Michelangelo Ingrassia 

Riceviamo e pubblichiamo volentieri, per gentile concessione della Fondazione Argentina Altobelli, un estratto del nuovo libro di Michelangelo Ingrassia, dal titolo “L’anno in cui il Governo Mussolini cancellò il Primo Maggio. Dal primo Consiglio dei Ministri (1° novembre 1922) al Patto interconfederale di Palazzo Chigi (19 dicembre 1923)”.

Il 30 dicembre 1923 il governo Mussolini costituì l’Ordine cavalleresco «al Merito del lavoro»[1] e istituì la decorazione della «Stella al Merito del lavoro»[2]. Il riconoscimento di onorificenze ai meritevoli del lavoro era stato decretato per la prima volta l’1 maggio 1898 e prevedeva la concessione di una medaglia d’oro agli imprenditori e una d’argento ai lavoratori. Tale distinzione scomparve con un decreto del 9 maggio 1901, che sostituì la concessione di medaglie con l’attribuzione del titolo di Cavaliere «al merito agrario, industriale e commerciale» che andava conferito sia ai lavoratori sia agli imprenditori. Nel marzo del 1921, infine, un successivo decreto aggiornò la denominazione dell’ordine cavalleresco con la nuova formula di «Ordine al merito del lavoro»; l’impostazione, però, rimase inalterata e l’onorificenza continuò a essere indistintamente conferita a imprenditori e lavoratori[3]. Con i due decreti del governo Mussolini la condizione di parità fu abolita: l’accesso all’ordine cavalleresco fu impedito ai lavoratori, ai quali fu riservato invece solo il conferimento della Stella al Merito. Separando e distinguendo i lavoratori dagli imprenditori, il governo Mussolini non faceva un salto all’indietro bensì in avanti; verso la nuova organizzazione del lavoro e la nuova funzione dei lavoratori, determinate dalle nuove norme che nel corso del 1923 erano state emanate e che avevano ristrutturato dinamiche e relazioni interne ed esterne al sistema sociale capitalistico di produzione. La vicenda induce a chiedersi per quale motivo il governo Mussolini era giunto a un tale ribaltamento del contesto considerato peraltro che tale distinzione è sopravvissuta al regime fascista e ancora oggi, nella Repubblica fondata sul lavoro, al contrario di quanto avveniva nei primi venti anni del Novecento, solo gli imprenditori continuano ad accedere al titolo di cavaliere del lavoro, i lavoratori no[4]. Il centenario dell’abolizione della Festa del Lavoro, evento dominante di quel particolare anno che fu il primo del fascismo al potere, offre una buona occasione di verifica e anche un valido pretesto per trattare un tema ancora poco investigato nel vasto campo degli studi sul fascismo.

La soppressione del Primo Maggio fu, per i motivi e le dinamiche con cui fu attuata, qualcosa di più di una prevaricazione di classe e di una proibizione ideologica. Fu una vera e propria operazione di cancel culture, nell’accezione data a questo fenomeno oggi imperante da Noam Chomsky e altri intellettuali: «atteggiamenti moralistici e impegni politici che tendono a indebolire il dibattito pubblico e la tolleranza per le differenze, a favore del conformismo ideologico»[5].

In questo Mussolini fu addirittura ancor più radicale di Hitler, che invece la data del Primo Maggio la mantenne in vigore mutandone però i contenuti classisti e ideologici, trasformandola in festa nazionalista dei lavoratori tedeschi e sfruttandone la capacità evocativa e di mobilitazione.

La Festa del Primo Maggio, evidentemente, Per Mussolini costituiva l’evento simbolico di una cultura e di un soggetto collettivo ritenuti pericolosamente non conformi al regime e alla classe dirigente che lo sosteneva.

