Qualche giorno fa il giornalista americano Tucker Carlson ha intervistato il presidente russo Vladimir Putin. Il fatto, di per sè, non costituisce nulla di eccezionale, o almeno non dovrebbe. La stessa intervista non è niente di eccezionale. Non si tratta di uno di quei grandi esempi di giornalismo, di quelle interviste che rimarranno nella storia per l’intensità dei contenuti. Eppure, in appena tre giorni, il video, pubblicato su X, ha realizzato 200 milioni di visualizzazioni. Un dato fenomenale, se si pensa che si tratta di un’intervista rilasciata da un leader non occidentale e non trasmessa da nessun mezzo di informazione tradizionale (noi de L’Indipendente siamo stati il primo e unico giornale a fornirne una traduzione integrale, non limitandoci, come hanno fatto il resto dei mezzi di informazione, a trascriverne alcuni stralci decontestualizzati). Un dato simile racconta molte cose sullo stato del giornalismo in Occidente. In primo luogo, è la chiara espressione del bisogno diffuso di sentire voci che si discostino dalla narrazione mainstream, la quale autorizza una sola versione dei fatti e silenzia sistematicamente chiunque sostenga posizioni differenti. È anche un’ulteriore dimostrazione che il giornalismo non deve per forza muoversi all’interno dei media convenzionali e dominanti e che trova continuamente nuovi spazi nei quali esprimersi e diffondersi.

Di per sè, come accennato, l’intervista non è nulla di che. Carlson non ha incalzato Putin con domande particolarmente scomode e ha sorvolato quando il suo interlocutore ha dato risposte quantomeno controverse (come quando Putin ha dichiarato, senza mezzi termini, che fu la Polonia a provocare Hitler e spingerlo a dare il via alla Seconda Guerra Mondiale). Di fatto, intervistare anche l’altra parte, sentire la versione anche dell’altro costituisce la base della corretta informazione. Dovrebbe essere la prassi della professione, un principio talmente evidente da risultare lapalissiano. Eppure, la storia recente dell’informazione occidentale dimostra che non è così. Negli ultimi anni si è assistito sempre più ad un appiattimento acritico su una sola versione dei fatti, ovvero quella di volta in volta favorevole al potere politico dominante. Lo abbiamo visto in particolare con la narrazione in merito all’invasione dell’Ucraina e stiamo continuando ad assistervi con l’aggressione militare di Israele in Palestina. I giornali riportano pressochè tutti un’unica versione dei fatti, censurando sistematicamente chi prova a fornire un punto di vista differente (ricordiamo, tanto per fare un esempio, le liste di proscrizione del Corriere della Sera) e costringendo sempre più l’informazione entro i contorni della propaganda politica.

Uno dei casi più eclatanti di censura, in questo senso, aveva avuto come protagonista l’intervista di Monica Maggioni al presidente siriano Bashar al-Assad, mai mandata in onda dalla Rai (se non su Rai Play, a diversi giorni di distanza). Il motivo: “non è stata effettuata su commissione di alcuna testata Rai”. Tradotto: Maggioni non era stata formalmente autorizzata a parlare con quella persona. La testata perde così di vista lo scopo che dovrebbe assolvere e si fa azienda che determina chi deve dire cosa e in che modo, soffocando ogni principio fondante della professione giornalistica. Quella vicenda – che, va sottolineato, riguardava una giornalista che stava facendo il proprio mestiere – sollevò un mare di polemiche, tra deputati (leghisti) che annunciavano interrogazioni in Vigilanza Rai ed altri (pentastellati) che invitavano la giornalista a «spiegare il suo operato», compiuto con «leggerezza». Episodi del genere sottolineano, se mai vi fosse ancora qualche dubbio, quale enorme potere derivi dal controllo dell’informazione. E quanto sia complicato produrre un’informazione veramente libera nel panorama attuale.

Il rumore suscitato dall’intervista di Carlson ci dà un’idea, dunque, di quanto sia sempre più forte il bisogno del pubblico di scostarsi da questa modalità di produrre informazione, di sentire una voce che racconti una versione dei fatti diversa. Una voce che non sia una delle solite, autorizzate dal sistema dominante. E non necessariamente per aderirvi o empatizzarvi, ma solo per conoscerla. In questo senso, i mezzi di informazione nuovi e quelli non convenzionali, come i social media, detengono un potenziale che quelli tradizionali non possono in nessun modo arginare. Lo stesso Carlson è un giornalista che è stato espulso dal sistema mainstream – fu licenziato nell’aprile 2023 dall’emittente americana Fox News, della quale era stato il volto per diversi anni – e che proprio per questo motivo ha potuto realizzare un’intervista di questo tipo (suscitando lo sdegno di giornali come Repubblica, che ha parlato di un metodo “che uccide il giornalismo”). Un servizio del genere (lo dimostra la reazione generale della stampa) difficilmente sarebbe potuto andare in onda se a realizzarlo fosse stato un giornalista sotto contratto con una qualsiasi delle principali emittenti.

L’informazione si muove ormai su canali nuovi e alternativi. Si tratta di un cambiamento rapido e radicale, al quale abbiamo assistito per la prima volta con estrema chiarezza con la guerra in Palestina (abbiamo dedicato un intero Monthly Report al riguardo, il numero 28, pubblicato a novembre del 2023). La narrazione di chi ha cercato per settimane di oscurare il genocidio della popolazione palestinese è andata in frantumi di fronte alla quantità di immagini provenienti dalla Striscia di Gaza, che narrano il massacro in corso quotidianamente. E il resoconto giornalistico di quanto avviene quotidianamente sul campo viene fatto da giovani che non hanno mezzi a disposizione se non il proprio telefono e che non dipendono da alcun giornale, ma hanno trasformato i propri profili social in canali di informazione, fondamentali per conoscere davvero la realtà di quanto sta accadendo. La retorica nulla può contro i numeri. E i numeri impressionanti registrati dall’intervista di Carlson dimostrano che del giornalismo, quello vero, c’è ancora bisogno.

[di Valeria Casolaro]

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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