– di: Elisabetta Grande

È una strana tornata elettorale quella che si prospetta quest’anno negli Stati Uniti, in cui piano politico e piano giudiziario si intrecciano come mai era capitato prima. Si tratta di un intreccio che coinvolge principalmente Donald Trump, il candidato alle primarie che mantiene un vantaggio abissale rispetto agli altri concorrenti alla nomination repubblicana.

Anche Joe Biden, l’incumbentrischia però di essere trascinato in vicende giudiziarie che possono fargli perdere il sostegno di non pochi elettori. Sono per lui le faccende del figlio, che ora anche la Camera dei rappresentanti ha ottenuto l’autorizzazione di indagare in vista di un suo possibile impeachment, a coinvolgerlo. E se le prove che Joe Biden abbia tratto profitto dagli affari internazionali di Hunter – per via del suo ruolo di vice durante la presidenza Obama – sono scarne e inconsistenti, molto più serie sono le accuse rivolte a Hunter Biden sul piano penale. Inizialmente indagato per evasione fiscale e per detenzione illegale di un’arma, dopo un fallito patteggiamento che gli avrebbe risparmiato la detenzione lo scorso giugno, il 7 dicembre – su richiesta del procuratore speciale David C. Weiss – un grand jury ha formalizzato un’imputazione a suo carico per 9 capi relativi a diverse evasioni fiscali che, se provate in giudizio, comportano una pena detentiva fino a 17 anni. Per quanto non direttamente rivolte a Joe, quelle accuse e il corrispondente processo peseranno certamente sulla scelta degli elettori di attribuire la propria preferenza all’incumbent. Secondo un sondaggio di Reuter/Ipsos, il 26% degli elettori, infatti, già a giugno si era dichiarato meno disponibile a votare Joe Biden in caso di dichiarazione di colpevolezza da parte del figlio e corrispondente patteggiamento per i reati di cui sopra. Un’indagine più approfondita sulle condotte poco trasparenti di Hunter e un processo che ne accerti la colpevolezza mettendo in luce quanto il suo cognome – e non certo la sua inesistente competenza nel settore energetico – gli avesse permesso nel 2014 di entrare a far parte del consiglio di amministrazione della società ucraina Burisma e di guadagnare cifre esorbitanti sulle quali non avrebbe pagato 1.4 milioni di dollari in tasse nel giro di quattro anni, potrebbero certamente costare a Joe ancora più voti. E se si pensa quante sono già adesso le sue difficoltà, con un indice di gradimento nazionale ai minimi storici e in netto svantaggio nei sondaggi rispetto a Trump nei battleground states – ossia in quegli Stati che fanno davvero la differenza e che nel 2020 aveva vinto per pochissimo – non si tratta davvero di una questione di poco conto.

La vera ribalta giudiziaria, quella che inciderà pesantemente sulla prossima elezione presidenziale, riguarda però – com’è noto – principalmente Trump. Ben quattro sono i procedimenti penali a suo carico, due a livello federale – rispettivamente per la questione dei documenti riservati trovati nella sua residenza a Mar-a-Lago e per i noti fatti del 6 gennaio 2021 – e due a livello statale – uno a New York, per le vicende legate al pagamento di una porno star durante la campagna elettorale del 2016 affinché non rivelasse un loro affaire, e l’altro in Georgia in cui l’ex presidente è stato rinviato a giudizio per cospirazione volta al sovvertimento dei risultati elettorali del 2020 –. Un processo civile contro di lui, per aver gonfiato il valore dei suoi beni, sta poi per concludersi a Manhattan, con il rischio che oltre a pagare somme ingenti Trump venga altresì escluso dalla possibilità di esercitare qualunque attività di impresa nello Stato di New York. Per l’ex presidente, dunque, le primarie e l’intera campagna elettorale saranno legate a doppio filo alle sue vicende giudiziarie, soprattutto ora che la Corte Suprema è stata chiamata in causa e sembra destinata, come ai tempi di Bush v. Gore (sia pur in forma diversa), a diventare determinante nell’elezione presidenziale.

