Le istituzioni internazionali e le ONG parlano di una sistematica violazione del diritto internazionale che ha trasformato Gaza in una “zona di disastro umanitario”, o peggio in “un inferno in Terra”. Tre ipotesi di lettura del nuovo scenario globale caratterizzato da guerra e multipolarismo

Nonostante siano passati ormai più di cento giorni da quel 7 ottobre che, a prescindere da qualsiasi giudizio etico, ha di fatto riportato al centro del dibattito internazionale la “questione palestinese”, messo in pausa il processo di normalizzazione delle relazioni fra Israele e il mondo arabo e alterato gli equilibri regionali, l’esito di questa nuova fase di un conflitto le cui radici storiche sono ben più profonde di qualsiasi presentismo è tuttora fortemente incerto. Alcune conseguenze però sono già ben visibili: a Gaza l’offensiva dell’esercito israeliano (IDF) ha finora lasciato sul campo ventiquattromila morti e una devastazione senza precedenti nella Striscia, in Cisgiordania prosegue ininterrotta l’ondata di violenze e arresti mentre l’economia è quasi del tutto bloccata, Israele vive una crisi esistenziale profonda tanto interna quanto esterna, il rischio di un’escalation su altri fronti (Yemen, Libano, Iraq e, in ultima istanza, Iran) si fa sempre più concreto.

In questi tre mesi, il governo di Netanyahu ha parzialmente eroso il supporto internazionale che era stato espresso nei suoi confronti, soprattutto da parte dei paesi europei e degli Stati Uniti, all’indomani del 7 ottobre. In una guerra combattuta anche a livello mediatico, le immagini delle sofferenze inferte brutalmente sui civili Gazawi si sono dimostrate più forti di qualsiasi propaganda sul diritto di difendersi messa in campo a supporto della campagna militare dell’IDF.

Le voci tanto delle istituzioni internazionali quanto delle ONG parlano di una sistematica violazione del diritto internazionale che ha trasformato Gaza in una “zona di disastro umanitario”, per usare le parole dell’OMS, o peggio in “un inferno in Terra”, come l’ha descritta il Commissario Generale dell’UNRWA Philippe Lazzarini.

A più riprese, si sono palesate le differenti posizioni del presidente israeliano Netanyahu e di quello statunitense Biden rispetto al prosieguo delle operazioni militari – che per il primo necessitano di un tempo tuttora indefinito nonostante i ripetuti proclami di successo, mentre per il secondo andrebbero rimodulate con minore intensità per diminuire il numero di civili morti – e ai piani per il futuro della Striscia – con Israele che si oppone alla proposta americana di un coinvolgimento dell’Autorità Nazionale Palestinese. Le divergenze sul come, però, non hanno mai messo in dubbio l’appoggio americano a Israele finora, anzi Washington ha di fatto agito da scudo a livello internazionale rispetto alle critiche mosse nei confronti del massacro in corso a Gaza e ai tentativi di fermarlo. Nonostante le incessanti proteste che in tutto il mondo stanno chiedendo un immediato cessate il fuoco e il fatto che lo stesso Biden debba a sua volta far fronte a un preoccupante calo di consensi all’interno dell’elettorato democratico in vista delle elezioni presidenziali del 2024 a causa delle sue posizioni considerate eccessivamente pro-Israele, i piani bellici del governo Netanyahu non accennano a fermarsi e, di fatto, nessuna azione concreta è stata presa dai suoi alleati internazionali per fargli cambiare rotta.

Senza voler sminuire la drammatica impellenza di un intervento immediato nella Striscia per far fronte alla mancanza di cibo e di assistenza medica, va però sottolineato come l’approccio umanitario sia in larga parte al centro della posizione americana ed europea sulla guerra secondo la quale bisognerebbe fare il possibile per alleviare le sofferenze della popolazione civile ma non ci sarebbero dubbi sulla legittimità e sugli obiettivi dell’intervento militare israeliano a Gaza. Una posizione perfettamente compatibile con il massacro in corso ma eticamente confortante perché ammantata della retorica dei diritti e della compassione. Le azioni adottate dall’IDF – entrata di un numero molto limitato di camion al giorno per il trasporto di aiuti e la suddivisione di Gaza in circa seicento zone di cui alcune indicate come sicure ma che nella pratica non sono tali – si sono rivelate semplici misure di facciata volte ad accontentare le richieste internazionali mentre quello che Netanyahu stesso ha definito «l’esercito più morale del mondo» spara impunemente e costantemente a civili disarmati, giornalisti e operatori sanitari.

È con questo flebile armamentario retorico che a gennaio il segretario di stato americano Anthony Blinken, nella sua quinta missione in Medio Oriente in questi mesi, ha provato a convincere tanto Israele quanto i paesi arabi a evitare un’escalation regionale del conflitto e impegnarsi nel cosiddetto day-after, il giorno a partire dal quale Gaza tornerà alla sua vita “normale”, senza che però sia ancora chiaro in che modo la guerra possa finire.

Da inizio anno, infatti, sono diverse le operazioni militari che hanno fatto salire vertiginosamente la tensione su scala regionale.

