di Marco Sferini

Non quest’anno, ma tutti gli anni. Non ne passa uno da quarantasei a questa parte, in cui fascisti nostalgici e fascisti di nuovo corso, imbellettati da un certo istituzionalismo che li ha resi “presentabili” agli occhi dell’Europa e del mondo dei compromessi tra economia e politica, non si ritrovino nella piazzetta di via Acca Larentia a Roma, dove negli anni ’70 e ’80 vi era una storica sede del Movimento Sociale Italiano, per commemorare Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta, assassinati da presunti militanti dell’estrema sinistra dell’epoca, e Stefano Recchioni, la cui morte avvenne nei tafferugli che seguirono quel tragico evento.

La croce celtica al centro della piazzetta in via Acca Larentia a Roma

Il luogo è divenuto una sorta di perimetro dello sdoganamento di qualunque simbologia fascista: per arrivarvi si passa attraverso le colonnine che delimitano l’area pedonale e che sono state fregiate con le immagini stilizzate di fasci littori. Emblemi e motti del Ventennio si ritrovano un po’ ovunque.

Affissioni abusive di manifesti di organizzazioni neofasciste pure. Al centro della piazzetta, proprio davanti al locale che ospitava la sede del MSI-DN, giganteggia sul lastricato marmoreo una enorme croce celtica, ripresa persino da Google Maps. Cenni di murales che ritraggono legionari romani e guerrieri mitologici fanno da sfondo.

Una targa sormonta il tutto e recita che lì, in quel luogo, la sera del 7 gennaio 1978 l’”odio comunista” e i “servi dello Stato” misero fine alla vita di tre ragazzi, tre militanti neofascisti: Bigonzetti venne freddato sul colpo. Ciavatta tentò di fuggire, pure ferito, ma venne raggiunto e finito sulla scalinata vicina alla sede del MSI.

Il terzo, Recchioni, anche lui appena ventenne, fu vittima di un colpo di pistola partito in mezzo alle colluttazioni tra forze dell’ordine e manifestanti durante il presidio di protesta a cui erano accorsi gli universitari del FUAN da molti quartieri romani.

Non quest’anno, ma ogni anno la commemorazione ha luogo con la ritualità cameratesca dell’inquadramento ordinato di una truppa nera, rigidamente incolonnata ed allineata davanti alla sede del vecchio partito fascista di Almirante. Un tricolore sventola da un pennone, compaiono bandiere rosse con la croce celtica su campo bianco, corone di fiori, gagliardetti.

Si intona il classico “presente!” scandito tre volte per ognuno dei nomi dei caduti. E si alzano tutte le braccia tese. Il saluto romano sembra scaricare in aria la tensione elettrica di una rabbia di cui si nutre una memoria che, a differenza dei tanti fatti cruenti compiuti dai neofascisti nel dopoguerra, si pretende viva e patrimonio quasi collettivo.

Per quei tragici fatti del gennaio 1978 non pagò nessuno. L’unica rivendicazione di cui si ebbe contezza fu quella di una sigla sconosciuta fino ad allora: i “Nuclei Armati di Contropotere Territoriale“. Dietro rivelazione di una pentita, Livia Todini, si arriverà ad accusare cinque ex militanti di Lotta Continua che saranno assolti in primo grado per insufficienza di prove. Uno di loro, Mario Scrocca, il giorno appena seguente l’arresto e l’interrogatorio del giudice, si impiccherà in cella.

La storia politica e sociale degli anni dello scontro permanente tra frange di estremissima destra e antifascismo militante è costellata di queste tragedie: omicidi, suicidi, crimini e accuse verso persone che in certi casi erano manovalanza di chi puntava all’eversione antidemocratica; mentre in altri casi potevano rivelarsi completamente estranee a quanto avvenuto.

Questi i fatti per come sono arrivati fino ad oggi nel processo di storicizzazione di un periodo che ha insanguinato il Paese e che, proprio a partire dai fatti di Acca Larentia, ha conosciuto un salto di qualità davvero enorme nel trasformare parte della militanza giovanile del MSI in terroristi armati, in violenti gruppi di stragisti.

