Scambismi parlamentari
Pochi giorni fa il Partito Democratico ha votato insieme alle destre di governo a favore dell’ennesimo pacchetto di invio di armi all’Ucraina. Ieri, invece, ha cercato un dialogo con Giorgia Meloni per arrivare ad una sintesi condivisa, tra posizioni oggettivamente molto distanti, su un testo a favore del cessate il fuoco nella Striscia di Gaza che, infatti, è passato con l’astensione dei parlamentari meloniani, leghisti e forzitalioti.

Le altre mozioni, dei Cinquestelle e di Alleanza Verdi – Sinistra, marcavano, oltre alla richiesta della fine delle ostilità con urgenza, anche una serie di impegni da parte del governo sul fronte diplomatico, sul riconoscimento dello Stato di Palestina e sulla richiesta di stigmatizzare l’accordo tra la UE ed Israele sul piano economico e interrompere le attività dell’ENI davanti alla costa di Gaza, nei giacimenti sottomarini, come reazione alle tante vessazioni che Tel Aviv impone alla popolazione palestinese.

Né la maggioranza di governo, né il PD hanno inteso poi accogliere quei punti proposti dai Cinquestelle e da AVS sul rimarcare ulteriormente le ragioni del ricorso presentato dal Sudafrica contro Israele per intenti genocidiari da parte del governo di Netanyahu. Caso mai servissero ulteriori prove, l’accanimento ordinato a Tsahal contro la popolazione compressa a Rafah, contro il confine egiziano chiuso, da cui non entra ed esce nulla (tanto meno gli aiuti umanitari) ci parla ogni giorno del dramma di quasi due milioni di persone.

Senza cure, senza acqua, senza cibo, accampate in luoghi dove da un momento all’altro può piombare un drone, bombardare e fare centinaia di morti civili. Se non è questo un intento genocidiario, cosa altro può esserlo? Persino Antonio Tajani ha definito in Parlamento, certo molto moderatamente, “sproporzionata” la reazione di Israele. Ci sono voluti quasi trentamila morti palestinesi e oltre dodicimila bambini ammazzati dai soldati di Netanyahu e Gantz per far dire ad un esponente del governo italiano che, forse, lo Stato ebraico ha ecceduto…

Ma le destre non si smentiscono mai: mentre nelle Camere cercano un abboccamento col PD, per stabilizzare il fronte interno almeno sulla questione mediorientale di Gaza, quando la critica più aperta e manifesta si affaccia nelle case di decine di milioni di persone tramite le dichiarazioni di alcuni cantanti di Sanremo, ecco pronta la censura con la velina abbozzata in fretta e furia e consegnata a Mara Venier affinché si sbrogliasse lei quella patata bollente.

Da quando, poi, è l’amministratore delegato della RAI a stabilire ciò che si può e ciò che non si può dire in televisione? La tv di Stato dovrebbe, in quanto tale, rispondere solamente ai princìpi costituzionali e quindi essere a disposizione di tutte le opinioni, anche di quelle più sgradite. L’accondiscendenza, purtroppo, è la quintessenza gestionale di chi viene messo lì e garantito dal potere esecutivo nell’esercizio delle sue funzioni, a patto che la linea editoriale non si discosti troppo da quella del governo in carica.

E’ valso un po’ per tutti i governi, con accenti differenti quando la lottizzazione delle reti era fatta alla luce del sole: RAI 1 alla DC, RAI 2 al PSI, RAI 3 al PCI. Ciò nonostante, nella RAI della cosiddetta “prima repubblica“, tutti avevano diritto quanto meno di tribuna, perché vigeva qualcosa di molto più importante della formuletta parcondicionaria inventata appena dopo il crollo del pentapartitismo. Si trattava dell’uguale spazio per tutti, davvero per tutti, almeno nelle trasmissioni e nei dibattiti ufficiali.

Oggi, a ridosso di ogni votazione, i confronti si fanno con le tre, quattro, cinque forze più grandi e per gli altri l’oblio. Pur non trattandosi di programmi politici da campagna elettorale, questo avviene pure per le idee che vengono considerate troppo radicaleggianti, di sinistra estrema, sovversive quanto basta da contraddire le enormemente grandi ragioni addotte dal governo per sostenere l’Ucraina e per sostenere Israele.

Se oggi Meloni e Schlein trovano una piattaforma minima condivisa sul cessate il fuoco a Gaza, così non è per la guerra nell’Est europeo. I giornali si sono affrettati a titolare che l’asse è fatto: Meloni – Schlein in nome della pace. Se così fosse, sarebbe davvero una buona notizia. Ma, siccome poi lo stesso patto si ribalta nel nome della guerra per scopi democratici, all’ombra della NATO e degli Stati Uniti d’America, quando si tratta della resistenza di Kiev all’invasione russa, riesce molto difficile poter credere che l’asse regga nel nome vero e cristallinamente espresso della pace, del pacifismo, della diplomazia.

