Adesso, dopo aver visto in televisione le immagini che ritraggono Ilaria Salis incatenata mani e piedi in tribunale a Budapest, sappiamo che la descrizione che la trentanovenne insegnante anarchica aveva fatto delle condizioni della sua carcerazione non erano esagerate ma esattamente fedeli a quello che è il trattamento inumano dei detenuti in un paese dell’Unione Europea.

Ogni tanto ci illudiamo che il carcere possa essere “umano” e che, quindi, sia in una qualche misura accostabile ad una diversa forma di esistenza, ad un modo di concepire l’espiazione della pena secondo canoni che non si discostano poi così tanto dalla concezione liberale del diritto, dal ruolo dello Stato come padre tutto sommato benevolo verso i suoi figlioli che sbagliano.

In punta di principio, pur entro un contesto di considerazione della rieducazione del reo, ad un suo reinserimento nel contesto sociale a cui in qualche modo ha nuociuto o tolto qualcosa (o qualcuno), la carcerazione è e rimane un atto repressivo di un potere che decide, di volta in volta, secondo i cardini della Legge (con la elle rigorosamente maiuscola), come occuparsi di chi viola le norme.

Una repressione che, il più delle volte, è tale solamente per quei deboli strati sociali in cui il disagio cresce e la ribellione si trasforma da giusta rivendicazione sociale e soddisfazione meramente individuale. A subire le peggiori angherie tra le sbarre sono spesso, e non certamente volentieri, i detenuti che provengono da situazioni di fragilità tanto del contesto in cui sono vissuti, quanto di una interiorità fatta di tormenti e di disperazione.

Non è il caso di Ilaria Salis, ma non c’è nessun dubbio che sia, invece, il caso che rientra in un altro tipo di repressione: quella politica. Quella del potere che vuole dare l’esempio a chi critica, protesta, manifesta e si oppone alla narrazione dominante di un sovraordinamento che tollera i concetti e le pratiche violente dei neonazisti moderni e, contrariamente a quanto affermano i valori fondati dell’Unione Europea, mette dietro le sbarre coloro che inneggiano alla libertà, all’uguaglianza, alla giustizia sociale.

Ilaria Salis è accusata, insieme a Gabriele Marchesi, di aver preso parte ad un atto di aggressione contro alcuni neonazisti presenti in piazza a Budapest l’11 febbraio 2023, giorno in cui da tutta Europa convergono nella capitale magiara coloro che inneggiano alle SS e al Terzo Reich, alle Croci frecciate e a tutti quei militari che nel corso della Seconda guerra mondiale combatterono contro la liberazione dell’Ungheria da parte dell’Armata Rossa.

Ilaria avrebbe, col suo comportamento violento, causato ferite a due persone guaribili in sei, otto giorni al massimo. L’accusa, nella prima formulazione dell’imputazione, aveva chiesto addirittura oltre vent’anni di carcere, ipotizzando il “tentato omicidio”. L’ipotesi è poi stata scartata e, se così si può dire senza scadere in una anche involontaria minimizzazione, si è ridotta di tredici anni, proponendo alla maestra milanese un patteggiamento ad undici anni di carcere.

Dichiarandosi innocenti, Ilaria e Gabriele hanno respinto al mittente il tutto e oggi, una ai ceppi e alle catene in una condizione carceria davvero impietosa e disumana, l’altro in Italia sotto minaccia di estradizione presso le autorità magiare, e proseguono la loro lotta che, da antifascista, viene così ad essere una espressione di protesta rivolta all’Europa e al mondo sullo stato della democrazia e del trattamento dei detenuti in uno dei Ventisette, nel cuore del Vecchio continente.

A noi oggi fa impressione vedere un accusato legato piedi e mani con lucchetti, catene, guinzagli che passano dentro i collari e le cinture di pelle nera, perché da tempo siamo abituati ad un trattamento che considera la pericolosità del reo con parametri molto differenti rispetto alla minaccia subitanea, all’umiliazione che gli si voleva infliggere davanti ad una giustizia che avvantaggiava in questo modo l’accusa.