Valerio “Giusva” Fioravanti e Francesca Mambro

I NAR (Nuclei Armati Rivoluzionari), di cui Francesca Mambro faceva parte, inizieranno così la loro sanguinosa scia stragista affidata ad uno “spontaneismo” che definiscono appunto “rivoluzionario” perché vorrebbe innovare l’azione nazionalista di riaffermazione di princìpi che si richiamano esplicitamente al fascismo e al nazismo, nell’ottica di una trasformazione radicale della società che andasse oltre il golpismo dei vecchi gruppi eversivi.

Molti di loro non dichiareranno mai una manifesta appartenenza al neofascismo, ma – come dichiarò Valerio Fioravanti in “Storia nera” di Andrea Colombo, edito da Cairo nel 2020) – preferiranno definirsi “anti-antifascisti“.

La politicizzazione dei NAR, del resto, è uno degli elementi che li hanno particolarmente contraddistinti rispetto ad altre formazioni terroristiche dell’estrema destra: proprio la separazione dall’istituzionalismo missino, dalla netta distinzione tra destra e sinistra, arrivando persino ad ammirare la “serietà” di gruppi come le Brigate Rosse per, si diceva allora, la loro capacità organizzativa, il loro rigore intellettivi associato ad una disciplina di cui i neofascisti sono sempre stati cultori profondamente ideologizzati.

I fatti di Acca Larentia sono, quindi, un punto di svolta della storia politica tanto della destra tradizionalmente neofascista del MSI, così come di quella dell’eversione nera che vi si era fino ad allora accompagnata.

Provate ad immaginare quanto avviene ogni anno nella piazzetta romana ricca di simbologie celtiche e littoriche tradotto in un contesto, ad esempio, della Berlino di oggi. Pensate se, in un quartiere della capitale tedesca ci fosse un punto in cui, persino con i satelliti di Google, si può, vedere chiaramente dall’alto una grande svastica su un campo bianco marmoreo.

Provate a pensare a qualche migliaio di neonazisti, vestiti magari con le camicie ocra, con qualche bandiera del Terzo Reich, che commemorano un evento sanguinoso del recente passato. E provate a pensarli mentre lo fanno, alla sera, magari con le fiaccole accese, rievocando i fasti delle SA e, perché no…, anche delle SS.

Ed, infine, pensateli mentre, invece di scandire stentoreamente il cameratescamente italiano “Presente!“, si producono a squarciagola nel lugubre singulto ritmico del “Sieg heil!” col braccio alzato al saluto nazista, naturalmente… Ecco, è pensabile tutto questo nella Germania di ieri e di oggi? Francamente no.

E’ letteralmente non solo impensabile ma pure inimmaginabile. Le anche più violente manifestazioni dell’estrema destra tedesca, non somigliano nemmeno alla lontana all’organizzazione di una celebrazione che, in spregio anche alla memoria storica dell’Italia, ma soprattutto alle leggi da sempre vigenti (prime fra tutte la Costituzione repubblicana), pretendeva ieri e vede realizzarsi oggi una impunità per la sfacciata ostentazione di sé stessa.

Non oggi, ma sotto ogni governo, queste testimonianze del ricordo si sono nutrite del clima di tolleranza che, da un lato, le istituzioni hanno consentito; dall’altro della mancata reazione forte di una politica in cui l’antifascismo è stato timidamente interpretato dalla vecchia DC, grande agglomerato di potere, tutta tesa al compromesso permanente tanto col progressismo socialisteggiante quanto con le estremità più retrive della destra

La seconda targa affissa, quella dell’”odio comunista”

Un fatto di sangue, che ha portato alla morte violenta di tre ragazzi, le cui idee erano certamente al di fuori del consesso democratico, ma che facevano comunque politica in quell’Italia del 1978 perché quell’Italia consentiva che esistesse ancora – nonostante i precetti della Carta fondamentale – una riorganizzazione sotto altro nome del disciolto partito fascista, si è dimostrato ancora una volta come pietra angolare di una divisione storica nel panorama socio-politico-culturale del Paese.

