I settori ad alta intensità di CO₂ (combustibili fossili, estrazione mineraria, agricoltura, utilities) rappresentano oltre la metà delle emissioni totali finanziate dalle grandi banche dei Paesi del G7 © Alexandros Michailidis/iStockphoto
ReCommon denuncia il sostegno delle maggiori banche dei Paesi industrializzati ai settori più inquinanti. L’appello al G7 Finanze di Stresa
Andrea Di Turi
Sembra non esserci fine alla sfilza di rapporti che smascherano il gigantesco greenwashing che caratterizza gli impegni per il clima della grande finanza internazionale. Guardandosi indietro, a quasi nove anni dall’Accordo di Parigi, quello che doveva rappresentare il “decennio dell’azione” contro la crisi climatica appare invece come il decennio dell’ipocrisia. Almeno stando alla direzione in cui le risorse finanziarie, nonostante impegni e dichiarazioni altisonanti, continuano a muoversi.
Le emissioni delle banche dei Paesi del G7 sono «senza controllo»
In vista del vertice G7 Finanze del 24-25 maggio a Stresa, arriva da ReCommon una nuova indagine che mette sul banco degli imputati le maggiori banche dei Paesi del G7. Di quella fetta di mondo, cioè, più ricca e industrializzata che, in virtù del principio delle responsabilità comuni ma differenziate, dovrebbe fare molto di più e più in fretta per accelerare la transizione ecologica.
E invece “Senza controllo, le emissioni di CO₂ delle più grandi banche mondiali” – questo il titolo del rapporto – mostra che le 29 maggiori banche dei Paesi del G7 sono complessivamente responsabili (dati a fine 2022) di più emissioni di gas serra di Italia, Germania, Francia e Regno Unito messi insieme. 2,7 miliardi di tonnellate di CO2 contro 2 miliardi. Si tratta delle “emissioni finanziate”, cioè associate ai settori e attività che le banche sostengono. Fra questi, i settori ad alta intensità di CO₂ (combustibili fossili, estrazione mineraria, agricoltura, utilities) la fanno da padroni con oltre la metà delle emissioni totali finanziate, nonostante rappresentino solo il 6% dei prestiti. «Se le più importanti banche del pianeta fossero un Paese, sarebbero tra i primi inquinatori globali», sintetizza Daniela Finamore di ReCommon, co-autrice del rapporto.
Le stime di ReCommon sono addirittura per difetto
Oltretutto, avverte il rapporto, si tratta di numeri probabilmente sottostimati. Di molto e per una serie di motivi. Intanto perché l’analisi si focalizza sui prestiti, escludendo le emissioni associate ad altre attività delle banche, quali la gestione del risparmio. Poi perché nel calcolo delle emissioni di molti settori non sono incluse quelle Scope 3, legate alla catena del valore, che rappresentano di solito la quota decisamente più consistente. Ma soprattutto, ed è forse l’accusa principale mossa dal rapporto, per la mancanza di trasparenza e le scarse pratiche di divulgazione del settore del credito su questi temi.
La maggior parte delle banche tende a rendere pubblici, quanto a settori e attività finanziati, i dati sull’intensità delle emissioni ma non sulle emissioni assolute. Quando è invece evidente che una riduzione dell’intensità di CO2 non implica di per sé una riduzione delle emissioni assolute. Solo il 20% delle banche analizzate fa disclosure sia sulle emissioni assolute, sia sull’intensità delle emissioni, con riferimento a più di cinque settori. Nonostante le raccomandazioni in tal senso della Net Zero Banking Alliance.
Quanto alla trasparenza, a parte qualche eccezione, in generale è solo per percentuali piccole e piccolissime dei loro portafogli che le banche offrono quei dati di qualità – con buona pace, tra l’altro, della comparabilità – che permetterebbero agli analisti di stimare in modo accurato le emissioni finanziate, che quindi risultano spesso sottostimate. Si va dal 69% di Toronto Dominion e il 59% di Mizuho (le uniche due oltre il 50%) al 13% di Deutsche Bank, giù fino al 5% di Intesa Sanpaolo e all’1% di Unicredit. Molte, fra cui Barclays, Bnp Paribas e Goldman Sachs, sono a livello rasoterra (0%).
L’appello ai «grandi» della Terra riuniti a Stresa per il G7 Finanze
La richiesta lanciata al vertice di Stresa è dunque soprattutto una. «I ministri delle Finanze del G7 e le autorità di vigilanza finanziaria – dice Finamore – devono fermare il finanziamento dei combustibili fossili». Un business quest’ultimo in cui, ricorda ReCommon, spicca invece il ruolo di una delle più importanti banche italiane. Dall’Accordo di Parigi a oggi, Intesa Sanpaolo ha sostenuto il settore delle fossili con 81,6 miliardi di dollari. Solo nel 2023 si parla di 8,6 miliardi di investimenti e 7,5 miliardi di finanziamenti.
Il report si rivolge non solo al G7 ma al G20, che quest’anno sotto la presidenza del Brasile ha lanciato la Task Force per la mobilitazione globale contro i cambiamenti climatici, al Financial Stability Board, al Comitato di Basilea sulla Supervisione bancaria, al Network for Greening the Financial System. A loro suggerisce una serie di raccomandazioni puntuali per la riforma della regolamentazione macroprudenziale del settore bancario e finanziario. Invitando ad attuarla rapidamente, data l’urgenza della crisi climatica. «Le attuali norme e regolamenti del sistema finanziario – si legge nel rapporto – non sono neutrali, perpetuano strutture economiche intrappolate nella CO2 e alimentano le vulnerabilità del sistema finanziario». Bisogna non solo, cioè, contrastare la crisi climatica ma anche evitare che produca una crisi finanziaria, aggiungendo catastrofe a catastrofe.
Il punto di partenza in ogni caso non cambia: stop al finanziamento delle fossili. Solo che si continua ad andare in direzione ostinata e contraria. Incontrando proprio i ministri delle Finanze di vari Paesi, lo aveva evidenziato con la consueta chiarezza lo stesso Papa Francesco. «I segni oggi non sono buoni. Gli investimenti in combustibili fossili continuano a crescere, nonostante gli scienziati ci dicano che i combustibili fossili devono rimanere nel sottosuolo». Era fine maggio 2019. Cinque anni dopo i segni continuano a non essere buoni. Fino a quando?