L’opposizione al disegno di legge sull’autonomia differenziata va inquadrata in un momento di resistenza popolare che, oltre a difendere un quadro di diritti sociali, mira a riconostruire un tessuto di lotte e rivendicazioni che hanno un significato sociale, nazionale e democratico

 di Francesco Cori  

Lunedì 29 ottobre si sono svolti presidi in tutta Italia contro l’autonomia differenziata. L’iniziativa è nata da un coordinamento variegato di forze “il comitato contro ogni autonomia differenziata” che, con tenacia e determinazione, è stato in grado di produrre dibattiti, approfondimenti, iniziative di piazza e manifestazioni che sono cominciate cinque anni fa, in un contesto difficilissimo di occultamento e marginalizzazione del tema, sia dai principali media nazionali che da una parte consistente delle forze politiche presenti in Parlamento. Come accennato prima, il progetto di autonomia differenziata nasce con una serie di pre-intese tra Governo e Regioni nel 2018 alla fine del mandato del Governo Gentiloni. In quel momento, sotto l’iniziativa di tre Regioni: Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna cominciava a definirsi, all’interno della Conferenza Stato-Regioni, un progetto di espropriazione, da parte dello Stato Centrale, di una serie di materie dell’ordinamento sociale che sarebbero dovute passare alle Regioni. Non si trattava solo della Sanità – in buona parte esternalizzata alle Regioni già da tempo – ma anche di altri settori: trasporti, infrastrutture, ambiente, norme generali dell’istruzione, ricerca, sicurezza sul lavoro, etc. 

All’interno della Conferenza Stato-Regioni – un organismo creato ed alimentato dalla modifica del titolo V della Costituzione – si è aperta una vera e propria trattativa all’interno della quale i Governatori delle Regioni, a partire da Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, stabilivano quante e quali materie sarebbero dovute passare dalla competenza dello Stato a quella delle Regioni. Testa di ponte era il Veneto con ben 26 materie, poi seguivano Lombardia (22) ed Emilia Romagna (16). Il dato che colpisce è che solo due Regioni – Abruzzo e Molise – non avevano presentato alcuna richiesta in tal senso, mentre tutti gli altri Governatori, anche se in una condizione di difficoltà oggettiva (pensiamo alle Regioni del Sud) presentavano le loro liste di desiderata alla Conferenza. Tale dato fa riflettere sull’autoreferenzialità, il particolarismo e l’ottusità municipalistica di un ceto politico locale di tipo affarista, corporativo e, soprattutto, strettamente legato ed interconnesso con le lobby ed i potentati presenti sul territorio; ciò avviene in modo particolare in quella terra di nessuno – abbastanza distante dai cittadini per essere controllata ma, al tempo stesso, priva di universalismo statuale – che sono, appunto le Regioni. A tutto ciò va aggiunta la totale mancanza di pubblicità e discussione nell’opinione pubblica delle trattative in corso. Pochissime le informazioni divulgate, totale assenza del dibattito nell’opinione pubblica e tra i media, a cui si aggiunge la complessità e il carattere barocco e sfuggente della materia. 

Nonostante tutti questi fattori d’impedimento, il “Comitato contro ogni autonomia differenziata”, è stato in grado di sollevare il problema, di farlo uscire dagli angusti limiti di una discussione tra tecnocrati e burocrati della Stato, e di portarlo a settori sempre più vasti dell’associazionismo e della società civile e politica. Il progetto di regionalizzazione, infatti, non significa solamente aumento delle differenze tra sud e nord ma anche – e soprattutto – riduzione esponenziale dei diritti sociali dell’intera classe lavoratrice e della stragrande maggioranza dei cittadini italiani. Trasferire le competenze dallo Stato alle Regioni significa, infatti, ridurre complessivamente i fondi da destinare al sociale, eliminare, in quei settori, ogni possibile quadro di riferimento normativo nazionale per i lavoratori, quindi accentuare il servilismo e la discrezionalità padronale sia nell’erogazione dei servizi che nel trattamento del personale che viene pagato per svolgerli. Non si tratta, naturalmente, solo di riduzione di elargizione di fondi per il sud ma anche di definire un rapporto di potere di tipo privatistico, padronale e clientelare del potere. E’ questa la ragione per cui il DDL Calderoli – il disegno di legge sull’autonomia differenziata – rappresenta un potentissimo elemento di scambio e di trattativa tra Lega e Fratelli d’Italia nella quale il partito di Giorgia Meloni volendo l’elezione diretta del presidente del Consiglio, concede alla Lega, sempre più in difficoltà per la caduta dei consensi, un’accelerazione dei tempi d’attuazione della riforma che genera una profonda inquietudine in ogni sincero democratico. 