Di nuovo c’è un impegno che il governo si assume praticamente non votando la mozione cui deve aderire, in cambio dell’appoggio del PD a corposi passaggi delle proprie mozioni. Uno scambio, un mutuo soccorso per dare alla politica estera italiana un molto imbarazzato carattere di ecumenismo parlamentare rivolto a soddisfare più che altro equilibri interni e non a dare al Paese un chiaro segno distintivo nel fronte di un pacifismo che, a ben vedere, annovera quasi nessun governo. Il partito unico della guerra è diversificato, dunque, nelle striature che lo percorrono: sembra avere al suo interno moderati ed estremisti.

Ma alla fine, i partiti che sostengono l’invio delle armi in Ucraina sono gli stessi che hanno approvato la guerra israeliana contro i palestinesi dopo l’orrore del 7 ottobre. Il pretesto offerto da Hamas a Nentanyahu è stata l’occasione d’oro per provare a mettere la parola fine alla storia del popolo di Arafat nella sua terra. La colonizzazione in Cisgiordania non è annichilitrice come lo spianamento della Striscia di Gaza, ma le violenze quotidiane sono la cifra di una politica di apartheid e di imperialismo che va avanti da decenni.

Pace, terra, dignità
L’idea che ha avuto Michele Santoro, insieme a Raniero La Valle, di creare un fronte della pace, una lista di scopo che cambi la narrazione delle elezioni europee in Italia, portandola sul terreno del confronto tra chi vuole la fine del riarmo, l’inizio del disarmo e, così, l’allontanamento del nostro Paese dai blocchi che si affrontano nella lotta per la nuova dominazione globale nella moderna rinascita del multipolarismo, è una intuizione che va sostenuta e di cui bisogna fare parte. Non c’è problematica più inquietante oggi della strutturazione, pezzo a pezzo, regione per regione, continente per continente, di una nuova guerra globale.

Chiamiamola pure “mondiale“, come ha fatto il papa. La sinistra, i progressisti, chiunque abbia a cuore pace e disarmo, deve leggere in questa proposta di Michele Santoro non un nuovo partito propriamente inteso come organizzazione strutturata; bensì un movimento civile, democratico, antifascista e antimperialista che lotti anche e soprattutto in questo modo contro il liberismo capitalistico. La guerra di Putin contro l’Ucraina è anche ripresa del conflitto che aveva martoriato il Donbass.

Così tutte le altre guerre hanno come motivi scatenanti problemi atavici, temporalmente lontani da noi. Ma affondano le loro radici nell’oggi. In questo presente in cui la crisi dell’Occidente si esprime con l’allargamento della NATO ad est, il solleticamento dei pruriti imperialisti tanto della Russia quanto della Cina che, in una abbastanza chiara relazione ambivalente tra Mosca e Pechino, calcola i tempi per mettere fine all’esperienza di Taiwan.

Le cosiddette “ragioni politiche” delle guerre, afferenti problemi di natura plurisecolare, come l’identità nazionale e l’occupazione di terre rivendicate vicendevolmente (dai palestinesi e dagli israeliani, dai russi e dagli ucraini, dai cinesi e dai taiwanesi, dagli yemeniti del nord a quelli del sud, eccetera) cedono il passo alle grandi questioni economico-finanziarie che sono il vero piano inclinato su cui si giocano, sulla pelle dei popoli, queste criminali partite di annientamento.

La questione pacifista, così come è stata molto ben spiegata da Raniero La Valle, è legata indissolubilmente ad uno sviluppo nuovo che, quindi, chiede alla politica non di cambiare passo, ma di rivoltarsi completamente e di sconfessarsi come produttrice di conflitti. Di riprendere una comune politica di disarmo che oggi è messa da parte praticamente ovunque. La fase più cruda del neoliberismo è questa: lo scontro che non riesce più ad essere sostenuto con gli anche duri rapporti politici, mediati magari dalle Nazioni Unite, ma invece attraverso la guerra fatta direttamente o “per procura“.

L’Italia è dentro questi processi di rinvigorimento delle asperità. Dall’invio di armi all’Ucraina al sostegno senza se e senza ma delle ragioni israeliane della guerra genocidiaria in corso a Gaza; per arrivare nello stretto di Bab al-Mandab, all’estremità nord del golfo di Aden, dove abbiamo preso il comando della missione “Atlanta” di controllo internazionale per garantire il passaggio delle navi israeliane là dove il governo degli Houthi tenta il blocco con lanci di razzi e abbordaggi.