Fin dai primi giorni del conflitto, un insieme variegato di milizie attive in diversi paesi della regione unite sotto il cartello di Asse della Resistenza e supportate dall’Iran hanno lanciato droni e razzi verso Israele e le basi americane in Siria e Iraq.

La situazione si è aggravata quando, a partire dal 19 novembre un commando di Ansar Allah, una milizia ribelle meglio conosciuta come Houthi che controlla la parte occidentale dello Yemen a seguito di una guerra civile che si protrae dal 2014, ha sequestrato la nave mercantile Galaxy Leader. Da lì il gruppo ha minacciato di colpire qualsiasi imbarcazione legata a Israele di passaggio per il Mar Rosso fino a quando non terminerà l’attacco a Gaza. Da allora si contano almeno 17 altri episodi tra lanci missilistici e dirottamenti che hanno mandato in tilt non solo la logistica marittima della zona ma il commercio globale – basti pensare al fatto che dal Canale di Suez passano ogni anno diciassettemila imbarcazioni e beni per un trilione di dollari. Un mese dopo il sequestro della Galaxy Leader, una coalizione internazionale di 10 paesi guidati dagli Stati Uniti ha lanciato l’operazione Prosperity Guardian nel tentativo di dissuadere – fin qui in maniera inefficace – i ribelli yemeniti dal paralizzare il traffico nel Mar Rosso. Di fronte al persistere della situazione di incertezza e subito dopo l’approvazione della risoluzione ONU 2722 che chiede lo stop immediato a tutti gli attacchi contro le imbarcazioni in transito per il Mar Rosso, la notte tra l’11 e il 12 gennaio Gran Bretagna e Stati Uniti hanno lanciato un’operazione militare contro gli Houthi, bombardando alcune delle zone dello Yemen controllate dai ribelli.

A ciò vanno aggiunti una serie di attacchi mirati da parte di Israele e, ancora una volta, Stati Uniti contro, rispettivamente, quadri politici di Hamas ed Hezbollah in Libano e delle Forze di Mobilitazione Popolare in Iraq. La possibilità di un intervento militare di terra in Libano da parte di Israele è sul tavolo del gabinetto di guerra, mentre il primo ministro iracheno Mohammed Shia al-Sudani ha annunciato che il suo paese si prepara a mettere fine alla presenza delle forze della coalizione internazionale.

Questi attriti diffusi sono, allo stesso tempo, causa ed effetto di una forte tensione a livello regionale fra soggetti diversi e, soprattutto, interessi contrastanti: da una parte il progetto – supportato dagli Stati Uniti – di una cooperazione sempre più stretta fra i petroldollari delle monarchie arabe e la start-up nation israeliana, dall’altra il tentativo iraniano di sottrarsi alle pressioni americane e integrarsi in circuiti globali alternativi.  

Questo intricato puzzle fatto di interessi regionali, retoriche umanitarie e strategie militari non poteva non riverberarsi anche su alcune istituzioni che finora hanno definito il perimetro e le regole dell’ordine internazionale.

Dopo che verso la fine del 2023 Antonio Guterres aveva invocato l’articolo 99 del Capitolo XV della Carta delle Nazioni Unite, secondo il quale il Segretario Generale «può portare all’attenzione del Consiglio di Sicurezza qualsiasi questione che, a suo parere, possa minacciare il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale», ci sono state ben tre votazioni che hanno avuto per oggetto l’attacco in corso a Gaza: dapprima il 9 dicembre gli Stati Uniti hanno esercitato il loro potere di veto nel Consiglio di Sicurezza nei confronti di una risoluzione che chiedeva un immediato cessate il fuoco umanitario; poi il 12 dicembre l’Assemblea Generale ha invece adottato a larghissima maggioranza la risoluzione ES-10/22 che ribadiva la richiesta di un «immediato cessate il fuoco umanitario» e il «rilascio incondizionato di tutti gli ostaggi»; infine, dopo giorni di trattative, il 22 dicembre è stata approvata una terza risoluzione, la 2720, nuovamente dal Consiglio di Sicurezza, i cui contenuti però sono stati ampiamente depotenziati, passando dalla richiesta di una «immediata interruzione delle ostilità» a quella di «misure urgenti per consentire un accesso immediato, sicuro e senza ostacoli di aiuti umanitari» e per «creare le condizioni per una cessazione sostenibile delle ostilità». Se però la prima richiesta è resa impraticabile proprio dall’offensiva israeliana che rende estremamente insicuro qualsiasi intervento umanitario, la seconda è rimandata a un non meglio precisato futuro.

Di contro, il 29 dicembre il Sudafrica ha presentato istanza alla Corte internazionale di giustizia (CIG), il principale organo giudiziario delle Nazioni Unite che si occupa di dirimere le controversie fra Stati membri delle Nazioni Unite che hanno accettato la sua giurisdizione, accusando Israele di aver commesso il crimine di genocidio a Gaza, violando la Convenzione del 1948. Il Sudafrica ha una lunga storia di solidarietà con la Palestina e spesso nell’analisi del colonialismo di insediamento si comparano il regime sudafricano di apartheid in vigore fino al 1991 con l’occupazione israeliana della Palestina. Nel 1997 l’allora presidente del Sudafrica Nelson Mandelà dichiarò: «Sappiamo troppo bene che la nostra libertà è incompleta senza la libertà dei palestinesi». L’istanza è stata accompagnata dalla richiesta di adottare misure provvisorie e d’emergenza per fermare il conflitto.

