La risposta alla pandemia è stata pressoché la stessa in quasi tutti i Paesi del mondo: restrizioni senza precedenti, ricerca e produzione delle terapie affidata alle multinazionali del farmaco, rifiuto delle cure domiciliari e precoci. Ovunque, fatta eccezione per un piccolo Paese di appena undici milioni di abitanti situato al centro dei Caraibi che dal lontano 1959 marcia in direzione ostinata e contraria: Cuba. L’isola socialista non ha abdicato alla sua unicità dopo la morte del líder máximo Fidel Castro e continua a procedere – nonostante il lunghissimo embargo imposto dagli Stati Uniti e un’economia che non può godere di particolari ricchezze naturali – su una strada basata su forti investimenti pubblici, sulla ricerca e un sistema sanitario universale e gratuito, composto non solo da ospedali e cliniche specialistiche, ma anche da una medicina di base capillare e da una particolare attenzione sulla prevenzione. In un sistema socialista, infatti, la malattia non è vista come un affare per aziende farmaceutiche e cliniche private ma come un costo per la collettività che si cerca di ridurre al minimo, promuovendo prevenzione e cure precoci. Un sistema solidaristico, ramificato ed eguale, privo di commistioni tra interesse pubblico e privato, che ha permesso anche di affrontare la pandemia del Covid-19 in maniera profondamente differente, dimostrando la fattibilità e la razionalità di un altro modello possibile di assistenza pubblica.

La risposta cubana

I primi casi di coronavirus confermati a Cuba risalgono all’11 marzo 2020 quando tre turisti italiani risultano positivi al test. Alla fine del mese, i positivi al Sars-Cov 2 sono 170 e i morti 4. Dal 1° aprile, Cuba decide di sospendere tutti i voli internazionali con l’intento di fermare il flusso di turisti che stava contribuendo a propagare il virus sull’isola. Inoltre, il governo cubano istituisce un lockdown con la chiusura della maggior parte delle attività produttive, allentando le misure politico-sanitarie con l’arrivo dell’estate, salvo poi reintrodurle tra la metà e la fine di agosto, di pari passo con il nuovo aumento del tasso di contagio.

Fino a qui niente di diverso da quanto vissuto a queste latitudini, apparentemente. A Cuba infatti, mentre si chiede alle persone di rimanere in casa col fine di cercare di contenere il contagio, il sistema sanitario – basato su una forte decentralizzazione territoriale con un gran numero di medici di famiglia sparsi sul territorio, incluse le zone meno abitate – si mette in moto. I medici girano per le case a fare test, visitare le persone e curare coloro che mostrano i primi sintomi. Mentre in Italia si procede con il protocollo “Tachipirina e vigile attesa” e si bolla come stregoneria da complottisti ogni tentativo di cure domiciliari, le autorità sanitarie de L’Avana approvano a tempo di record un protocollo nazionale per contrastare il Covid-19 in sei fasi, al fine di garantire sia la prevenzione che la cura della malattia. Per quel che concerne i farmaci preventivi, il governo distribuisce gratuitamente a tutta la popolazione il PrevengHo-vir, un rimedio omeopatico di produzione nazionale che consente di rinforzare il sistema immunitario prevenendo i decorsi aggressivi del contagio. Se la persona contagiata mostra i sintomi si interviene invece con l’Interferone Alfa 2b. Il ricovero in terapia intensiva è previsto soltanto come ultima ratio, da applicare in caso di fallimento di tutti i rimedi di prevenzione e cura domiciliare.

Secondo i dati Minsap (Ministero della salute pubblica di Cuba) questo protocollo è stato lo strumento con cui L’Avana ha potuto registrare tassi di letalità sensibilmente più bassi degli altri Paesi. Le ragioni alla base della scelta, oltre che medico-sanitarie, risiedono anche nel modello politico e nella storia di Cuba: l’isola, oltre a perseguire un sistema di sviluppo socialista (che punta a porre l’interesse collettivo davanti a quello privato), vive da decenni sotto embargo statunitense: il blocco commerciale da parte del potente vicino di casa, storicamente determinato a far precipitare, con mezzi economici o militari, ogni esperienza di governo che mette in discussione il modello capitalista. Cuba ha così dovuto fare di necessità virtù, ingegnandosi per rispondere alle necessità della popolazione. Per il Paese, povero ma ostinato nella sua volontà di indipendenza, il sistema sanitario è divenuto perno centrale per progredire verso il benessere collettivo; in questo, la prevenzione è certamente carattere fondamentale dell’approccio medico. Uno Stato come Cuba non può aspettare che la situazione si aggravi poiché concentrarsi sulla prevenzione e sulle cure precoci costa meno rispetto a curare una malattia già in avanzato decorso.

Il sistema sanitario cubano

[Medici cubani che hanno prestato soccorso in Messico durante la pandemia, rientrano a Cuba. ]

Nei Paesi capitalisti c’è una tendenziale relazione tra salute della popolazione e stato dell’economia. Non è il caso di Cuba che, pur presentando un PIL modesto (il settantesimo al mondo), è riuscito a raggiungere indicatori di salute (speranza di vita alla nascita e mortalità infantile) pari a quelli dei Paesi ricchi, anzi in alcuni casi migliori. Il sistema sanitario cubano si fonda sul principio per cui la salute è un diritto sociale inalienabile di tutti i cittadini, senza distinzione alcuna. Il sistema sanitario cubano è governato e coordinato dal Ministero di Salute Pubblica (MINSAP) che coordina l’assistenza modulandola su tre gradi amministrativi (nazionale, provinciale e municipale) e quattro livelli di servizio (nazionale, provinciale e municipale e di settore). L’assistenza di primo livello copre circa l’80% dei problemi di salute della popolazione e i suoi servizi sono forniti principalmente nei consultori e nei poliambulatori presenti in tutti i 168 municipi della nazione. I servizi di secondo livello – gli ospedali provinciali – coprono circa il 15% dei problemi di salute. Nel terzo livello – ospedali specializzati o istituti di eccellenza – viene trattato soltanto il 5% dei problemi di salute sui quali non si è riusciti a intervenire con successo nelle fasi precedenti.