Se nella Germania postbellica e moderna è impossibile che si verifichino celebrazioni di una congiunzione tra storia totalitaria e attualità neofascista (e neonazista), è perché i tedeschi sono stati costretti a fare i conti con quanto avvenuto. Senza non poche ritrosie, con una marea di sensi di colpa che si è tentato di occultare per molti decenni, ma che, alla fine, non hanno prevalso nelle nuove generazioni, perché i loro padri hanno dovuto guardare in faccia un orrore di cui i loro genitori erano stati complici, con cui una buona parte della popolazione si era, a vari livelli, compromessa.

La Germania moderna, che rivive la condizione dello splendore antecedente la Grande Guerra, o quanto meno uno stato di distribuzione della ricchezza certamente meno ineguale che in altri paesi europei che fanno parte del G7 o del G20, a differenza dell’Italia ha saputo, lentamente, edificare una barriera di anticorpi storici, fatti di una critica ragionata sulle cause che portarono alla sostanziazione del regime hitleriano.

La congiuntura sociale, economica, politica associata ad una scriteriata empatia per la ricerca del capro espiatorio cui affidare le disgraziate condizioni del dopo-Trattato di Versailles, quando tutte le colpe della Prima guerra mondiale vennero praticamente rovesciate dagli alleati vincitori sulla giovane Repubblica di Weimar, in quanto Germania erede di un passato militarista ed espansionista che aveva, molto prima dell’avvento di Hitler, già individuato nell’ebraismo uno dei cancri della nazione.

Il fascismo italiano, invece, rimane una parte della nostra storia novecentesca su cui la divisione politica della società si fa dicotomica, dove o si sta da una parte o dall’altra. Alla Germania è mancata, del resto, una Resistenza propriamente detta, nonostante i molti tentativi di assassinare il Führer, di togliere di mezzo l’intera cricca nazista con colpi di Stato che potessero essere la chiave di volta tanto della guerra, scongiurando l’invasione del paese da parte tanto dei russi quanto degli angloamericani.

La grande epopea resistenziale italiana, che giustamente Pasolini descriveva, insieme al movimento studentesco a cavallo tra anni ’60 e ’70, come la vera rivoluzione popolare e sociale di una nazione tutta da costruire (oltre che da ricostruire materialmente parlando…) è, sotto questo aspetto, una peculiarità unica nell’Europa di allora. Solo la Resistenza francese vi si avvicina, se non altro, per entità numerica nella partecipazione e per organizzazione di un quintocolonnismo nel cosiddetto “territorio libero” di Vichy.

L’Italia, diversamente dalla Germania, dalla Francia, dall’Inghilterra e persino dalla Russia, ha affrontato una vera e propria guerra civile nella guerra mondiale. Una tragedia che ha spaccato il giovane Paese nato abborracciatamente nel 1861 sulle ceneri di staterelli in cui la retrocessione economica faceva il paio, almeno al centro-sud, con una incultura davvero di massa. Ma nemmeno la sconfitta dell’analfabetismo è stata la chiave di volta di un pieno recupero della memoria storica, di un fare i conti una volta per tutte col fascismo.

La sede del MSI ad Acca Larentia nel 1978

Perché il problema era ben più radicato nelle pieghe meno visibili delle società: fin dentro i nuclei familiari, di chi aveva vissuto il Ventennio mussoliniano come l’avvento di una Italia nuova che si apriva al secolo moderno in un fulgore di armonia sorretta da ordine, legge, sicurezza, prosperità. Fu l’esatto contrario, ma il mito di quella grandezza descritta dalla verve oratoria del Duce indusse a credere che, in quel regime, in quella figura mascolina che si protendeva dai balconi con un mascellarismo pronunciato, stesse il benessere sperato da molto tempo.

La borghesia italiana ha la grande responsabilità di un collaborazionismo col fascismo che si è tradotto, nell’immediato dopoguerra, in un anticomunismo ancora più viscerale di quello riscontrabile a margine del Biennio rosso. La risposta fu l’appoggio alla DC e ai suoi alleati, lasciando al MSI il compito di essere l’elemento destabilizzante da utilizzare per rendere incerto il quadro politico e sociale ogni volta che occorresse favorire la ripresa economica dell’imprenditoria a scapito del mondo del lavoro.

