Viene continuamente ribadita l’idea che non possa esservi pace senza giustizia e c’è persino un’ associazione, diretta da Emma Bonino, che si rifà sin nel nome a questo concetto. Ora il tema viene ripreso e rilanciato da un articolo del rabbino Roberto della Rocca (direttore del Dipartimento Cultura dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane) su la Repubblica del 19 dicembre (https://www.repubblica.it/cultura/2023/12/18/news/voglia_di_pace_ebraismo_rabbino_roberto_della_rocca-421689780/). Non è tanto rilevante entrare qui nel merito delle considerazioni che traggono spunto dai testi biblici; sarebbe certo interessante, ma questo è un argomentare che può convincere solo chi già crede. Piuttosto bisogna andare al cuore del discorso che ruota intorno all’idea che «non si può costruire il bene e declamare la pace se prima non si elimina il male». Contrapponendosi al pacifismo in quanto tale, nell’articolo si sostiene che «la pace non è tale se solamente tacciono i cannoni, perché sia completa dovrà essere buona».

Due sono i concetti a giocare un ruolo centrale in tutto questo ragionamento: quelli di “giusto” e di “buono”. Affermare che, affinché ci sia la pace, è innanzi tutto necessario, quale condizione preliminare, realizzare una condizione di giustizia e quindi attuare il bene, solleva immediatamente la questione: “giusto per chi?”; “buono secondo quale criterio e in base a quali valori?”. Per chi è interno a una fede, o addirittura a una particolare declinazione di fede (giacché non tutti i cristianesimi sono uguali e non tutti gli ebraismi sono concordi, come si vede dalle infinite sette ed eresie che sul loro tronco sono nate), la risposta è facile da trovare, specie se ci si rimette a una autorità che la avalli, sia esso il papa, qualche rabbino o un mullah. Ma per l’uomo in generale o per persone che si collochino all’interno di tradizioni valoriali diverse, la questione diventa molto più spinosa e difficile da dirimere, come dimostra l’esperienza storica quando, ad esempio, i calvinisti di Ginevra bruciavano sul rogo Michele Serveto in base alla loro idea di religione, di giusto e di bene, analogamente a quanto han fatto i cattolici in innumerevoli casi e per le analoghe ragioni.

Il terreno del giusto e del bene è assai sdrucciolevole e malfermo per costruirvi sopra l’idea di pace; inoltre la “giustizia” è un concetto assai equivoco, perché ogni guerra pare giusta a chi la combatte; e lo è sempre se si è risultati vincitori; nessuna delle parti contendenti in un conflitto è disposta ad ammettere di essere dalla parte del torto e non acconsentirà mai di essere ritenuta la (sola) responsabile delle distruzione e delle morti causate. Richiedere la giustizia e il bene come condizione preliminare per la pace o addirittura per il cessate il fuoco (giacché questo è il sottotraccia che si legge nell’intervento citato) vuol dire far sì che la guerra possa cessare solo con la disfatta totale di uno dei contendenti, e così viene ad affermarsi il “giusto” o “bene” del vincitore. E allora la sola giustizia di fatto possibile sarà quella del vincitore e dei suoi tribunali. L’idea che si possa stabilire in modo assoluto se una guerra sia giusta o meno è un’ulteriore manifestazione di quella hybris tipica di quelle culture così accecate dalla propria presunta superiorità da pensare di essere in possesso dello “sguardo di Dio” o del filosofo platonico, in grado di discriminare con la sua onniscienza il bene e il male.

Purtroppo ogni giudizio di bene e male parte da una certa prospettiva, è storicamente contestuale ed è inevitabilmente definito all’interno di correlazioni tra eventi, tradizioni, prospettive e visioni del mondo. Non si può neanche (a prescindere dal giusto e dal bene) procedere a una semplice imputazione causale con l’additare una delle due parti, o un certo evento, come la causa scatenante la guerra che, se non la giustifica, almeno la spieghi. Perché, come sa chiunque sia venuto a conoscenza delle faide familiari o delle ostilità tra tribù, etnie, popoli e culture, la catena degli eventi si allunga sempre più all’indietro e non si trova mai il caso scatenante, la maglia iniziale che ne spieghi l’origine; essa si perde nel fondo oscuro della storia, sino a risalire ad epoche assai lontane, sulle quali è impossibile avere una chiara informazione e documentazione e che è piagata dalle controverse interpretazioni degli storici.

Diversamente da quanto pensa l’autore dell’articolo citato, è piuttosto la condizione della pace ad essere il momento preliminare per cercare di sanare le ingiustizie e poter pervenire a una visione condivisa di bene. E quando un conflitto scoppia, un ragionevole pacifismo fa di tutto per arrivare a un cessate il fuoco, senza entrare nel merito dei torti e delle ragioni, ma al solo scopo di intavolare trattative di pace. Esse sono possibili soltanto a condizione che non siano punitive o umilianti per nessuno dei contendenti (o che almeno tali appaiano a ciascuno di essi e all’opinione pubblica del suo paese), evitando così di alimentare rancore e sentimenti di rivalsa.

Non è possibile conseguire la pace alimentando la guerra con l’idea che sia possibile ottenerla in modo definitivo: è l’illusione di ogni “ultima guerra”, della risoluzione finale; né è possibile ottenere la pace richiedendo come sua condizione preliminare la giustizia. Il discorso va piuttosto capovolto: non è possibile la giustizia, senza che vi sia la pace. È quest’ultima ad essere la precondizione affinché si possano risolvere le questioni con giustizia, che è sempre il frutto di un compromesso a seguito di una discussione comune, aperta alla comprensione delle ragioni dell’altro e con accordi garantiti dalla comunità degli Stati (possibilmente l’ONU, se ha ancora qualcosa di utile da fare). E ciò può avvenire solo quando gli animi si siano raffreddati, i danni riparati, le persone restituite a una condizione di vita pacifica, gli odi reciproci siano sedimentati. Bisogna avere la pazienza di aspettare e intanto risanare le ferite, ponendo così le premesse non certo per far trionfare la Giustizia e il Bene, ma per raggiungere un compromesso su un bene e un giusto comunemente condiviso ed accettato, tale da permettere la convivenza senza la necessità di reciproca violenza. Pensare il contrario – che non c’è pace senza giustizia – significa mettere il carro davanti ai buoi o, nel caso peggiore, volere imporre la visione di una certa giustizia e di un certo bene, che di solito vengono fatti coincidere con l’affermazione arrogante di una certa civiltà e di un certo sistema di valori, eretti a norma universale di comportamento.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

Un pensiero su “È la pace la precondizione della giustizia, non il contrario”
  1. per questo articolo l’autore si é ispirato al generale vannacci? è ovvio che è il contrario, non può esserci pace senza giustizia. il mondo al contrario…

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