Marco Sferini

La morte come pena estrema data dal diritto di uno Stato, comminata da un potere costituito contro chi ha commesso efferati delitti o, molto meno cruentemente, è accusato di essere un oppositore politico, di non seguire i precetti religiosi adottati da un governo e da una società che non ammettono niente altro se non i fondamenti etici cui si ispirano e che diventano quindi totalizzanti, quella pena è l’iconico emblema del fallimento della giustizia.

Non serve qui richiamare Cesare Beccaria per poterlo capire.

E’ sufficiente scorrere le cronache di ciò che avviene in paesi in cui la morte è anche una pena, è anche un passaggio attraverso cui espiare quella che viene descritta come una colpa: di non aver indossato un velo nel modo corretto; di aver avuto rapporti omosessuali; di non essere sufficientemente convinto della bontà dei precetti tanto spirituali quanto materiali che costringono a cambiare i propri pensieri, le proprie valutazioni, il proprio stile di vita.

La sofferenza e la morte come viatici della purificazione tanto dell’individuo considerato colpevole di questi delitti, quanto come atto catartico che l’intera società assume di sé per sentirsi sempre monda, netta, pulita agli occhi tanto del potere quanto della divinità, si contornano dell’aura quasi sacra della conseguenza necessaria, da cui nessuno che devii dal cammino prestabilito può sfuggire, di azioni che offendono le leggi, la morale, la tradizione, la cultura, l’identità e, non di meno, il credo di un intero paese.

O quasi. Perché in nessuna nazione si può ritrovare un cento per cento di fedeli tanto ai governi che si avvicendano entro il perimetro delle costituzioni di Stati teocratici o autoritari, oligarchici o fintamente democratici.

Il dissenso viene trattato al pari di come il potere si rapporta nei confronti del crimine comune: dissidenti politici, intellettuali e spiriti liberi ed autonomi, capaci di una critica consapevole nei confronti del potere, spesso vengono messi sullo stesso piano di efferati assassini o altrettanto criminali stragisti.

Quando la violenza diviene la naturale espressione del potere repressivo dello Stato che, per essere tale, ha connaturata in sé la funzione del controllo civile e sociale, si passa dalla gestione dell’ordine pubblico alla gestione dell’ordine sul pubblico, sulla gente che esprime un dissenso, che manifesta le proprie opinioni e che rivendica tutta una serie di diritti che, altrimenti, non sarebbero mai presi in considerazione da chi ha interesse a mantenere uno status quo.

La violenza e la morte, pertanto, sono l’ultima ratio di un potere che non ha altro mezzo di persuasione se non quello della paura per imporsi e per imporre ciò che deve essere preservato, a scapito di un equilibrio, che invece nelle democrazie dovrebbe realizzarsi secondo i dettami del moderno liberalismo, tra maggioranza e minoranza, tra diritti di tutti e diritti di ognuno, tra delegati e deleganti, tra sovranità popolare e istituzioni che la rappresentano di volta in volta.

La pena di morte torna e ritorna nel dibattito plurisecolare di un Occidente in cui la trattazione oscilla tra esclusione dei criminali dalla vita non solo pubblica, ma dall’esistenza in quanto tale, e la superiorità morale dello Stato in quanto espressione di una giustizia che non deve trascendere e decadere sul piano inclinato della vendetta. Tanto inutile, quanto brutale.

E la polemica, assolutamente necessaria, si riconfigura ogni volta nuova e vecchia al tempo stesso: perché le ragioni a favore e quelle contrarie alla pena capitale riguardano l’essere umano e il potere, il cittadino e lo Stato. Il fatto che se ne tratti sapendo già di cosa si parlerà, non esclude una fisionomia sempre nuova delle questioni che sono in campo. Perché, caso per caso, possono venire a galla nuovi presupposti tanto contro quanto a favore della condanna a morte.

Non c’è dubbio che, se per quanto riguarda le dittature teocratiche come l’Iran se ne possa discutere sotto molteplici ambiti della vita di ognuno e di tutti, dai propri convincimenti laici o religiosi al dissenso politico, dai propri rapporti familiari al proprio diritto di amare chi si vuole senza doverne rendere conto agli ayatollah o al presidente di turno, guardando ad altri paesi la vertenza si sposterà di più su questioni che riguardano la delinquenza comune.