Complessivamente, quindi, il sistema sanitario dell’isola conta su una rete infrastrutturale di oltre 500 policlinici, 220 ospedali e 15 istituti di ricerca; nel settore sanitario lavorano complessivamente circa 600.000 persone (circa il 9% della popolazione in età lavorativa), di cui più di 30.000 medici di famiglia. Si è passati dall’avere, nel 1995, 5,2 medici ogni 1000 abitanti a circa 6,7 nel 2009, fino ad arrivare agli 8,3 di oggi. Un rapporto che fa di Cuba la nazione con la più alta densità di medici ogni 1.000 abitanti (Svizzera 4,3; Germania 4,25; Italia 3,8); nello stesso periodo, gli infermieri sono passati dall’essere 7 per ogni 1000 abitanti a 9,5 (contro i 6,2 dell’Italia). Il forte orientamento alle cure primarie è garantito dalla capillare presenza sul territorio di strutture di bassa e medio-bassa complessità. Si parte dai consultori, strutture dove operano le Equipe Basica de Salud (EBS), e i policlinici, in cui lavorano anche medici specialisti. Ogni consultorio e policlinico “si occupa della gestione dell’assistenza primaria in un’area geografica ben delimitata, della quale periodicamente si studiano le caratteristiche geografiche, sociologiche, demografiche per individuare i principali fattori di rischio derivanti dal territorio”.

Formazione e ricerca

La formazione universitaria cubana è pubblica e gratuita. Le facoltà di medicina presenti sull’isola sono poco meno di trenta e sono diffuse in tutte le province. Il percorso di studi si articola in 6 anni di cui i primi tre rivolti alle materie di base, il quarto e il quinto a quelle cliniche e l’ultimo alla pratica diretta sul campo. Il fine del percorso universitario è la formazione del medico di medicina generale integrata, che costituisce la prima specializzazione per tutti i medici cubani. Per comprendere le priorità formative del sistema sanitario del Paese, è certamente utile notare che, tra gli esami che hanno il maggior numero di crediti formativi, figurano i corsi di “Promozione della salute”, “Prevenzione della salute” e “Salute pubblica e medicina comunitaria”. Le materie cliniche prevedono la frequenza degli studenti dei reparti ospedalieri e dei centri di assistenza primaria – come i policlinici, seguendo l’idea dei “policlinici universitari” – al fine di permettere ai futuri medici di confrontarsi con le patologie di comune riscontro nella popolazione oltre che con casi specifici e selezionati.

I vaccini cubani

Tra le strategie adottate da Cuba non è mancata quella vaccinale. Forte di un complesso di ricerca biotecnologica all’avanguardia (anche questo un lascito delle politiche di Fidel Castro che negli anni ’90 lanciò un poderoso piano d’investimenti nella ricerca medica ad alta tecnologia), L’Avana è riuscita laddove ogni ricco Paese europeo ha fallito: progettare e produrre in proprio vaccino anti-Covid. Questi ultimi sono stati realizzati su piattaforme consolidate nel tempo e già conosciute, basate sulle proteine virali isolate e purificate. Se le multinazionali americane si sono lanciate sui grandi profitti dei vaccini sperimentali a tecnologia mRna, Cuba si è concentrata sullo studio di vaccini proteici, ritenendoli più sicuri e in grado di essere prodotti a minor costo.

In tempi concorrenziali con le potenze globali Pfizer, Moderna e AstraZeneca, i ricercatori dell’Avana sono riusciti a progettare e sperimentare cinque diversi tipi di vaccino. Tre di questi hanno superato le fasi di sperimentazione fino all’approvazione definitiva: Abdala, Soberana02 e Soberana Plus. Il primo è stato sviluppato dal Centro per l’ingegneria genetica e la biotecnologia (CIGB) mentre gli altri due sono stati sviluppati dall’Istituto Finlay de Vacunas Cuba. In questo modo, mentre i Paesi occidentali stipulavano costosissimi contratti pieni di clausole secretate con le multinazionali del farmaco, Cuba ha prodotto vaccini a basso costo che sono stati somministrati ad oltre il 90% della popolazione e distribuiti anche fuori dai propri confini.

Al di là dei contorni specifici relativi all’opportunità della campagna vaccinale di massa, l’esperienza cubana ha mostrato anche in questo campo come quella logica privatistica che non sembra neanche possibile mettere in discussione nei Paesi occidentali parta in realtà da un presupposto totalmente falso: non è vero che solo una ricerca scientifica appaltata alle grandi aziende farmaceutiche è in grado di produrre rapidamente farmaci innovativi; può farlo anche la ricerca pubblica, a patto che sia portata avanti in maniera solida e strutturata. Tutto questo è stato possibile in un Paese piccolo, sotto embargo e con un PIL modesto, solo progettando e perseguendo un modello differente.

A ormai 64 anni di distanza da quando un manipolo di guerriglieri, guidati da Fidel Castro ed Ernesto “Che” Guevara, presero il potere con la rivoluzione, Cuba è ancora lì – fiera e indipendente al cospetto del gigante vicino a stelle e strisce – a dimostrare che un altro modello di società è possibile. Anche nella sanità.

[di Michele Manfrin]

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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