematiche dei popoli africani siano state risolte grazie all’aiuto democratico e civile tanto dell’Europa quanto degli Stati Uniti?

Se siamo onesti con noi stessi, e soprattutto con la nostra intelligenza, se, quindi, vogliamo adoperare lo strumento della critica ragionata e ponderata, dobbiamo ammettere che abbiamo creato sempre nuovi problemi all’Africa e non abbiamo mai risolto nessuno di quelli atavici.

Se fosse vero il contrario, oggi non ci troveremmo ad osservare le ondate migratorie che provengono dal Medio Oriente e dalle coste del Mediterraneo meridionale. L’imperialismo di tardo Ottocento e inizio Novecento ha permesso una capitalizzazione di risorse da parte delle grandi potenze occidentali a tutto scapito di importantissime risorse che, almeno allora, i popoli africani non erano in grado con le loro tecnologie di far fruttare fino in fondo entro i termini di sviluppo del mercato globale.

Così è stato per Inca, Maya, Aztechi e nativi americani del nord; così è diventato evidente per i popoli africani che sono stati resi schiavi di una modernità che ha incluso lo schiavismo fino a poco tempo fa e che, oggi, dà seguito ad un mercimonio di vite umane trattati così disumanamente da far ricordare le tragedie europee del Novecento.

Si è detto che la questione razziale non c’entrava in questi brutali commerci di esseri lasciati a marcire in nuovi lager su cui l’Europa ha chiuso gli occhi e le orecchie e su cui ben poco ha detto e fatto in questi decenni.

Ed invece, oggi, scopriamo che la questione razziale diventa uno dei temi privilegiati di un regime politico, quello tunisino, per cui vale la regola del do ut des con i paesi dell’Unione, degli scambi commerciali e finanziari, a patto di collaborare al controllo delle rotte nel Mediterraneo e nel riportare indietro, ma senza trattenerli in Tunisia, i migranti che provano a raggiungere l’Italia.

Il nostro governo e la UE firmano un memorandum con il presidente Kaïs Saïed e, senza troppi mezzi termini, si accordano su una serie di finanziamenti al paese che un tempo era considerato il più democraticamente avanzato dell’area nordafricana, quello in cui le primavere arabe ebbero inizio con il gesto di Mohamed Bouazizi (che si diede fuoco per protestare contro i maltrattamenti subiti dalla polizia) e che portarono alla scrittura di una nuova Costituzione dopo la Rivoluzione dei gelsomini scoppiata alcuni anni prima e arrivata al suo culmine con la deposizione di Ben Ali.

Oggi, quel paese che era un accenno di democrazia nel deserto sahariano della negazione dei diritti fondamentali, umani, civili ed anche sociali e politici, ritorna ad essere una dipendenza di un Occidente che garantisce a Tunisi solamente un ripristino dell’ordine interno mediante l’accondiscendenza al trattare i migranti come uno scarto razziale, come persone inferiori, odiate da una parte della popolazione dopo i discorsi infuocati di Saïed che ha sempre più grane da risolvere.

Il fenomeno migratorio si rovescia sulla sovrabbondanza di malcontento popolare e, così, seppure indirettamente, rischia di diventare la scintilla che può far divampare un nuovo incendio. L’Europa dei respingimenti e dei muri, del trattamento privilegiato dell’economia rispetto ai diritti umani, non obietterà più nulla sulle carcerazioni dei dissidenti, dei giornalisti critici verso il regime, su quella che sta diventando una vera e propria politica razziale (e quindi razzista) nei confronti dei “neri” subsahariani.

Non ci dobbiamo illudere poi tanti: non abbiamo il privilegiato monopolio del razzismo nei confronti degli africani o dei mediorientali.

