Le sorprendenti elezioni sarde, insieme all’ondata di proteste giovanili segnano un punto di svolta nella finora placida egemonia di destra. Meloni può essere battuta nelle piazze e nelle urne, purché la sinistra si coalizzi e si faccia carico dei problemi reali

Raramente e forse a torto ci occupiamo di elezioni locali, ma stavolta dobbiamo fare un’eccezione, perché in Sardegna sono confluiti diversi fattori che, tutti insieme, configurano un inizio di svolta, il principio della parabola discendente di Giorgia Meloni e una crepa della coalizione di centrodestra. Sebbene logicamente si tratti di due cose indipendenti, è nettissima la percezione di un nesso fra il risultato sardo (che pure ha una genealogia tutta sua) e la vergognosa vicenda delle cariche selvagge della polizia contro le manifestazioni filo-palestinesi a Napoli, Firenze e Pisa. Le matite in risposta ai manganelli – ha detto esplicitamente la vincitrice Todde (personaggio non scontato).

Specificherei forse che ai manganelli (la cieca violenza repressiva della catena di comando degennariana imposta da Meloni) si è contrapposto non solo un voto di protesta, ma in primo luogo la resistenza dei corpi degli studenti, che si sono conquistati il diritto alla parola e allo spazio pubblico senza “licenza dei superiori” (Zagrebelsky ha opportunamente ricordato che la Costituzione non prevede per le riunioni  una “autorizzazione” bensì un semplice “preavviso”), mettendo in evidenza la brutalità del potere e costringendolo a fare marcia indietro, fino all’irritata reprimenda del Presidente dalla Repubblica. Di più: Piantedosi, in un grottesco tentativo di difesa è arrivato a stimare in mille le manifestazioni pro-Palestina delle ultime settimane, per minimizzare la quota di quelle aggredite e bastonate, e Meloni si è vantata che l’Italia è uno dei pochi paesi europei a non vietare i cortei per la Palestina libera (salvo bloccarli per presunti “obiettivi sensibili”, tipo la sinagoga di Pisa). Pur nella strumentale gonfiatura ne risulta per paradosso l’ampiezza della mobilitazione giovanile che ricorda le migliori stagioni di una conflittualità interna collegata alla solidarietà internazionalistica – segno temibile di cicli crescenti e intersezionali di lotte.

Il secondo elemento significativo e meritevole di attenzione è la disfatta personale di Giorgia Meloni e della sua arrogante pretesa di imporre un candidato alla coalizione in corso d’opera – un candidato impresentabile al pari del presidente regionale uscente, ma infliggendo un’umiliazione a una Lega già per conto suo in via di crollo al di sotto del quorum per le europee. Di qui una lacerazione profonda delle relazioni interne alla maggioranza, mal mascherata da comiche ostentazioni di vittoria e unità – dall’ineffabile rivendicazione di Bocchino di una vittoria morale (le liste, ma ahimè non il candidato) al mattinale di Fazzolari, per cui «il dato della Sardegna nasce da dinamiche locali. In termini di partiti il centrodestra cresce notevolmente rispetto alle politiche e il campo largo perde consenso. Se qualcuno sperava in un segnale contro il governo è rimasto deluso». Meloni, dismesse le faccette e vocette del maleaugurante comizio finale della campagna, ora esibisce umiltà e fa la simpatica simulando di voler imparare dagli errori, ma fra le righe traspaiono la violenta irritazione verso Salvini e la chiara intenzione di continuare a bullizzarlo, rinfacciandogli l’uso perverso del voto disgiunto e l’insuccesso elettorale. Le difficili elezioni abruzzesi incombono e inoltre Salvini si sta giocando, con queste consultazioni e con la partita sul terzo mandato, anche il posto di segretario e lo stesso nome della Lega (per Salvini).

Ben più interessante è il gioco al centro e nel centrosinistra o campo largo.

Il centro – se vogliamo attribuire questo ruolo al blocco Soru-Calenda con l’invereconda appendice di Rifondazione comunista (sic) – ha fallito miseramente con conseguente retromarcia sia di Soru, affidato alle energiche cure manuali della figlia, sia di Calenda, che ha riscoperto (per il momento) la necessità di allearsi con la sinistra, con effetti sulle prossime scadenze elettorali. La sinistra, a sua volta, ha confermato un campo largo segnato non proprio dall’egemonia di Schlein, piuttosto (in superficie) dal protagonismo mediatico di Conte. Schlein ha rafforzato la propria influenza nel Pd, più che altro profittando degli errori di Banaccini e dell’insipienza dei maggiorenti della vecchia guardia.

 In realtà l’indipendenza di Alessandra Todde, che ha evitato di farsi mettere in mezzo e oscurare (l’errore fatale di Truzzu) dai due leader nazionali cui si è unita solo per brindare con il rosso Cannonau a cose fatte, è stato l’elemento determinante – e sarà corretto replicare questa tattica anche nelle prossime scadenze.

Resta l’indicazione di medio periodo. il campo largo va coltivato come unica via per capovolgere l’egemonia di Meloni (come appare possibile dopo la Sardegna) ed è un campo che poggia sull’equilibrio delle due componenti principali e la capacità di avere candidati e candidate locali effettivamente autonom* dalla fragile e litigiosa leadership nazionale dell’opposizione. A una certa, peraltro, occorrerà scegliere il leader più popolare e meno divisivo per raccogliere i voti e candidarsi alla Presidenza del Consiglio, anche prima dell’eventuale premierato. Ma è prematuro parlarne ora.

Torniamo all’importanza del voto nelle presenti circostanze. Manganelli, impegni militari e diseguaglianze economiche e fiscali rendono palese che la permanenza dell’attuale governo e delle sue articolazioni locali e burocratiche è un danno grave per tutto il Paese e in primo luogo per le classi subalterne. Battersi su quel terreno è un problema non tanto dl ceto politico di sinistra, comprese le più o meno plausibili istanze radicali, ma delle larghe masse. In molte aree è gioco la sopravvivenza, non solo la povertà relativa e una sofferenza complessiva. Chiaro che salario minimo, rinnovi contrattuali, funzionamento della sanità pubblica, politiche del welfare e interruzione del ciclo bellico sono le questioni decisive – ma tutto questo, e la tutela dei diritti e dell’ambiente, passano attraverso l’apparato di governo e sottogoverno che in parte dipende dalle scadenze elettorali e dalla non innocua retorica della sovranità nazionale e della rappresentanza diretta populistica. Sottovalutare questo momento ha fatto parte del fallimento della vecchia sinistra e non deve essere ereditato da nuove formazioni del medesimo orientamento.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e di profilazione. Cliccando su accetta si autorizzano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su rifiuta o la X si rifiutano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su personalizza è possibile selezionare quali cookie di profilazione attivare.
Attenzione: alcune funzionalità di questa pagina potrebbero essere bloccate a seguito delle tue scelte privacy: