Dopo oltre sei mesi dall’uscita del verdetto, la Corte di Cassazione ha pubblicato le motivazioni della sentenza con cui ha chiuso un processo lungo e pieno di colpi di scena: quello sulla “Trattativa Stato-mafia”. Ad aprile i giudici, annullando senza rinvio la sentenza di Appello, avevano definitivamente assolto dal reato di “violenza o minaccia a corpo politico dello Stato” l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri e gli ex vertici del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno per “non aver commesso il fatto”, prescrivendo i mafiosi Leoluca Bagarella e Antonino Cinà a causa della riqualificazione del reato nella forma “tentata”. All’interno delle 95 pagine di motivazioni, i giudici scrivono che, nel contesto dell’invito al dialogo lanciato ai vertici di Cosa Nostra dal Ros dei carabinieri tra le stragi di Capaci e di Via D’Amelio tramite l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, risulta che gli ufficiali “si sono limitati a ricevere la minaccia mafiosa senza sollecitarla”. E che, allo stesso modo, in occasione della minaccia mafiosa rivolta al governo Berlusconi “da Brusca e Bagarella con l’intermediazione di Vittorio Mangano”, Marcello Dell’Utri “si sarebbe limitato a riceverla senza sollecitarla”. La sentenza, che arriva dopo due pronunce ben diverse – in primo grado uomini dello Stato e mafiosi erano stati condannati insieme a pene ingenti, mentre in Appello i mafiosi erano stati condannati e i membri delle istituzioni assolti “perché il fatto non costituisce reato” – ha già scatenato aspre polemiche.

Nelle motivazioni, i giudici indirizzano varie stoccate ai giudici di primo e secondo grado, affermando che “la sentenza impugnata, e ancor più marcatamente quella di primo grado” avrebbero “optato per un modello di ricostruzione del fatto penalmente rilevante condotto secondo un approccio metodologico di stampo storiografico”. La Corte ha sancito come “la trama di entrambe le sentenze di merito, pur muovendo dal corretto rilievo che la cosiddetta trattativa Stato-Mafia (che non viene, dunque, affatto smentita come passaggio storico, ndr) non costituisce di per sé reato, in quanto condotta non punita dalla legislazione penale, è tuttavia, monopolizzata dal tema dei contatti intercorsi, successivamente alla strage di Capaci, tra esponenti del Ros e quelli della associazione mafiosa denominata Cosa Nostra e dall’accertamento dello sviluppo degli stessi negli anni successivi, riservando un rilievo proporzionalmente minimale alle condotte contestate di minaccia al Governo”. I giudici di appello, in particolare, secondo la Cassazione non hanno “osservato il canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio quale metodo di accertamento del fatto”.

Gli ermellini ritengono che il Ros abbia agito, in quel frangente, con l’obiettivo di frenare l’escalation di violenza perpetrata da Cosa Nostra dall’omicidio di Salvo Lima (12 marzo 1992) in avanti: “L’interlocuzione promossa da Mori e da De Donno con Ciancimino, per quanto accertato dalla sentenza impugnata, era, infatti, volta a comprendere le condizioni per la cessazione degli omicidi e delle stragi da parte di Cosa Nostra e la ricerca dell’apertura di un dialogo, sia pure con una spietata organizzazione criminale, non può assumere la valenza obiettiva, sulla base di un inammissibile automatismo probatorio, di una istigazione a minacciare lo Stato”, scrive la Corte, pur ricordando che, come già rilevato dalla sentenza di Appello, quella del Ros fu “molto di più che una spregiudicata iniziativa di polizia giudiziaria, assumendo piuttosto la connotazione di un’operazione di intelligence”. Secondo i giudici, insomma “l’apertura dell’interlocuzione con i vertici di Cosa Nostra” non può “essere considerata quale forma di rafforzamento dell’altrui proposito criminoso, in quanto ha solo creato l’occasione nella quale ha trovato realizzazione l’autonomo intento ricattatorio dei vertici di Cosa Nostra, ulteriore espressione della strategia minatoria già in corso verso gli organi dello Stato”. La Suprema Corte asserisce poi che non sia provato che il generale Mori abbia riferito l’esistenza della minaccia di Cosa nostra all’allora guardasigilli Giovanni Conso per il tramite di Francesco Di Maggio, che era vicecapo del Dap. Secondo la Procura, infatti, sarebbe stato proprio questo il tassello che avrebbe convinto Conso, nel novembre del ’93 (in seguito alle stragi di Roma, Milano e Firenze) a non prorogare 334 decreti di 41-bis ad altrettanti mafiosi reclusi. La Cassazione, a tal proposito, boccia le ricostruzioni dei giudici di secondo grado, che avrebbero “invertito i poli del ragionamento indiziario”, poiché “l’esclusione di possibili ipotesi alternative non può supplire alla carenza di certezza dell’indizio”.

In merito alla figura dell’ex senatore Marcello Dell’Utri – già condannato in passato per concorso esterno in associazione mafiosa, essendo stato la “cerniera” tra l’ex capo di Cosa Nostra e Silvio Berlusconi quando, nel 1974, il mafioso e l’allora imprenditore stipularono un “patto” che garantì a Berlusconi la protezione sul versante familiare ed economico e alla mafia ingenti pagamenti dal “Cavaliere” almeno fino al 1992 – gli ermellini scrivono che “entrambe le sentenze di merito concordano nell’escludere che le iniziative legislative del Governo e del partito di Forza Italia furono determinate o condizionate dalla minaccia mafiosa, in quanto costituirono libera espressione delle ragioni ideali di tale movimento, che, per risalente asserita vocazione garantista, da tempo si battevano contro alcuni provvedimenti adottati in funzione antimafia dai precedenti Governi”. Evidenziando quanto già sancito nella pronuncia di assoluzione per Dell’Utri in secondo grado, aggiungono che “secondo la ricostruzione operata nella sentenza impugnata, la minaccia mafiosa sarebbe stata rivolta al Governo da Brusca e Bagarella, con l‘intermediazione di Mangano, ma Dell’Utri si sarebbe limitato solo a riceverla, senza sollecitarla, agevolarla, divulgarla in alcun modo a esponenti di governo o, comunque, concorrere in alcun modo alla condotta di reato”.

Molte sono le considerazioni critiche che, pur nel rispetto di una pronuncia definitiva, possono essere sollevate sul suo dettato, specie in correlazione con sentenze precedenti. In primis, il fatto che la “trattativa” inaugurata dal Ros dei Carabinieri convinse i mafiosi a ritenere che la strategia delle bombe fosse la più funzionale a ricattare lo Stato non è solo il pensiero dell’accusa (a cui, evidentemente, si contrappone la Cassazione), ma un dato sancito da numerose pronunce emerse negli ultimi anni. Già nel 1998, i giudici della Corte d’Assise di Firenze, che si esprimevano sulla strage di via dei Georgofili del 1993, avevano scritto che “l’iniziativa dei Ros” aveva “tutte le caratteristiche per apparire come una ‘trattativa‘” che ebbe l’effetto di convincere “definitivamente” i boss mafiosi “che la strage era idonea a portare vantaggi all’organizzazione”. Ancor più a fuoco la sentenza “Tagliavia” della Corte d’Assise d’Appello di Firenze del febbraio 2016 – divenuta irrevocabile nel 2017 -, che considera “provato che dopo la prima fase della cd. trattativa avviata dopo la strage di Capaci, peraltro su iniziativa esplorativa di provenienza istituzionale (cap. De Donno e successivamente Mori e Ciancimino), arenatasi dopo l’attentato di via D’Amelio, la strategia stragista proseguì alimentata dalla convinzione che lo Stato avrebbe compreso la natura e l’obiettivo del ricatto proprio perché vi era stata quell’interruzione”.

Una serie di perplessità dal punto di vista tecnico-giuridico vengono invece sollevate dall’ex pm Antonio Ingroia, che è stato il rappresentante della pubblica accusa al processo: «Con tutto il rispetto per i giudici della Cassazione, questa sentenza ha passaggi molto deboli in punta di diritto – ha detto in un’intervista al Fatto Quotidiano –. Mi sembra che si fosse pregiudizialmente deciso di chiudere questo capitolo. E di doverlo chiudere con l’assoluzione più ampia possibile per gli uomini dello Stato». Nello specifico, Ingroia ritiene che «la Cassazione non può cambiare la formula assolutoria» soltanto «perché il medesimo fatto non è provato al di là di ogni ragionevole dubbio», poiché ciò può essere fatto «solo nei confronti di chi è stato condannato». Questo, aggiunge Ingroia, «lo prevede la giurisprudenza della stessa Cassazione: i precedenti citati sono tutti casi di annullamento di sentenze di colpevolezza. Al di là di ogni ragionevole dubbio è un criterio solo per chi viene condannato, non per chi è stato assolto». E i Ros «erano stati assolti in Appello». Ingroia inquadra come «l’ennesima contraddizione» della pronuncia il fatto che essa «da una parte, per assolvere i carabinieri, valorizza percorsi alternativi attraverso i quali le minacce sarebbero arrivate al governo. Dall’altra, però, dice che il reato di minaccia non è stato consumato. Ecco perché occorreva un altro processo. Ed ecco perché per me questa è una sentenza che odora di politica. Non mi spiego altrimenti questa sentenza saracinesca».

[di Stefano Baudino]

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e di profilazione. Cliccando su accetta si autorizzano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su rifiuta o la X si rifiutano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su personalizza è possibile selezionare quali cookie di profilazione attivare.
Attenzione: alcune funzionalità di questa pagina potrebbero essere bloccate a seguito delle tue scelte privacy