Francesco Prandel 

Dove basta il dito per indicare, la bocca si chiude, la mano che scrive e disegna si ferma, le facoltà mentali si degradano.

Rudolf Arnheim

Cos’è cambiato negli ultimi quarant’anni? Si fa prima a dire quello che è rimasto uguale. La penna BIC. Forse anche l’accendino. Per il momento non mi viene in mente altro. Del resto, è noto da tempo che “tutto scorre”. E chi lo vorrebbe un mondo che non cambia mai?

Detto questo, mi sento di dire anche qualcos’altro. Una delle cose che mi sembra di capire guardandomi  un po’ attorno, e provando a ragionando su quello che vedo, è che ogni cambiamento risolve qualche vecchio problema e ne crea di nuovi. Faccio fatica a immaginare cambiamenti  che abbiano il dritto senza avere un rovescio. La domanda che lampeggia, allora, non interroga i cambiamenti che hanno cavalcato il millennio per sapere se sono buoni o cattivi. Vorrebbe piuttosto sapere se questi cambiamenti hanno risolto più problemi di quelli che hanno creato. O se, invece, hanno creato più problemi di quelli che hanno risolto. La questione mi sembra tutta qui.

Uno dei cambiamenti più importanti degli ultimi decenni è senz’altro quello introdotto dagli sviluppi impressionanti dall’informatica e delle telecomunicazioni. Non mi dilungo qui sugli innumerevoli vantaggi offerti da computer e telefonini  – che ormai sono la stessa cosa. Mi permetto piuttosto di  rilevare un effetto collaterale che a me pare poco desiderabile, e che mi sembra stia passando inosservato. Lascio a voi l’onere di decidere se si tratta di un aspetto marginale o meno.

Negli ultimi anni del “secolo breve” era del tutto usuale, in treno, vedere persone che, quando non leggevano e non dormivano, quando non conversavano con gli altri passeggeri, guardavano fuori dal finestrino pensando a chissà che cosa. Pensavano, magari osservando distrattamente lo sfrecciare dei campi e delle auto ferme ai passaggi a livello. Ma pensavano. Come ricordo che in quegli anni, nella sala d’attesa del medico, chi non sfogliava distrattamente le immancabili riviste patinate e sdrucite, aspettava il proprio turno pensando ai fatti propri. Pensava, magari fissando una piastrella del pavimento o un quadro appeso alla parete di fronte. Ma pensava.

Oggi, nei momenti in cui non c’è niente da fare, quale ragazzino, quale padre, quale pensionato tarda ad estrarre il cellulare? Se vedete un uomo di mezza età seduto su una panchina del parco che smanetta col cellulare, non ci fate nemmeno caso. È normale, lo fanno tutti. Ma se quell’uomo, invece di tuffarsi nello schermo dello smartphone, fissa le foglie cadute per terra per più di dieci minuti, può fare uno strano effetto. Può dare l’impressione di avere qualche problema. No, non è affatto normale.

In alcuni suoi aspetti, la mente si comporta come il corpo. Chi non ha disturbi dell’alimentazione,  dopo aver mangiato si prende il tempo per digerire. Una parte del cibo assunto viene assimilata, il resto viene espulso. Analogamente, la mente si nutre di informazione. Anche l’informazione, come il cibo, ha bisogno di essere “digerita”. Ha bisogno di essere rielaborata, e questo richiede tempo. Richiede tempo per pensare. Quello che ci interessa lo memorizziamo, il resto lo dimentichiamo.

Guardandomi attorno vedo sempre più persone talmente intente ad abbuffarsi di informazione che non si prendono il tempo di pensare. Così, quando mi capita di parlarci, me la vomitano addosso tal quale, senza averla digerita, senza averla elaborata, proprio come fanno i bulimici. È tutto un ripetere frasi fatte, uno snocciolare luoghi comuni, uno scimmiottare discorsi fatti da altri quasi senza variazioni sul tema. In queste condizioni la comunicazione degenera in una serie di tautologie, e  il discorso dominante assume i connotati di un monologo collettivo, in cui tutti dicono e ascoltano le stesse cose. Il pensiero unico si sta affermando non solo perché è l’unico che i media “ufficiali” diffondono a reti unificate “h 24”, ma anche perché la bulimia cognitiva sta rapidamente erodendo il tempo della riflessione.    

L’inondazione mediatica sottrae il tempo alla riflessione. Il diluvio costante di dati e moniti proibisce il ragionamento. Chi tenta di uscire da questo teatrino rischia di incespicare nell’ingenuità di auto-etichettarsi nei termini della narrazione dominante, nel doversi giustificare quando mette in campo il dissenso che è condannato a monte da giudizi ed etichette. È un universo concentrazionario dal quale difficilmente si riesce a sottrarsi o si esce incolumi. Pensare implica energia e tempo. Giudicare ed applicare etichette, no. L’assenza di tempo per riflettere è la nemica giurata della ragione.

Gianluca Magi

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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