Anche altri africani possono odiare i loro simili: perché magari di pelle più scura rispetto a quella olivastra dei tunisini e, ovviamente, perché il loro presidente fa balenare il concetto della differenza etnica come elemento di disuguaglianza oggettiva, come concausa di una povertà estrema che avanza e la cui colpa non è certo nelle politiche azzardate del governo, degli accordi capestro con gli Stati occidentali, modernamente liberisti e strangolapoveri.

No, la colpa è dei più disperati di questa Terra. Di quelli più neri di altri neri, di quelli che vengono dalle regioni dove un tempo regnavano soltanto i leoni. Amnesty International ha denunciato in questi mesi maltrattamenti e torture subite dai migranti che stazionano, per la gran parte, in una “terra di nessuno“, in quel lembo di confine tra Tunisia e Libia o tra Tunisia e Algeria: là sotto il sole rovente, alla mercé di sbalzi termici, senza il minimo indispensabile per sopravvivere, muoiono a decine.

Anziani, donne incinta, bambini ed anche uomini che, troppo sbrigativamente, la vulgata razzista italiana definirebbe “giovani vigorosi“, muoiono mentre si firmano dei memorandum che sanciscono la legittimità di rimpatri collettivi che non rientrano in alcuna legislazione europea, ma sono delle “necessità impellenti” per evitare che i sovranisti di casa nostra facciano la figura di quelli che non sanno gestire quell’”invasione” che promettevano di fermare con il “blocco navale“.

Niente di quello che la destra prometteva in campagna elettorale, alla dura prova dei fatti e della molteplicità delle circostanze, ha potuto realizzarsi: la demagogia non regge il confronto con oltre 40.000 sbarchi nei primi otto mesi dell’anno in corso. Comunque il triplo rispetto al 2022 e al 2021.

Davanti a cifre così imponenti, un governo serio (che ormai sembra davvero un ossimoro) dovrebbe spingere la UE a regolare dei flussi, a fare in modo che le rotte migratorie non si fermino nei centri di raccolta italiani, dati in gestione a chi li gestisce con la logica del profitto, resi invivibili da condizioni igieniche e sanitarie spaventose, veri e propri altri sovraffollati lager in terra pseudo-democratica…

Sarebbe bene che l’Europa cogliesse tutta la drammaticità di un problema che riguarda il mondo intero e non solo l’Europa o l’Africa, tanto meno la sola Italia o l’Ungheria che pensano di potersi difendere da sole erigendo muri veri, barriere, discriminazioni, leggi repressive e distinzioni razziali che spingono al razzismo e alla xenofobia molesta e violenta non solo nelle parole ma anche nei fatti,

Sarebbe bene che l’Europa del capitale e della finanza facesse l’esatto opposto di quello che sta facendo e ha fatto firmando un memorandum che ricorda molto quello di Minniti. Pagare i paesi che hanno così tanta destabilizzazione interna (Libia docet…) per poter veder scemare per qualche tempo gli arrivi e ritenere così contenuto il problema del disagio continentale di un Occidente che vira sempre più a destra e che ha interesse a mostrare nei migranti il vero pericolo sociale. Nonché civile e culturale.

In mezzo a questo traffico di prebende, pare siano più di un migliaio le persone che stazionano nelle terre di nessuno. Là dove il caldo brucia, soffoca, uccide. Noi ci lamentiamo per le temperature sahariane che subiamo in queste estati della nuova era del cambiamento climatico e affibbiamo ai migranti l’etichetta di sopportatori di temperature elevatissime: ci sono nati, quindi possono reggere 40, 50 gradi anche all’ombra…

Poniamo che sia anche vero, nonostante non lo sia: la fame, la sete e l’abbandono nelle strisce di deserto dove non c’è piantata nessuna bandiera, dove il diritto non arriva, dove sei un apolide in balia degli eventi, non si possono sopportare. Nemmeno se si hanno le spalle larghe. Soprattutto se su quelle spalle ci sono i segni delle torture subite nei campi di passaggio verso un mondo della sopravvivenza che la stragrande maggioranza di loro non vedrà mai.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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