Tuttavia, il nucleo portante della questione è sempre la morte come monito supremo davanti ai popoli del potere dello Stato. In tempo di guerra, tribunali assortiti alla meglio, hanno giudicato e giudicano secondo la legge marziale: chi diserta, si ribella, critica i propri comandanti o è accusato di complicità col nemico viene passato per le armi senza troppe remore di carattere morale.

In tempo di pace, invece, e soprattutto là dove la Storia ci ha abituato a considerare fondati i princìpi della democrazia moderna, dall’Illuminismo alla Rivoluzione francese, dalle rivoluzioni europee e americane degli ultimi quattro secoli, i si aspetterebbe un salto di qualità civile, morale e culturale e, quindi, un definitivo superamento della pena di morte. Ma non è per niente così. La minaccia del troncamento dell’esistenza rimane lo spettro più grande da far giganteggiare nel diritto positivo.

Lo spazio che viene dato alla questione della conseguente deterrenza, derivata dalla consapevolezza della presenza nella legislazione della pena capitale, è sempre molto e, il più delle volte, serve ad una propaganda che, nei fatti, rimane appunto tale, perché, sostanzialmente, la criminalità non diminuisce, i delitti non finiscono.

Pur sapendo che, se si uccide, si può essere uccisi. Studi ormai secolari hanno dimostrato che il reo pensa sempre di farla franca: un po’ perché si crede più scaltro di chi dovrebbe incastrarlo. Un po’ perché, quasi supportato da un pensiero magico, si affida alla sorte.

Il mantra del “sarà un altro e non io” a finire tra le grinfie della giustizia, è una specie di rito che unisce scaramanzia e autoassoluzione per quanto si sta per fare o si è già fatto. Se la pena di morte non arriva nemmeno lontanamente ad estinguere la propensione al reato, perché ci si ostina a mantenerla?

La domanda potrebbe sembrare simile ad un quesito da porre all’oracolo di Delfi, per averne una risposta altrettanto enigmatica e di difficile soluzione. Invece ha un senso compiuto perché dall’incongruità tra principio e sua applicazione viene fuori la ragione vera del perché la violenza e la morte rimangono nelle norme del diritto e nelle pratiche dei regimi. La violenza non solo è, di per sé, un tentativo di persuadere dal commettere dei delitti o dal ribellarsi ad un potere. E’, anzitutto, uno strumento di controllo sociale.

E, proprio per questo, è connaturata al sistema capitalistico, al dominio di una classe sull’altra e, quindi, al mantenimento del potere da parte di un determinato settore della società sul resto della popolazione, al fine di conservare dei privilegi che mantengano alto il prestigio tanto morale quanto materiale proprio e dei propri simili. Questo può avvenire tanto nel caso di una casta religiosa, come quella degli ayatollah, quanto nel caso di un confronto tra popolazioni diverse tra loro costrette a vivere nello stesso territorio da ragioni storiche pressoché ataviche.

L’esempio più facile che viene alla mente è quello dell”apartheid, della convivenza, ad esempio, tra bianchi e neri nel Sudafrica otto-novecentesco e, oggi, nel nuovo regime segregazionista praticato da Israele nei confronti del popolo palestinese.

Violenza, repressione e morte sono all’ordine del giorno lì dove c’è una idea di superiorità che viene fatta risalire alla notte dei tempi, quando si racconta che Dio scelse il popolo ebraico come suo popolo, quindi come “eletto” rispetto a tutti gli altri.

In qualunque modo si provi a trattare il tema della violenza di Stato, vi si scorgerà alla fine un intento non proteso all’affermazione della giustizia, ma solamente la volontà di affermazione di sé stesso sopra ogni altro principio, in contraddizione non tanto con il socialismo che propugna il governo degli oppressi contro quello degli sfruttatori, ma con quel liberalismo che, nell’ammettere il controbilanciamento dei poteri e la loro equipollenza, e nel considerare necessario il rispetto del diritto delle minoranze ad essere tali e non sopraffatte dalle maggioranze, si ferma un attimo prima di prendere in considerazione l’esigenza della giustizia sociale.

Tutte queste considerazioni, lasciate ad altrettante considerazioni di chi benevolmente legge, sono state indotte dalla risonanza mediatica dovuta al caso di Kenneth Smith. Nel 1988, pressoché ventenne, Smith si fece assoldare da un pastore della Chiesa di Cristo nella contea di Colbert in Alabama. Il religioso cercava un modo per sbarazzarsi della moglie e appropriarsi della sua eredità. Così ingaggiò due o tre balordi del posto, tra cui il giovane Kenneth.