C’è da chiedersi, a questo punto, perché il Primo Maggio rappresentasse qualcosa di non conforme al potere fascista. Per rispondere occorre ricordare che quando Mussolini assume il governo della Nazione, per la prima volta nella storia i valori dominanti sono quelli economici incardinati nel sistema capitalistico di produzione; e per la prima volta nella storia, la politica deve rispondere agli interessi che determinano e muovono il sistema sociale capitalistico di produzione se vorrà ancora valere nella realtà[6]. Mussolini fu ben disposto ad accettare questa nuova realtà e ad agire in essa. Una disponibilità frutto di una scelta culturale e politica ragionata e non della smania di potere. Mussolini, infatti, che si piccava di avere seguito da giovane i corsi universitari dell’economista liberista Vilfredo Pareto e che nello stesso tempo aveva frequentato pure gli ambienti del sindacalismo rivoluzionario dove forte era una componente liberista, aveva intuito che la Grande guerra – e soprattutto l’avvento per la prima volta nella storia di uno Stato bolscevico – avevano determinato un mutamento nel liberismo europeo. Se, come scrive Sergio Ricossa, «il liberista è comunque pronto a sacrificare l’efficienza alla libertà» e se «l’interrogativo più importante per il liberista non è chi debba governare, ma come debba governare»[7], Mussolini intuisce che in quel frangente rumoroso e vorticoso della storia che fu il primo dopoguerra in Europa, il liberista ha deciso di sacrificare la libertà all’efficienza e di trovare una conseguente soluzione al problema del come governare. Da qui le conclusioni cui giunse, per esempio, Leo Valiani per il quale «l’intuizione mussoliniana fu che l’Europa tornava a destra» e che «la rivoluzione in Italia doveva collocarsi all’estrema destra»[8].

Il fascismo, infatti, dopo il disastroso esordio elettorale del 1919 e archiviato il programma sansepolcrista della rivoluzione sociale e nazionale, non per caso si ripresentò sul palcoscenico della storia con l’obiettivo di mutare:

i rapporti intercorrenti fra l’individuo e la collettività senza che ciò implichi la rottura del motore stesso dell’attività economica – la ricerca del profitto – o l’abolizione del suo fondamento – la proprietà privata – oppure la distruzione del suo quadro necessario – l’economia di mercato[9].

In questa definizione è possibile scorgere la fusione del Politico e dell’Economico in un unico sistema di Potere strutturato in una forma piramidale fino ad allora inedita: con l’Economico che determina le leggi di mercato su cui deve basarsi il Politico. Può essere utile, in proposito, ricordare che quando Mussolini cancella il Primo Maggio, egli presiede un governo di coalizione formato da fascisti, nazionalisti, liberali progressisti, liberali conservatori, popolari, liberalriformisti, agrari, centristi; ossia da tutte le forze politiche del centrodestra tradizionalmente ispirate ai valori culturali, economici e politici del liberismo e patrocinatrici degli interessi della borghesia e del ceto medio alto.

Fu questo il momento in cui, cessata la tempesta d’acciaio della Grande guerra,

La rifondazione dell’Europa borghese avvenne sulle ceneri dei bienni rossi, sia nelle liberaldemocrazie sia nei totalitarismi. L’irruzione delle masse nella sfera politica, risultato delle organizzazioni di massa del socialismo, della diffusione del suffragio universale maschile, della mobilitazione bellica, pose alle classi dominanti problemi di gestione politico-ideologica del cambiamento in atto, che si risolsero nel tentativo di controllare le masse lavoratrici indebolendone la forza d’urto[10].

In Italia è appunto il fascismo che si rende disponibile per piegare la forza d’urto dei lavoratori distruggendone le organizzazioni politiche e sindacali, sottoponendoli a una rigida sorveglianza e confiscandone i diritti sociali che nel fluire del tempo avevano conquistato. Nell’Europa totalitaria degli anni compresi tra le due guerre, insomma, Mussolini è stato il primo capo di Governo a sperimentare e praticare in chiave autoritaria il liberismo. È stato il primo capo di governo in Europa ad approvare e avallare la compenetrazione tra Economico e Politico; a modulare un regime politico funzionale al nuovo sistema sociale capitalistico di produzione. È stato il primo capo di governo che nel fare intervenire lo Stato nelle dinamiche interne al sistema sociale capitalistico di produzione, ha operato non in funzione neutralistica o negoziatrice ma prendendo decisamente e radicalmente posizione schierandosi a favore della classe dirigente borghese e contro la classe dipendente lavoratrice; non per un demoniaco capriccio ma perché, secondo il liberismo, «non bastando, i beni scarsi vanno assegnati rispettando delle priorità»[11]. Nell’Italia fascista, annientato il movimento sindacale ed esautorata la classe lavoratrice, le priorità furono stabilite dal potere politico secondo le leggi del mercato decise dal potere economico.

