Molti incidenti sul lavoro sono riconducibili a ritmi e orari di lavoro impossibili, precarietà del rapporto di lavoro, esternalizzazione dei servizi, carenza di personale addetto ai controlli, tagli dei servizi di trasporto pubblico, affievolimento del ruolo dei Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza. Perciò servono il potenziamento del ruolo dello Stato e un sindacato più conflittuale.

 di Federico Giusti  

Government is not the solution to our problem; government is the problem” (lo Stato non è la soluzione del problema, lo Stato è il problema), furono tra le prime parole spese da Ronald Reagan appena insediatosi alla Presidenza degli Stati Uniti, e insieme alla Lady di ferro dettero inizio a quella che viene comunemente definita come epoca neo liberista.

Facciamo un passo indietro, o in avanti, per capire se esistono delle statistiche ufficiali a livello europeo a proposito di infortuni e morti sul lavoro.

Ci sono i dati Eurostat (Ufficio centrale di statistica dell’Unione Europea) che includono tutti i casi di infortunio con un’assenza dal lavoro superiore a tre giorni di calendario.

Ma le statistiche europee si differenziano da quelle adottate in alcuni paesi, ad esempio l’Italia, infatti Eurostat esclude

  • gli infortuni in itinere,
  • gli infortuni che determinano lesioni intenzionalmente auto-procurate,
  • gli infortuni dovuti esclusivamente a cause mediche (infarto cardiaco, ictus).

Quanti sono allora le morti sul lavoro e gli infortuni? E le malattie professionali?

Non è dato saperlo perché dovremmo prima accordarci sulla stessa nozione di morti e infortuni per causa lavorativa. Per esempio in Italia si includono gli episodi in itinere ossia nello spostamento tra casa e lavoro (e viceversa) al contrario delle statistiche europee.

Per questo, a detta di alcuni, l’Italia presenterebbe un quadro assai problematico e numeri elevati includendo casi non propriamente assimilabili al lavoro. Per alcune associazioni datoriali morti e infortuni in Italia sarebbero gonfiati proprio dai casi in itinere che dovrebbero invece essere esclusi a priori dentro una cornice “meno ostile” ai padroni.

Dubitiamo fortemente che si possa escludere dalle statistiche l’itinere. Per esperienza diretta possiamo asserire che l’utilizzo dei mezzi pubblici diventi impossibile con la riduzione dei servizi stessi e spesso non rispondenti al bisogno indotto da orari dettati dalla flessibilità lavorativa.

Nel corso degli anni la Magistratura del lavoro si è espressa in modo contraddittorio. Anni fa ci imbattemmo in lavoratori che utilizzavano la bicicletta o il motorino per recarsi al lavoro a causa dell’assenza di autobus, ma il ricorso al mezzo privato venne considerato una scelta volontaria e non indennizzabile per la presenza di una corsa del bus che avrebbe costretto il lavoratore ad alzarsi un’ora prima (ad esempio alle 4 di notte) per rientrare a casa nel pomeriggio inoltrato.

Nel corso del tempo la Magistratura ha ritenuto legittimo l’utilizzo del mezzo privato ma resta la contraddittorietà dei pronunciamenti e una contraddizione di fondo: i tempi di vita non dovrebbero essere stravolti da quelli del lavoro.

L’excursus potrebbe sembrare fuorviante ma invece è assai attinente perché da anni la precarietà ha costretto tanti\e a sobbarcarsi lunghi viaggi per raggiungere i luoghi di lavoro restando fuori per la stragrande maggioranza del giorno in cambio di paghe veramente irrisorie.

La soppressione di tanti treni, ritenuti rami secchi, o di corse dei bus (causate dai tagli al trasporto pubblico locale che da anni imperversano) ha reso indispensabile il mezzo privato e l’orario di lavoro aumenta a dismisura (anche attraverso gli orari spezzati che imperversano negli appalti) perché risultato della precarizzazione diffusa che ha determinato condizioni di vita e lavorative sempre più problematiche. Da qui i tanti, troppi, casi di infortuni e morti in itinere. Inoltre molti incidenti in itinere non possono non essere conseguenti alla stanchezza procurata da orari e ritmi di lavoro impossibili.

Carlo Soricelli da anni conduce una battaglia isolata attraverso il suo blog, Osservatorio Nazionale di Bologna morti sul lavoro, e parla esplicitamente di cifre sottostimate con infortuni e morti non dichiarate dall’Inail ma riconducibili al lavoro.

Citiamo testualmente le finalità del lavoro di Soricelli.

“L’Osservatorio nazionale di Bologna morti sul lavoro, unico in Italia monitora tutti i morti sul lavoro dal 1 gennaio 2008, registra i morti per infortuni per giorno, mese e anno della tragedia, per identità, età, professione, nazionalità con cenni sulla tragedia. Li registra tutti anche i non assicurati a INAIL e in nero”.

Se l’Italia è il paese dove il nero la fa da padrone soprattutto in alcuni settori (edilizia e agricoltura ad esempio), il numero degli infortuni e delle morti è decisamente superiore a quello delle statistiche ufficiali e rappresenta un’autentica mattanza.