Il neofascismo italiano, quindi, è il prodotto anche del nostalgismo delle squadracce nere, del grigio quasi-biennio di Salò, della originaria aspirazione rivoluzionaria dei Fasci di combattimento, ma è pure figlio di una ristrutturazione antisociale del Paese che il padronato e il finto liberalismo di certi settori della DC hanno portato avanti a lungo, impedendo una condanna del Ventennio che provenisse dall’intero arco costituzionale e che, quindi, fosse condivisa anche dall’interezza del mondo imprenditoriale.

Non c’è dubbio sull’antifascismo della classi popolari, proletarie, guidate dal PCI, dal PSI, ed anche di quello di una parte dell’intellettualità che si riconosceva nel vecchio repubblicanesimo mazziniano o nella sinistra socialdemocratica. I dubbi (se così vogliamo definirli) rimangono su quello che Gramsci avrebbe chiamato “il sovversivismo delle classi dirigenti“.

L’anticomunismo è stato percepito, da una metà abbondante della popolazione, come una ragione sufficiente per non abbracciare l’antifascismo a tutto tondo e per affidare la difesa dei propri interessi ad una rappresentanza borghese che evitava di essere accomunata con “i rossi“. Anche in questo caso, le differenze tra Germania ed Italia sono abbastanza evidenti: noi non abbiamo subito una divisione in due del Paese, se non quella tra un Nord industrialmente efficiente e un Sud arretrato.

Ed, infatti, là dove la classe lavoratrice ha potuto sviluppare le proprie potenzialità intellettive e materiali, la sua coscienza e la sua forza produttiva, il progressismo si è meglio espresso rispetto alle vaste zone depresse meridionali in cui, di contro, ha prevalso la conservazione, il clientelismo democristiano divenuto, spesso e volentieri, trampolino di lancio verso Roma degli interessi mafiosi e criminali.

Se non ci si ferma alla superficie dei fatti, ma li indaga nella loro storicità, quanto avviene ad Acca Larentia ogni anno è ben più di un semplice, e pure gravissimo, esibizionismo di una muscolarità neofascista di qualche migliaio di teste calde e vuote al tempo stesso.

La tolleranza che ieri ed oggi le istituzioni repubblicane hanno dimostrato nei confronti di questi fenomeni è l’atteggiamento politico di una mancata elaborazione socio-culturale dell’identità tanto nazionale quanto individuale dell’italiano tout court.

Il risultato è che, oggi, con il governo Meloni, governo di destra senza se e senza ma, chi ieri ostentava le simbologie fasciste sapendo di essere al di fuori del consentito e del consentibile (ed infischiandosene beatamente), può farlo avendo anche una qualche certezza di vivere in un’epoca revanchista, in cui il riscatto delle vecchie basi ideologiche rivive in quella fiamma tricolore che è arrivata a misurare quasi il 30% dei consensi elettorali validi e che, quindi, non può più essere definita “al di fuori dell’arco costituzionale“.

Quell’arco protettivo della Repubblica democratica e antifascista non esiste più. Almeno dalla fine della cosiddetta “prima repubblica“, dall’avvento del berlusconismo e di tutto quello che ha comportato nella trasformazione socio-antropologica di un Paese ridimensionato nei diritti, nella partecipazione, nel pubblico e nelle dinamiche solidali e costituzionali. Un Paese divenuto, anno dopo anno, la culla di un liberismo sud-europeo, accarezzato tanto dalla destra quanto dalla sinistra fattasi centro.

Un’Italia in cui il progressismo di oggi si lagna dei fatti di Acca Larentia, facendo quasi finta che accadano per la prima volta. Questa mancanza di autocritica impedisce di avere fiducia piena in chi anche si esprime nel nuovo antifascismo con tutta la veemenza del caso. Questa fuga dall’introspezione e dall’analisi del proprio recente passato compromissorio con le forze peggiori del liberismo moderno, è il motivo per cui una vera empatia tra politica e popolo stenta a rigenerarsi.

Non c’è più il “paese nel paese“. C’è un provincialismo delle idee che si associa ad una mancanza di visione di grande respiro e, in questa incertezza costante, le destre neo o post-fasciste possono permettersi di issare ancora più in alto le braccia al saluto romano.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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