È così che le prime due udienze dell’11 e 12 gennaio si sono trasformate in una tribuna politica globale in cui si sono confrontati, da un lato, un’ex-colonia che dal 2010 fa parte dei BRICS e, dall’altro, un progetto coloniale ancora in essere la cui sopravvivenza dipende in larga parte dal supporto statunitense. I primi hanno presentato le prove raccolte per dimostrare che tanto nelle intenzioni quanto nella pratica i secondi stanno perseguendo il genocidio della popolazione di Gaza, accusa a cui Israele ha risposto, in sostanza, continuando a sostenere il suo presunto diritto di difendersi. Netanyahu ha già dichiarato che neanche una un pronunciamento della CIG fermerà i piani militari del suo governo.

Secondo Yosefa Loshitzky, Gaza non è solo un luogo fisico di estrema sofferenza ma anche una metafora che «trascende la specificità locale del cosiddetto conflitto israelo-palestinese e diventa rilevante per un’ampia matrice di lotte glocali per la giustizia». In altre parole, il destino di Gaza parla a quei popoli che lottano e hanno lottato contro il colonialismo e alle generazioni meticce delle metropoli che si ribellano alle diverse pratiche di discriminazione razziale.

Di più. Possiamo estendere questa proposta concettuale e vedere in Gaza anche la metafora del disordine globale contemporaneo. Un disordine perfettamente incarnato dalle Nazioni Unite: l’impasse rispetto alla definizione di una posizione condivisa ed efficace da parte della comunità internazionale riflette i limiti e i problemi che un’istituzione nata dopo la Seconda guerra mondiale deve affrontare oggi davanti a un mondo già di fatto multipolare in cui la distanza politica fra il cosiddetto Occidente e gli altri paesi sembra acuirsi sempre di più. 

In chiusura, vorrei abbozzare tre ipotesi – tutte da verificare.

La prima è che le spinte centrifughe oggi si esercitano e si incrementa attorno a quei conflitti dimenticati che costellano il globo (la guerra del Donbass, la resistenza palestinese contro l’occupazione israeliana, la guerra civile in Yemen – per citarne alcuni). La spinta bellica, infatti, fa il paio con l’erosione del ruolo di mediazione di quelle istituzioni internazionali che incarnano un diverso ordine e che, allo stesso tempo, sono diventate uno spazio conteso da nuovi protagonisti della scena globale.

Spesso si parla della crisi dell’egemonia statunitense. Crisi, ovviamente, non vuol dire collasso. Gli Stati Uniti sono ancora la prima potenza economica e militare globale. Quello che è venuto meno – si dice – è il consenso rispetto alla loro visione di mondo. Questa narrazione, però, dà per buona l’idea che in passato ci fosse sempre una larga condivisione delle politiche di Washington. Una prospettiva diversa, invece, potrebbe insistere non tanto su cosa gli americani non riescano più a fare ma su quanto invece oggi possono gli “altri”. Detto diversamente, la seconda ipotesi è che il disordine globale contemporaneo sia anche il prodotto di una crescita economica di alcuni paesi, non più in una posizione di dipendenza dal cosiddetto Occidente all’interno delle catene del valore, che si riflette anche sul piano politico. Una prospettiva del genere aiuterebbe a capire meglio il potere costituente esercitato da questi paesi nella definizione di nuovi assetti locali e internazionali.

Infine, rispetto a una dinamica di blocchi spesso evocata facendo riferimento alla Guerra fredda, oggi siamo di fronte ad alleanze a geometrie variabili, dettate dalla complessa relazione fra obiettivi generali e contesti locali. Un paese come la Turchia, per fare un esempio, allo stesso tempo è membro della NATO, si pone come mediatore fra Ucraina e Russia, si schiera a sostegno della Palestina contro Israele, attacca impunemente l’Amministrazione Autonoma della Siria del Nord-Est.

Per questo motivo qualsiasi forma di campismo basata sulla distinzione fra blocchi geopolitici o, peggio, sulla distinzione fra potenze imperialiste e paesi resistenti è del tutto inadeguata a cogliere la complessità delle forze in campo. Pensare il multipolarismo oggi vuol dire pensare in maniera completamente diversa rispetto al passato e questo ha delle conseguenze importanti anche su quello che veniva chiamato il «movimento reale che abolisce lo stato di cose presente». Partire dalla pretesa di identificare i “nostri” in maniera univoca e definitiva può portare a frustrazione, se non a pericolosi abbagli. Piuttosto, anche alla luce della assenza di proposte emancipative complessive, occorre andare alla ricerca delle crepe – specifiche e contestualizzate – all’interno delle quali quel “movimento” si possa insinuare. 

Immagine di copertina da Flickr Gaza Crisis 2014 UN Photo Shareef-Sarhan

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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