Abbiamo iniziato con Reagan per focalizzare l’attenzione su un punto saliente. Da quando sono iniziate le privatizzazioni e le esternalizzazioni, crescono infortuni e morti sul lavoro, ma soprattutto si è affermato il punto di vista del capitale a discapito di una critica complessiva al modo di produzione e alle modalità di lavoro e di vita.

La privatizzazione di settori un tempo pubblici, il rinvio perenne ad appalti e subappalti ha fatto venir meno l’attenzione verso le modalità del lavoro e la richiesta di una vita dignitosa (lavoriamo per vivere e non viviamo per lavorare riprendendo un vecchio slogan operaio). Si sono moltiplicati testi di legge improntati a una filosofia di fondo alquanto opinabile: la cosiddetta filiera della sicurezza, che poi con le privatizzazioni è approdata a uno scaricabarile responsabilità, competenze e ruoli che ha allentato l’attenzione generale verso la sicurezza e la salute, facendo credere che le cause più rilevanti siano errori umani o eventi ineluttabili. Opinabile è la stessa nozione di morti bianche per non parlare di morti per il profitto.

Sul lavoratore precario si investe di meno in formazione, e quindi anche in quella antinfortunistica, il precario è più facilmente ricattabile e quindi con minore possibilità di opporsi a modalità lavorative non a norma di sicurezza, il lavoratore di un servizio esternalizzato non sa se prendersela con il proprio datore di lavoro o con la stazione appaltante per la nocività o l’assenza di sicurezza del luogo di lavoro, e così via.

Gli stessi ispettori alla sicurezza sono stati ridotti al lumicino. Perfino la sonnolente Cgil oggi ammette che possono trascorrere 10 o 15 anni prima di un’ispezione in un cantiere. Dal punto di vista del capitale vale pertanto la penna di rischiare qualche rara sanzione per ottenere risparmi certi e durevoli.

Le responsabilità sono molteplici. Fra queste anche quelle del sindacato che ha accettato le privatizzazioni pensando di limitarne il danno, sottoscrivendo contratti nazionali con meno soldi e minori tutele individuali e collettive o con una figura di Rappresentante dei lavoratori territoriale divenuta nei fatti una sorta di burocrate; i rappresentanti o sono presenti nei luoghi di lavoro o hanno poco senso. Ironia della sorte molti Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza (Rls) restano subalterni alla filiera della sicurezza aziendale, partecipando a un paio di riunione periodiche all’anno per sottoscrivere vaghi documenti di valutazione del rischio senza alcun controllo effettivo sulla loro applicazione.

La salute e la sicurezza non possono essere demandate a considerazioni tecniche ma far parte di una strategia sindacale complessiva. Nel corso degli anni il peso dei Rls è andato diminuendo anche per assenza di potere contrattuale effettivo. Le figure tecniche, del resto, servono a poco se non hanno una piena agibilità e diventano del tutto inutili se estranee a percorsi conflittuali e rivendicativi.

Sono considerazioni forse approssimative ma utili a comprendere come siamo arrivati ai nostri giorni. Le stragi sul lavoro come quella della Thyssen o della stazione di Viareggio sono finite nelle cronache giudiziarie tra prescrizioni, assoluzioni e poche condanne (dove sono finiti i fautori della certezza della pena?) ma non hanno modificato l’approccio complessivo alle tematiche della sicurezza.

Rilanciare il settore pubblico e condizioni di vita e di lavoro non improntate al profitto e alla flessibilità è la sola risposta possibile per non affidarsi alla vuota retorica o al mero cordoglio. Per questo serve un cambio di prospettiva e una lettura diversa dal passato e dall’infausto presente. Farlo significa rimettere al centro le questioni di fondo che tutti conosciamo; lotta alle privatizzazioni, reinternalizzazione dei servizi e del personale, riduzione dei ritmi e degli orari di lavoro, fine dei contratti precari, paghe dignitose e introduzione del reato di omicidio colposo per le morti sul lavoro. A quest’ultimo proposito rammento che il governo Renzi introdusse, con la legge 41 del 2016, il reato di omicidio stradale. Cioè pur esistendo già il reato di omicidio colposo, si volle punire più severamente (da 2 a 7 anni di reclusione) chi compiva involontariamente un omicidio a seguito della violazione di norme del Codice della strada, violazione che poteva essere dovuta anche a disattenzione o stanchezza. Ben più pesantemente dovrebbe essere allora punito il datore di lavoro che, non certo per disattenzione o stanchezza ma per brama di profitto, uccide violando le norme di sicurezza sul lavoro.

All’interno del rilancio del ruolo del pubblico figura anche l’aumento del numero degli ispettori e il potenziamento della medicina del lavoro e preventiva distrutta a colpi di tagli.

https://www.lacittafutura.it/editoriali/precariet%c3%a0,-ritmi-impossibili-e-tagli-alla-spesa-pubblica-alla-base-di-molti-omicidi-%e2%80%9cbianchi%e2%80%9d

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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