Se la campagna elettorale per le prossime elezioni europee potrà avere in “Pace Terra Dignità” un blocco soprattutto sociale e civile contro la guerra, per il disarmo, per una ripresa di coscienza nazionale su temi che interessano trasversalmente tutti, non va dimenticato che le maggiori ricadute della guerra mondiale a pezzi, tanto quanto quelle dei conflitti globali del Novecento, si hanno sui miliardi di sfruttati che abitano il mondo non da protagonisti del loro presente e dell’avvenire, ma da inquilini di un edificio al servizio del capitale, perché entro la logica della proprietà privata.

Pacifismo e anticapitalismo
La guerra è parte importante di questa logica neoliberista. Pertanto una posizione chiara, netta, senza alcun se e senza alcun ma per la pace non può non includere una critica ferma al sistema capitalistico e a tutte le sue torsioni omicidiarie e sfruttatrici sparse per il pianeta. Per questo l’adesione all’intuizione santoriana e lavalliana può anche essere singolare, apartitica e non rivolta alla ricomposizione della sinistra in un unico soggetto. Non è questa, infatti, la sua missione.

Ma, al contempo, non può non nascere e crescere sull’onda della contrarietà totale alle politiche che fino ad oggi sono state fatte da svariati governi per mettere all’angolo i diritti sociali, il lavoro in quanto tale, i diritti civili e le libertà di eguale misura, i diritti umani e una concezione egualitaria della vita, senza confini, senza barriere, per arrivare alla grande, enorme problematica dell’inquinamento e del disastro ambientale. Anche in questo caso, la guerra è responsabile di catastrofi ecologiche immani.

Lo slogan che si scandiva un tempo era: «Guerra alla guerra!». Oggi è anche il titolo di un bel libro di Matteo Pucciarelli sul pacifismo in Italia (un consiglio di lettura pienamente attuale e ovviamente del tutto contestuale alla disarticolazione disumana dell’oggi), edito da Laterza. E’ utile farsi delle domande sul ruolo della pace in un contesto globale in cui il conflitto è la cifra di irrisoluzione delle problematiche che sorgono tra i poli di potere dell’imperialismo del nuovo millennio.

E la prima delle domande, forse, quella che si può vedere in cima alle altre è strettamente legata ad una nuova idea internazionale dei diritti e della vita, dell’esistenza di tutte e tutti noi. Ad una messa in discussione della struttura economica che domina il pianeta e che lo piega alla logica privatistica del profitto imprenditoriale, della speculazione finanziaria, dell’accumulazione del capitale.

Se i comunisti aderiscono al progetto di fronte della pace lanciato da Santoro e La Valle, lo possono e lo devono fare portando questo contributo: non la tanto temuta ideologizzazione del movimento che ne può nascere; perché è già nelle cose la questione antiliberista e la vivono sulla loro pelle i milioni di migranti che si spostano dall’Asia e dall’Africa e che, dalla rotta balcanica a quella tombale del Mediterraneo approdano ai confini di un mondo che si fa sempre più egoista, di destra, patriottardo, nazionalista e revanchista in questo senso.

Il contributo dei comunisti può essere un elemento critico ulteriore, da sostenere ogni volta che si possa ritenere la guerra qualcosa di estraneo al sistema dei profitti e delle merci, dello sfruttamento di qualunque risorsa naturale. Noi siamo questa cultura dell’anticapitalismo che non si arrende alla narrazione semplicistica fatta richiamando in causa l’anacronismo del comunismo oggi.

Oggi, la migliore manifestazione dell’essere comuniste e comunisti è stare senza alcuna cedevolezza dalla parte della pace e del disarmo multilaterale. Contro ogni esercito europeo ma non contro la difesa dei popoli, prevista tra l’altro dalla nostra Costituzione come unica ragione di possibile conflitto. La cultura della pace è il contrario del nazionalismo, ma non disprezza la Nazione come unità di popolo in un contesto di valorizzazione dei beni comuni e dell’interesse altrettanto comune.

La cultura della pace è progressismo di per sé. Prescinde dal credo religioso e da quello filosofico, dal colore politico e si distanzia naturalmente da tutte quelle tinte scure che somigliano agli autoritarismi del passato e si ripropongono oggi come soluzioni populiste e sovraniste tanto in Europa quanto in America.

La cultura della pace e del disarmo è, quindi, in sostanza il miglior programma sociale, civile, morale e politico che possiamo portare al Parlamento di Strasburgo, così che domani sia proprio Bruxelles a rivendicare per prima qualunque azione diplomatica in favore della tenuta di un continente, di una sua autonomia tanto dall’ovest quanto dall’est. Non più una fortezza impermeabile ai bisogni, ma una terra in cui il diritto all’esistenza di tutti prevalga su quello del denaro.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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