Bisogna chiedersi, a questo punto, se esista una correlazione tra i fatti che saranno qui raccontati e il tempo presente; non per un vanitoso o fazioso esercizio retorico o polemico bensì perché il confronto tra passato e presente è ciò che contraddistingue l’antiquariato dalla Storia. Per dirla con Paolo Prodi, infatti:

«il lavoro dello storico consiste quindi in una continua tensione tra il suo interrogarsi sul presente e la ricerca di risposte che provengono dal passato: è questo, non una comune curiosità per le cose vecchie, che distingue lo storico dall’antiquario»[12].

Come spiegava Gustav Droysen si tratta di comprendere quanto delle cose passate e accadute, «nello hic et nunc non è ancora tramontato»[13].

Per rispondere alla domanda iniziale è necessario sgombrare subito il campo da una correlazione che si potrebbe definire di tipo antinostalgico, caratterizzata dalla paura o dall’allarme per un possibile ritorno del fascismo con le sue divise, i suoi manganelli, i tribunali speciali, la violenza istituzionalizzata, il partito unico, il sindacato unico. Questo tipo di fascismo, che pure sopravvive nella nostalgia dei pochi che sfoggiano ancora i loro rituali in determinati anniversari o nella mentalità di chi ancora oggi ripete che Mussolini fece anche cose buone, è destinato a non tornare più. Altre sono le correlazioni con l’attualità che la storia qui indagata ispira.

Una prima correlazione tra quanto accadde cento anni fa e il tempo presente sembra evidenziarsi nei rapporti tra i governi che si sono succeduti negli ultimi decenni e il Sindacato, in cui si riscontra con una certa frequenza l’uso della delegittimazione quotidiana dell’azione sindacale mediante la circolazione mediatica di luoghi comuni sulla scarsa rappresentatività e sulle arretratezze culturali. In questo senso, da un lato si denuncia l’arroccamento sindacale sulla difesa dei diritti acquisiti in termini di occupazione, salari, dignità e qualità del lavoro; dall’altro non lo si accetta come interlocutore sui grandi temi delle riforme sociali e sulle grandi questioni economiche, a cominciare dalla lotta alla crescita delle diseguaglianze.

Una seconda ma non meno importante correlazione tra passato e presente riguarda la narrazione storica. Più precisamente il tentativo non di revisionare ma di manipolare la narrazione storica a fini politici modificando il significato culturale di talune date della storia e la versione di taluni episodi storici: una tendenza, questa, che richiama direttamente la vicenda della cancellazione del Primo Maggio. In tal senso il racconto storico consegnato alle pagine che seguono, ispirandosi all’insegnamento di Paolo Prodi, tenterà «di fare emergere brandelli di ciò che noi siamo ma non sappiamo di essere, brandelli che rimangono nascosti e non emergono in superficie se non con un paziente lavoro di ricerca nella nostra storia collettiva»[14]; brandelli che aiutano a comprendere la società del presente.

Il decreto di soppressione del Primo Maggio diventa legge (e il governo diviene regime)

Collegando idealmente il Patto di Palazzo Chigi con la cancellazione del Primo Maggio, è possibile rendersi conto che nel 1923, quando ancora il fascismo era governo, la classe lavoratrice dovette affrontare una vera e propria trasformazione dell’intero rapporto sociale di produzione di cui la violenta riduzione del ruolo culturale, politico, economico e sindacale dei lavoratori e del lavoro conquistato in decenni di lotte, fin dal sorgere dei primi movimenti dei lavoratori, fu e rimane il segno più clamoroso. E clamorosamente segnerà l’esperienza intera del fascismo: dalle sue origini a Milano alla sua fine a Salò, passando per la marcia su Roma. La storia della cancellazione del Primo Maggio è emblematica di questo itinerario drammatico, anche per le sequenze in cui si consuma. La soppressione, infatti, viene decretata nel 1923 da quello che è ancora un governo ma diventa legge nel 1925, quando le stesse forze politiche esterne al fascismo che compongono il governo decidono di fascistizzarsi e, in alleanza con le forze economiche e la complicità delle forze armate e della dinastia, divengono regime. È in questo momento che si stabilizza definitivamente quella compenetrazione dell’Economico e del Politico in un unico sistema di Potere cui si è più volte accennato nelle pagine precedenti. L’Economico ha bisogno di un regime politico razionalmente organizzato, al solo fine di esserne adeguatamente protetto, e il Politico riconosce che il sistema sociale di produzione realizzato dall’Economico costituisce il fulcro delle proprie stesse autorità, stabilità e durata[15]. È lo schema del liberismo il quale ha bisogno di governi politici che attuino tutte le misure necessarie di autodifesa – anche autoritarie se necessario – quando le società producono movimenti di resistenza, rivendicazione e liberazione. Il fascismo attua le necessarie misure di autodifesa; Mussolini, cavalcando la paura conservatrice del potere economico che teme la bolscevizzazione dell’Italia, la teorizza e poi la metterà in pratica, accettando la condivisione del potere con le forze economiche e ottenendo in cambio la gestione politica del potere. Questo non significa che il fascismo sia stato un prodotto del capitalismo o una sua degenerazione. In termini ideologici ci fu un fascismo di destra, un fascismo di sinistra, un fascismo di centro, un fascismo trasformista e una vasta bibliografia scientifica che ricostruisce le loro storie. Dietro questa poliedricità ideologica abilmente usata da Mussolini, però, c’è una sola realtà fatta di dinamiche reali e di situazioni concrete. Ancor prima di essere movimento, regime, ideologia, il fascismo fu una situazione, prodotta da una serie di dinamiche che elaborarono un certo tipo di risposta a determinate questioni che in un dato momento la vita collettiva pose. E nel determinare tale situazione, ossia il governo e poi il regime, un peso fondamentale lo ebbero gli interessi del capitalismo liberista. Un capitalismo che scelse di diventare liberista e che dunque preferì Mussolini alla pratica sindacale riformista e democratica. Questo è un punto cruciale dell’intera vicenda, dal momento che si addossano le responsabilità dell’avvento fascista non alle decisioni assunte dal capitalismo italiano, non al massimalismo incapace di creare una situazione veramente rivoluzionaria, ma al movimento dei lavoratori, al sindacato confederale, al socialismo riformista che avrebbe da un lato ostacolato la rivoluzione e dall’altro impedito il formarsi di un’alleanza democratica; dimenticando però che in Italia non poteva esserci alcuna rivoluzione perché essa era già fallita in Germania, in Ungheria ed era già stata sconfitta quando l’avanzata militare della Russia sovietica era stata fermata in Polonia. Dimenticando, altresì, che il movimento sindacale confederale e il socialismo riformista non potevano e non volevano accettare alleanze sulla base di quelle politiche economiche liberiste che le forze economiche e ampi settori del liberalismo e perfino del cattolicesimo reclamavano. Scrive Castronovo che la Confederazione Generale del Lavoro vedeva «nella razionalizzazione della produzione un fattore fondamentale sia per una diminuzione della fatica fisica della manodopera sia per il miglioramento delle condizioni salariali della classe operaia»[16]; poteva dunque mai accettare, il movimento sindacale, la compressione salariale e l’accrescimento indiscriminato della produttività del lavoro teorizzato tra il 1920 e il 1921, come già rilevato nelle pagine precedenti, da economisti e dirigenti d’azienda? Potevano mai accordarsi su questo punto il socialismo e il sindacalismo riformisti che avevano fino ad allora sviluppato una pratica politica e sindacale fondamentalmente democratica e che aveva dato i suoi frutti nella società e nei luoghi di lavoro? È tempo dunque, soprattutto oggi, che le responsabilità del sistema capitalistico italiano nell’ascesa del fascismo al potere siano storicamente riconosciute ed escano dall’ombra. Sul punto è sintomatico proprio quanto avvenne nel 1925, in un momento politico particolare nella storia del fascismo: dopo che Mussolini aveva pronunciato il famigerato discorso del 3 gennaio 1925 con il quale brutalmente chiuse la crisi del fascismo aperta dal vile delitto Matteotti e avviò la trasformazione del governo in regime dittatoriale.