Se di presunzione di innocenza si deve parlare nel diritto moderno occidentale, questa deve riguardare tanto la forma quanto la sostanza del trattamento nei confronti dell’accusato. Incatenare in quel modo Ilaria vuol dire esporla, al pari di tanti altri detenuti che rimangono invisibili nella “normalità” delle prescrizioni carcerarie di Budapest, ad una sentenza della pubblica opinione che deve considerarla colpevole a prescindere.

Se si lascia libero un imputato di muoversi, di poter disporre delle proprie funzioni fisiche in tutto e per tutto, se quindi non si mette nessun vincolo alle sue mani, ai suoi piedi, se non lo si lega in alcun modo, gli si permette non di essere maggiormente pericoloso, ma di avere la stessa dignità che hanno tutti coloro che sono sottoposto ad un giudizio ma che non devono essere preventivamente giudicati dal tribunale della gogna.

Una gogna mediatica e, quindi, volutamente popolare. Una accusa che si sostanzia prima ancora di essere suffragata da prove e da riscontri. Qui il diritto finisce di essere quello che dovrebbe, ossia una preservazione garantista a tutto tondo, ed inizia invece la giustizia sommaria o, per meglio dire, sommariamente amministrata entro un apparente, formale legalità rispettata con la presenza delle parti (accusa e difesa), con la corte e con il ruolo complessivo che il sistema esercita.

Se si parla di composizione della corte di giustizia, del tribunale in sé e per sé, noi qui in Italia ci aspetteremmo di vedere giudicata Ilaria da una serie di giudici togati e popolari. In Ungheria, in questo caso, ci troviamo davanti ad un solo giudice, monocratico che, addirittura, può riservarsi di revisionare il processo aggiungendo nuovi capi di accusa in base ad elementi coadiuvanti l’impianto presuntamente probatorio fino a quel momento portato all’esame della corte.

La situazione del diritto ungherese parla all’Unione Europea di un grande problema che non solo i magiari hanno nel rapporto tra politica e giustizia, tra politica e legge, tra potere esecutivo e potere giudiziario. Ma parla alle istituzioni di Bruxelles e Strasburgo, e non di meno ai singoli governi dei Ventisette, della sottovalutazione più complessiva della questione carceraria. Solamente perché ci accorgiamo oggi delle contraddizioni illiberali insite nel sistema ungherese, non è detto che nei nostri Stati moderni si sopravviva meglio all’interno delle case circondariali.

Il sovraffollamento nei penitenziari è una piaga che viene denunciata, fintamente ascoltata dalle istituzioni, e che di anno in anno peggiora: i detenuti in Italia sono circa sessantamila. La capienza delle “patrie galere” è di cinquantamila posti. Oltre diecimila persone costituiscono quindi un sovrappiù che, solamente nel 2023, ha visto un aumento di duemila detenuti. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha già sanzionato l’Italia per queste carenze, per metodi di detenzione inumani, per i troppi casi di suicidio che si verificano tra le sbarre.

Far vivere i carcerati in meno di tre metri quadrati calpestabili, in strutture costruite, se va bene, dopo il 1950, se va peggio addirittura all’inizio del Novecento, dove in più della metà degli istituti non è garantita l’acqua calda, dove non esistono servizi igienici e docce, dove gli spazi per il lavoro sono sempre meno e le ore d’aria pure, crea le condizioni perfette per l’induzione al suicidio, per l’esasperazione degli animi, per un ritmico prodursi di violenza che sarebbe evitabile se solo si investisse nell’ammodernamento delle strutture esistenti e, soprattutto, nelle pene alternative al carcere per i reati minori.

Qui si intersecano una serie di tematiche che riguardano problemi di natura sociale, ovviamente politica e, inevitabilmente morale ed etica. L’enormità della questione della detenzione comprende quella della pena che, a sua volta, riguarda l’interità dell’individuo come soggetto e oggetto del diritto, a volte spettatore e altre volte protagonista dei processi di amministrazione della giustizia.

Non è facile sbrogliare la matassa di pregiudizi e di preconcetti che accompagna il forcaiolismo a buon mercato di una larga fetta della popolazione: c’è chi per ogni cosa invoca forconi, carcere, giustizia sommaria e, nel peggiore dei casi, la morte di Stato. C’è chi, più prudentemente, asserisce di aderire ad una moderna linea garantista, salvo poi sostenere forze politiche che sono storicamente avverse a prendere in considerazione la piena concessione della legittimità del dubbio.