Tre sono, infatti, le questioni che hanno raggiunto o stanno per raggiungere la Corte Suprema e che sono certamente dirimenti per il futuro agone elettorale. La Corte ha, innanzitutto, accettato di decidere se due dei quattro capi di imputazione (che riguardano la fattispecie di ostruzione di un procedimento ufficiale) nel processo per i fatti del 6 gennaio – il più importante fra tutti i casi che vedono coinvolto Trump – sono o meno applicabili a coloro che hanno partecipato all’assalto di Capitol Hill. Se, in attesa della decisione, il giudice del processo potrebbe sospenderne il corso, una pronuncia in senso negativo impedirebbe all’accusa si mostrare importanti prove alla giuria a conferma della colpevolezza di Trump, senza contare che sarebbero messe in discussione le innumerevoli condanne già inflitte sulla base di quelle fattispecie ai partecipanti alla carica del 6 gennaio. La seconda questione di cui la Corte Suprema sarà investita riguarda la squalifica dalle primarie di Donald Trump, in base alla terza sezione del XIV emendamento della Costituzione – scritta all’indomani della guerra civile – che impedisce a chiunque sia stato coinvolto in un’insurrezione, e abbia giurato di rispettare la Costituzione degli Stati Uniti, di ricoprire una carica ufficiale. La Corte Suprema del Colorado – a differenza della corte di primo grado dello stesso Stato e di altre corti statali – sulla base di quella norma ha infatti estromesso Trump dalle primarie del Colorado, salvo che faccia appello alla Corte Suprema federale: in tal caso Trump rimarrà in corsa. Com’è ovvio i legali dell’ex presidente hanno già annunciato il ricorso, cosicché alla Corte Suprema, se – com’è probabile – accetterà la giurisdizione, spetterà l’arduo compito di interpretare una norma assai controversa in un momento storico estremamente critico. Infine, e su un fronte opposto, è il tema dell’immunità presidenziale per i fatti del 6 gennaio che la Corte Suprema affronterà nuovamente in un futuro prossimo. Rigettata dal giudice di primo grado per i fatti del 6 gennaio, l’esimente dell’immunità è ora al vaglio di una corte di appello federale che ha accettato la richiesta del procuratore Jack Smith di decidere in tempi brevi. La stessa richiesta, da parte del procuratore federale, che le aveva posto direttamente la questione per saltum, non è invece stata accolta dalla Corte Suprema, che ha per il momento deciso di non decidere, con grande soddisfazione di Trump. La strategia dell’ex presidente è, infatti, non tanto di difendersi in corte dalle accuse mossegli, quanto di posporre tutte le pendenze penali fino alla sua eventuale rielezione nel novembre 2024. A quel punto potrà bloccare tutti i processi federali contro di lui e, una volta riguadagnata la Casa Bianca, anche per i procuratori statali sarà più complicato portare a termine i processi.

Mai come nella prossima tornata elettorale i risultati della stessa dipenderanno dunque dalle decisioni giudiziarie e in ultima istanza, per quel che riguarda Trump, dalle pronunce della Corte Suprema: un fardello non da poco per quest’ultima, già sotto attacco per il comportamento poco etico di alcuni suoi membri e per certune ultime sue pronunce apparse assai più politiche che tecniche. In un contesto fortemente polarizzato, in cui ogni decisione giudiziaria contraria a Trump apparirà alla metà degli elettori americani – che lo vuole presidente come un attacco politico, il compito della Corte Suprema si presenta particolarmente delicato. In molti pensano che le corti non dovrebbero interferire nelle scelte degli elettori e che ciò che capiterà alle prossime elezioni dovrebbe essere lasciato alla determinazione dei cittadini e non dei giudici. C’è da scommettere che anche i 9 justices della Corte Suprema in cuor loro non vorrebbero altro!

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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