Il 16 dicembre 1925 Confindustria approvò la seguente dichiarazione:

«La Confederazione Generale dell’Industria Italiana, riaffermando la sua piena fiducia nel pensiero e nell’opera del Capo del Governo e del Fascismo, a nome di tutta la classe da essa rappresentata accoglie con serena e volenterosa disciplina l’appello rivoltole da Benito Mussolini, e dà mandato alla sua presidenza di prendere le necessarie disposizioni perché l’adesione della Confederazione al regime fascista abbia piena attuazione»[17].

Nel frattempo, l’ennesimo decreto, aveva provveduto a stabilire che:

«nonostante qualunque patto in contrario, possono essere disdette, con effetto immediato, le clausole dei contratti di lavoro relative alla rappresentanza operaia stipulate anteriormente al 1° ottobre 1925»[18].

E intanto erano state abolite le Commissioni Interne e la cancellazione del Primo Maggio era diventata legge.

Il decreto di cancellazione del Primo Maggio diventò legge nel corso della seduta della Camera dei Deputati del 14 gennaio 1925. La conversione in legge fu facilitata da un ulteriore stratagemma che impedì la discussione in Aula. Per convertirlo in legge, infatti, il governo Mussolini inserì il decreto in un disegno di legge che prevedeva la «Conversione in legge, con approvazione complessiva, di decreti luogotenenziali e Regi aventi per oggetto argomenti diversi». Il disegno di legge comprendeva un articolo unico che prevedeva:

«Sono convertiti in legge i decreti luogotenenziali e i decreti-legge, emanati sino al 23 maggio 1924, indicati nella tabella A annessa alla presente legge, salvi gli effetti dei provvedimenti di modifica o di revoca adottati in virtù di delegazione di poteri legislativi. Sono altresì convalidati i decreti Reali, emanati sino alla data predetta, indicati nella tabella B annessa alla presente legge, per prelevamenti di somme dal fondo di riserva per le spese impreviste».

Il decreto soppressivo del Primo Maggio fu infilato nella tabella “A”, tra parecchie centinaia di altri decreti. In corso d’opera le due tabelle furono unificate e il Primo Maggio si disperse ulteriormente nella folla divenuta oceanica di decreti da convertire, distribuiti in ben 79 delle 114 pagine che compongono il verbale della seduta.

Durante la seduta un deputato fascista, proveniente dalle fila liberali della Destra Storica, Alfredo Codacci Pisanelli, espose una relazione che riassumeva il lavoro svolto dalla commissione competente. In un’Aula priva di deputati dell’opposizione in seguito alle note vicende dell’Aventino, nessuno s’iscrisse o chiese di parlare nella discussione generale. Nella discussione sull’articolo unico qualche deputato prese la parola ma per interventi rituali.

Fu invece presentata una dichiarazione di voto scritta, firmata dai tre deputati di minoranza componenti della competente commissione che aveva esaminato disegno di legge. Nella dichiarazione il socialista Gonzales, il democratico Giuffrida e il popolare Bertone (quest’ultimo nel frattempo passato all’opposizione) accusarono Mussolini di avere imposto che tutti i decreti da convertire, esclusi quelli di ordine internazionale, fossero esaminati e approvati dalla Commissione in blocco e poi trasmessi sempre in blocco all’Aula. Gli contestarono che aveva definito i decreti di secondaria importanza. Imputarono ai membri di maggioranza della commissione, di avere espresso un giudizio non tecnico ma politico sui singoli decreti impedendo così alla minoranza di chiedere e ottenere lo stralcio di quei decreti che riteneva necessari di discussione in Aula. Denunciarono che molti decreti richiedevano, per l’importanza della materia trattata, l’esame anche dell’Aula. Dichiararono infine, per le accuse e contestazioni mosse, il loro voto contrario al disegno di legge. La Camera ne prese atto, la dichiarazione di voto fu allegata al verbale della seduta e si procedette alla votazione, che fu a scrutinio segreto. Erano presenti e votanti solo 273 deputati, la maggioranza richiesta era di 137 voti. Votarono a favore 253 deputati; contro, i restanti 20. La Camera approvò e la cancellazione del Primo Maggio diventò Legge del Regno[19]. Rimase prigioniero della Legge 17 aprile 1925, n. 473[20] per vent’anni, fino a quando il Decreto Legislativo Luogotenenziale n. 185 del 22 aprile 1946 non lo liberò dichiarandolo, insieme al 25 aprile, giorno festivo a tutti gli effetti[21].