E poi c’è chi, pur consapevole del fatto che nel sistema capitalistico il carcere assolva alla sua funzione classista (di repressione del dissenso, come nel caso di Ilaria Salis oggi, di Sacco e Vanzetti ieri, di Silvia Baraldini l’altro ieri…), si batte per un ridimensionamento di questo ruolo quasi strutturale, considerando la possibilità di costituzionalizzare il principio di tutela della dignità umana come elemento portante di quella del cittadino. E viceversa.

Questo lo si può fare soltanto se si osservano i dati e si contemplano le tante relazioni che sono state compilate nel corso dei decenni dagli esperti del settore. Il carcere, in sè e per sè non è, al pari delle leggi speciali o dell’aumento delle pene, un deterrente nei confronti della criminalità. Chi entra in contrasto con la legge lo fa non solo ritenendo di poterla fare franca per svariati motivi (eccessiva autostima nello sfuggire alle maglie investigative, amicizie potenti e spalle coperte, ecc…), ma perché non ha alternative.

La microcriminalità è un ufficio di collocamento per tutti coloro a cui questa società non offre la possibilità di uscire dai drammi in cui interi nuclei familiari sono precipitati. Il disagio sociale di Caivano e dei tanti borghi periferici di questa nostra Italia che consideriamo moderna, energica, sovranisticamente in grado di declamarsi tra i grandi della Terra, è – o dovrebbe essere – sotto gli occhi di tutti. La produzione di questo degrado non è frutto di un capriccio egoistico questo o quel soggetto criminale.

E’ un ghetto in cui crescono le asperità, in cui si diffondo le inculture, in cui prevale la legge della forza al di là di quella della ragione e del diritto. Diverso è il discorso per casi come quelli di Ilaria Salis. Casi anche italiani in cui le detenzioni per ragioni politiche si contano a decine e in cui il trattamento riservato ai ragazzi o alle ragazze rinchiusi per aver partecipato a manifestazioni di protesta che sollevano dubbi sulla legittimità di azioni di governo che negano i diritti umani, civili e sociali.

Va in questa direzione la politica di repressione e di aumento delle pene che il governo Meloni ha varato nei confronti dei quelli che sono stati chiamati neologisticamente “eco-vandali“, creando una discrasia concettuale nell’antitesi tra ecologia e vandalismo. Se si punisce con anni di carcere chi sparge della vernice lavabile sui monumenti o chi fa un sit in di protesta provocando un fastidiosissimo blocco stradale, si rischia di arrivare ben presto ad una reprimenda ancora maggiore sul diritto di sciopero (peraltro già sotto attacco…).

Reato, detenzione, giudizio e pena possono essere singolarmente modificati fino a ricreare quelle condizioni di invivibilità del diritto nel momento in cui ci si mette di traverso rispetto tanto alle regole del vivere civile quanto a quelle che tentano di impedire la manifestazione delle libertà costituzionali, degli ambiti di esercizio delle proprie azioni di legittima protesta e di proposta.

Ciò che da un anno sta vivendo Ilaria Salis deve, al pari di tanta giurisprudenza in merito ereditata dal recente passato, vederci impegnati in una rivendicazione di pari diritti per tutti dentro a quell’Europa che non può essere solo libera circolazione delle monete, dei capitali e delle merci. Ma, prima di ogni altra cosa, deve essere il terreno comune di una condivisione di libertà che si richiamino alle più grandi rivoluzioni culturali, civili e sociali dal ‘600 fino ad oggi.

E tutto questo lo si può concretizzare impedendo alle destre di ottenere, progressivamente, un mutamento di indirizzo nell’egemonia in senso gramsciano della società. A partire dalla formazione di una coscienza critica diffusa che si permei anzitutto della rivendicazione dei bisogni elementari per gli strati più deboli e disagiati di ogni nazione costituente l’Europa del nuovo millennio.

Diceva un grande presidente: non può esservi vera libertà senza giustizia sociale. Aggiungiamo: non può esservi giustizia nelle aule dei tribunali e detenzione umana nelle carceri senza un alto grado di coscienza civile e morale in un paese che sia, quindi, l’argine alle prepotenze del potere, ai tentativi di ridurre a mero formalismo la concretezza della sovranità collettiva, del controllo popolare sull’azione di governo.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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