Se dalla parte del Governo assistiamo ad una pericolosissima accelerazione della votazione del DDL Calderoli (il 29 Aprile è passato in Commissione al Senato) dall’altra parte “Il coordinamento contro ogni autonomia differenziata” è stato capace, soprattutto negli ultimi tempi, di allargare il fronte dell’opposizione al DDL, includendo sia i Sindacati di Base che la CGIL e la UIL, a cui si sono aggiunti molti Sindaci del Sud. Grazie anche a quest’iniziativa di pressione politica il Movimento 5 stelle ha rafforzato la sua critica e il suo rifiuto alle proposte di legge sull’Autonomia differenziata, mentre nel PD – all’interno del quale il presidente della Regione Emilia Romagna, Bonaccini aveva sostenuto attivamente il Regionalismo – si sono aperte delle contraddizioni con una parte del partito (pensiamo a De Luca) che mostra sempre più perplessità di fronte ad una riforma così gravosa, in particolare per i cittadini del centro-sud. Non è un caso, infatti, che solo un mese fa si è tenuta a Napoli una prima manifestazione nazionale contro il DDL Calderoli. 

Se per un verso è evidente che l’Autonomia differenziata approfondisce ulteriormente il divario tra Nord e Sud, collocandosi, quindi, all’interno della problematica atavica della “questione meridionale”, dall’altro la problematica va inquadrata in una questione sociale e democratica ben più amplia. I diritti sociali, passando dal terreno nazionale a quello regionale, vengono ridotti per tutti i cittadini, mentre i lavoratori dei settori pubblici investiti dal processo di regionalizzazione vedranno la loro forza contrattuale ulteriormente indebolita da un quadro normativo sempre più parcellizzato e perennemente in carenza di fondi. Da questo punto di vista, oltre alla dimostrazione logica di questo processo, è sufficiente osservare empiricamente cosa è accaduto in quei settori nei quali il processo di regionalizzazione è avvenuto in maniera più accelerata già in questi anni, a partire dalla sanità. In questo settore, oltre agli sprechi immani di denaro destinati a logiche privatistiche, elettorali e di favoritismo (pensiamo alla Lombardia, alla Sicilia e alla Calabria, in cui il fenomeno è stato più eclatante) il diritto alla salute per la stragrande maggioranza dei cittadini è stato eroso spaventosamente mentre i diritti dei lavoratori sono stati ridotti in maniera inquietante. Turni massacranti, uso smodato del sistema delle cooperative, salari al di sotto delle condizioni di sussistenza hanno generato una condizione di sfruttamento e ricatto ai limiti dell’insostenibilità. Letta in quest’ottica l’autonomia differenziata risponde ad una logica di ricatto e di dominio sui ceti popolari sempre più drammatica ed irrazionale che si riflette immediatamente sull’intero ordinamento democratico del paese. Riducendosi i diritti sociali, infatti, i lavoratori e, più in generale i ceti popolari, sono posti di fronte al ricatto costante sulle loro condizioni di vita, ad essere deteriorata è la loro stessa capacità d’organizzazione in vista del riconoscimento dei loro diritti ed è per questa ragione che “la secessione dei ricchi” non è in contraddizione con le svolte autoritarie e nazionaliste espresse da Fratelli d’Italia nella spinta al Premierato, cioè all’elezione diretta del Presidente del Consiglio. Il premier forte rappresenta, in quest’ottica di servilismo e frammentazione, l’unità imposta dall’esterno ad un organismo statuale e sociale in graduale stato di putrefazione. 

E’ per queste ragioni, che sono sociali, nazionali e democratiche, che la lotta contro l’autonomia differenziata va concepita come “la madre di tutte le battaglie”. Il governo Meloni – mescolando autoritarismo presidenzialista e regionalismo – è espressione di un blocco sociale che intende mantenere ed accrescere i propri privilegi accentuando la frammentazione ed il dominio personale di un oligarchia sempre più ristretta. Contrastare alla radice questo progetto significa inserirsi in un orizzonte politico e culturale in virtù del quale bisogna utilizzare tutti i mezzi possibili per frenarne il decorso e, al tempo stesso, invertire radicalmente la logica di fondo. In primo luogo bisogna utilizzare le elezioni europee per arginare il potere dei partiti di Governo, aderire alle manifestazioni – a partire da quella della CGIL a Napoli del 25 Maggio – che puntano a mettere in risalto questo problema di fronte all’opinione pubblica; infine, se anche il disegno dovesse andare avanti, ricollegare l’attacco ai diritti dei lavoratori e dei cittadini nei diversi settori a questo disegno normativo generale in cui s’inserisce descrivendone le logiche di lunga durata; infine, condividere la strategia inclusiva adottata dal Coordinamento contro l’autonomia differenziata poiché gli strumenti in mano al nemico sono così potenti e capillari che non ha senso alimentare ulteriormente divisioni oltre quelle che il nemico ha già il potere di mettere in campo.

https://www.lacittafutura.it/editoriali/la-lotta-contro-l%e2%80%99autonomia-differenziata-madre-di-tutte-le-battaglie

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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