Con la Liberazione, le belle bandiere del Primo Maggio tornavano a sbandierare vittoriose sul fascismo e ben presto avrebbero sconfitto anche la monarchia; poi, dopo essersi irrorate del sangue versato a Portella della Ginestra, all’ombra del podio di Barbato, avrebbero iniziato una nuova battaglia: portare la Costituzione della Repubblica nei luoghi di lavoro. Ancora oggi sventolano in quella direzione.


[1] Regio Decreto 30 dicembre 1923, n. 3031, Modificazioni al Regio decreto 20 marzo 1921, n. 350, concernente la costituzione dell’Ordine cavalleresco «Al merito del lavoro», in «Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia», n. 23 del 28 gennaio 1924

[2] Regio Decreto 30 dicembre 1923, n. 3167, Istituzione della decorazione della «Stella al merito del lavoro», in «Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia», n. 36 del 12 febbraio 1924

[3] Si vedano i Regi Decreti 1 maggio 1898, n. 195; 9 maggio 1901, n. 168; 20 marzo 1921, n. 350 rispettivamente sui numeri 130; 119; 96 della «Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia»

[4] Si vedano: la Legge 15 maggio 1986, n. 194 recante: Norme sull’Ordine cavalleresco al merito del lavoro, in «Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana», n. 116 del 21 maggio 1986; la Legge 1 maggio 1967, n. 316 recante: Nuove norme per la concessione della “Stella al Merito del lavoro”, in «Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana», n. 133 del 29 maggio 1967; il testo di quest’ultima legge si richiama espressamente alla norma fascista

[5] Si veda A Letter on Justice and Open Debate, in «Harper’s Magazine», 7 luglio 2020, lettera aperta contro il fenomeno della cancel culture firmata insieme a Chomsky da centocinquanta accademici, scrittori e artisti; una traduzione in lingua italiana è consultabile online in «Il Post» del 9 luglio 2020: La Lettera contro la “cancel culture”

[6] Sulle relazioni tra politica ed economia e sul “sistema sociale capitalistico di produzione” cfr. M. Cacciari, Il lavoro dello spirito, Milano 2020, un confronto quanto mai attuale con il pensiero di Max Weber

[7] Cfr. S. Ricossa, Liberismo, in N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino (diretto da), Dizionario di Politica, Torino 1990, ad vocem

[8] L. Valiani, Il fascismo nella sua epoca, in J. Jacobelli (a cura di), Il fascismo e gli storici oggi, Roma-Bari 1988, p. 138

[9] Z. Sternhell, Nascita dell’ideologia fascista, Milano 1993, p. 14

[10] S. Musso, Trasformazioni del lavoro e antidemocrazia negli anni tra le due guerre, in L. Cerasi (a cura di), Genealogie e geografie dell’anti-democrazia nella crisi europea degli anni Trenta, Studi di storia 8, Ca’ Foscari, 2019, p. 39

[11] S. Ricossa, op. cit.ad vocem

[12] P. Prodi, La storia moderna, Bologna 2005, pp. 11-12

[13] G. Droysen, Istorica. Lezioni sulla Enciclopedia e Metodologia della Storia, Milano-Napoli 1966, p. 340

[14] P. Prodi, op. cit., p. 14

[15] Si è qui parafrasato M. Cacciari, op. cit., p. 76

[16] V. Castronovo, op. cit., p. 39

[17] A. Acquarone, L’organizzazione dello Stato totalitario, Torino 1965, p. 121

[18] N. Ridolfi, A. Di Nucci, op. cit., p. 64

[19] Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, tornata del 14 gennaio 1925

[20] Legge 17 aprile 1925, n. 473,  Conversione in legge, con approvazione complessiva, di decreti Luogotenenziali e Regi aventi per oggetto argomenti diversi, in «Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia», 5 maggio 1925, n. 104

[21] Decreto Legislativo Luogotenenziale 22 aprile 1946n. 185, in «Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia», 24 aprile 1946, n. 96; l’atto reca: «Disposizioni in materia di ricorrenze festive»

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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