Nell’evidente difficoltà delle democrazie liberali stiamo assistendo ad una cruciale fase di passaggio: durante il dominio della televisione come mezzo di comunicazione di massa, la “democrazia del pubblico” (teorizzata da Bernard Manin) si esplicava giudicando l’offerta politica in una grande arena collettiva. Oggi invece il grande stadio virtuale in cui si radunavano gli elettori per assistere al duello elettorale non c’è più. L’area pubblica si è frammentata in una miriade di “bolle mediatiche” sul web, assieme a sottosistemi e a interconnessioni che alla fine costringono i politici a rovesciare il rapporto tra offerta e domanda politica secondo le regole della pubblicità, reclamando la verifica di un scelta non con la bontà dell’opzione assunta, ma la sua coerenza con la propaganda che l’ha preceduta.

Così dall’opposizione si spara ad alzo zero e si fa presto a entrare e uscire dalla scena del governo: è stata l’adozione di questo principio il danno più grande (e per ora irrimediabile) compiuto dal M5S al riguardo del sistema politico italiano e l’origine della scelta (del tutto incauta) compiuta dall’elettorato nei riguardi di FdI, partito portato al governo senza un a reale ragione che non fosse quella di eliminazione per gli altri.

FdI ha avuto pochi voti (soltanto sette milioni per conseguire la maggioranza relativa). Voti del resto, amplificati nel numero dei seggi parlamentari da una legge elettorale sicuramente anticostituzionale almeno secondo i principi enunciati dall’alta Corte nel momento in cui aveva accolto le istanze, promosse dall’avv, sen. Besostri, di rigetto della formula elettorale del 2005 e di quella escogitata e mai entrata in vigore dal governo Renzi nel 2015.

Come abbiamo già fatto notare la crisi della democrazia liberale si sta traducendo in un rovesciamento nel rapporto tra domanda e offerta: è la domanda che guida il processo politico assumendo le richieste del pubblico come prezzo del consenso (era questo il motivo per il quale il M5S chiedeva di modificare l’articolo 67 della Costituzione sulla rappresentatività di mandato).

In questo quadro può sorgere un nuovo “autoritarismo democratico” che punta a tenere ai margini la partecipazione popolare coltivando con cura sia il disinteresse crescente sia le risposte corporative allo scopo di restringere e semplificare l’arena di ricerca del consenso.

E’ risultata sicuramente colpevole la sottovalutazione (che ha coinvolto l’insieme della politologia italiana) circa la diminuzione costante nella partecipazione al voto a lungo scambiata per un allineamento dell’Italia alle “democrazie occidentali mature” e la dismissione da parte dei partiti sia dei riferimenti ideologici sia della funzione pedagogica.

Sulla funzione pedagogica si era costruito il radicamento sociale dei grandi partiti di massa, ma anche l’identità “forte” di quelli di più modesta dimensione elettorale: dimensione elettorale che non rappresentava l’unico parametro per giudicare la validità culturale e sociale della presenza di un partito come hanno dimostrato le storie del PRI, del Partito Radicale e delle forze collocate a sinistra del PCI (Pdup e Democrazia Proletaria).

Come rispondere a questo pericoloso stato di cose?

L’idea dovrebbe essere allora quella di lavorare, con tutti gli strumenti disponibili, intorno a quel rapporto tra cultura e politica ormai ridotto all’assemblaggio di un insieme di tecnicismi, in diversi campi da quello accademico per arrivare a quello istituzionale.

Si tratta di partire per una ricognizione di fondo con l’ambizione di ottenere il risultato di provocare una riflessione complessiva tale da superare le settorializzazioni, gli schematismi oggi imperanti che, alla fine, hanno danneggiato non soltanto la qualità degli studi e delle ricerche, ma soprattutto la qualità dell’“agire politico”.

Non possiamo permetterci di interpretare il senso delle cose soltanto seguendo l’interesse immediato di questo o quell’altro gruppo di potere recuperando la logica dell’uomo/donna che lo interpreta direttamente senza mediazioni facendo credere che lo si faccia nell’interesse di un “popolo” indistinto, o peggio nell’interesse della sua parte più privilegiata e più facilmente manipolabile dai mezzi correnti nella costruzione di una realtà presunta e illusoria

Serve legarsi a un filo conduttore, coscienti del fatto che ciò non significa che il pensiero politico si sia rivolto sempre ai medesimi problemi attraverso le medesime categorie.

Al contrario è necessario prestare grande attenzione e insistenza nel mettere in luce che, se è vero che i concetti politici sono la struttura-ponte di lungo periodo è anche vero che solo le trasformazioni epocali, il mutare degli orizzonti di senso, il modificarsi catastrofico degli scenari sociali e politici, oltre che intellettuali, hanno consentito ai concetti politici di assumere di volta, in volta, il loro significato concreto.

Di Franco Astengo

Lunga militanza politico-giornalistica ha collaborato con il Manifesto, l'Unità, il Secolo XIX,. Ha lavorato per molti anni al Comune di Savona occupandosi di statistiche elettorali e successivamente ha collaborato con la Facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Genova tenendo lezioni nei corsi di "Partiti politici e gruppi di Pressione", "Sistema politico italiano", "Potere locale", "Politiche pubbliche dell'Unione Europea".

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