Il risultato fu l’assassinio della donna, accoltellata più e più volte, il suicidio una settimana dopo del pastore vedovo e l’incriminazione di tre presunti colpevoli. Nessun dubbio sul fatto che fossero stati loro ad ammazzare la quarantacinquenne sfortunata moglie del reverendo. Qualche dubbio invece rimase alla giuria sul fatto che Smith fosse stato l’esecutore del delitto e non, invece, come dichiarato una specie di “osservatore“.

Morte su morte, uno dei tre condannati finì i suoi giorni in carcere all’ergastolo, preda di una malattia che non gli lasciò scampo; un altro venne ucciso con una iniezione letale e questa stessa sorte sarebbe dovuta toccare a Kenneth Smith un anno fa, dopo trenta e più anni di carcere nel braccio della morte in un penitenziario dell’Alabama. Uno degli Stati che detiene il primato nel rapporto tra abitanti e condannati alla pena capitale. La difficoltà nel trovare la vena adatta all’iniezione letale fu il motivo del rinvio dell’esecuzione.

Per evitare di incappare in nuovi inconvenienti, lo Stato dell’Alabama ha pensato bene di ucciderlo con un metodo previsto dalla legge ma mai sperimentato prima né negli USA né in altra parte del mondo: l’asfissia mediante l’inalazione di azoto.

Praticata in alcuni ambiti veterinari per la soppressione di cani e gatti e, per gli effetti riscontrati, considerata più una tortura di una eutanasia, l’ipossia per Smith è giunta al suo fatale epilogo dopo ventidue minuti di agonia. Per lui si erano mobilitati Amnesty International, associazioni religiose, comitati locali e nazionali, oltre ovviamente ai suoi legali.

Anche l’ultimo ricorso alla Corte Suprema non ha avuto alcun effetto, nonostante i giudici liberal abbiano votato per la sospensione dell’esecuzione. Proprio per questo il dibattito sulla crudeltà della pena di morte si è riaperto improvvisamente. Ed è l’unico elemento positivo che in tutte queste tragedie è possibile rintracciare, adoperandolo come leva per dimostrare sempre la violenza psicologica e fisica che precede la fine della vita decretata dallo Stato.

Che è pronto a comminarla quando pensa di essere dispensatore di giustizia; che è pronto a negarla se si parla di cessazione della sofferenza a causa di malattie che non danno nessuno scampo, ci degradano e ci tolgono ogni dignità di individui coscienti e pensanti.

E’ violenza anche questa. Quella che non è materialmente tale, ma che lo diviene nell’attimo in cui impedisce l’esercizio assolutamente consapevole della propria volontà riguarda il proprio corpo, la vita che diviene sempre meno somigliante a sé stessa, sempre più simile ad una sopravvivenza indotta dalle circostanze obbligatorie della morale dominante che viene tradotta in un diritto che nega i diritti.

Il punto qui è correlare la pena di morte con la violenza. Senza soluzione di continuità, senza pensarle distinte. Uccidere nel nome della legge e del diritto è fare uso della violenza. E’ fare dello Stato un esempio della stessa e, quindi, un assassino del tutto particolare e speciale. Un vendicatore non mascherato, ma tuttavia nascosto dietro i crismi dell’approvazione popolare, supportato dal sostegno di chi prima di tutto cerca la vendetta sul piano meramente psicologico e si inebria della sofferenza altrui, cinicamente.

Ciò vale, si intende, per tutti quelli che inneggiano alla pena di morte per gli altri e la scongiurerebbero per sé stessi in preda all’elencazione di mille giustificazioni di gesti uguali a quelli degli assassini che vorrebbero sulla sedia elettrica, con un cappio al collo, fucilati, gasati o con un ago nel braccio…

Il cortocircuito della violenza è davvero inarrestabile e va dalle prime righe delle cronache nere fino all’ultimo secondo scandito dall’orologio appeso nella stanza delle esecuzioni. Così come va dalle farneticazioni dei leader politici e religiosi che condannano i loro oppositori o dei giovani che hanno avuto l’unica colpa di amarsi e desiderarsi. Quei giovani, ieri e oggi, finiscono la loro esistenza impiccati e lasciati penzolare dall’alto di grandi gru, come monito per chiunque non rispetti le leggi di un dio qualunque.

Non importa quale, ce ne sarà sempre uno per giustificare le atrocità commesse ai fini di rimanere al potere e mantenere le masse nell’ignoranza e nella paura. Violenza e morte servono a questo. Soltanto a questo.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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