La Germania dubita e si mette in discussione Vincenzo Comito 14 Maggio 2019 | Sezione: Apertura, Europa La frenata dell’economia tedesca dipende solo in parte dalla situazione congiunturale della guerra dei dazi Usa-Cina. Nel frattempo serpeggia in Germania un diffuso disagio e anche un fermento politico che mette per la prima volta in dubbio seriamente i dogmi dell’austerity teutonica. L’andamento dell’economia Coma ha sottolineato di recente, tra gli altri, anche il Financial Times (The Editorial Board, 2019), negli ultimi 15 anni la Germania è stata il motore della più o meno elevata crescita europea; vi si sono registrati alti livelli di produttività, relativamente, anche se solo relativamente, bassi livelli di diseguaglianza, ridotti tassi di disoccupazione, pur se non sono mancati a questo proposito altri problemi, quali un’accresciuta precarietà del lavoro. Dalla crisi finanziaria ad oggi la crescita del reddito pro-capite tra i Paesi del G-7 è stata comunque la più elevata dopo quella degli Stati Uniti. Perché dubitare di tale modello, si chiede dal canto suo Le Monde (Editorial, 2019), quando il Paese registra un avanzo annuale di bilancio di 60 miliardi di euro, un debito pubblico inferiore al 60% del Pil, una bilancia commerciale fortemente in surplus? Ma i dati e le valutazioni più recenti disponibili per quanto riguarda quella economia non sembrano più molto incoraggianti, o almeno essi appaiono contraddittori e incerti. Il quarto trimestre del 2018 ha registrato così una crescita del Pil pari a zero, mentre per l’intero anno il risultato è stato quello di un aumento dell’1,4%, contro il 2,2% a suo tempo ottenuto nel 2017. Per l’anno in corso poi, le ultime stime di marzo del governo parlano di una possibile crescita dello 0,5%, percentuale che non sarebbe certo vista con molto entusiasmo neanche in un Paese come l’Italia. Peraltro molti economisti appaiono relativamente più ottimisti del governo, puntando ad uno 0,8%, mentre gli ultimi dati a consuntivo pubblicati nel maggio 2019 mostrano qualche speranza per un miglioramento della situazione anche per il settore industriale, grazie alla resistenza delle esportazioni, mentre in ogni caso il settore dei servizi si comporta abbastanza bene. Per altro verso, si registra anche, nell’ultimo periodo, un crescente senso di insoddisfazione e di ingiustizia nel Paese (Bramucci, 2019), sul piano economico come su quello sociale e politico. Qualcuno parla, a questo proposito, tra l’altro, di un declino sociale del Paese (Nachtwey, 2019). Anche le organizzazioni imprenditoriali sono, dal canto loro e per altre ragioni, in questo momento abbastanza nervose. Si assiste infine anche ad un rilevante disagio e ad importanti problemi di varia natura in diversi grandi gruppi, industriali e non, con episodi su cui sono ricchi di informazioni anche i media internazionali. Dopo lo scandalo dei test truccati sull’inquinamento e che ha toccato in particolare, ma non solo, la Volkswagen, abbiamo avuto la mancata fusione tra Alstom e Siemens, con le polemiche che si sono trascinate dietro, i problemi relativi allo stato delle due più grandi banche, Deutsche e Commerzbank, problemi che non si sa al momento come risolvere, infine le dispute intorno alla Bayer-Monsanto e alla ThyssenKrupp, con quest’ultima che ha appena annunciato 6.000 licenziamenti. E si potrebbe continuare. Le notizie sopra ricordate ci forniscono lo spunto per tentare una valutazione più complessiva della situazione e delle prospettive dell’economia tedesca. Perché la frenata? Congiunturale o strutturale? Quanto la frenata, che non è peraltro chiaro quanto sarà rilevante, è dovuta a fattori congiunturali e quanto invece a dei problemi strutturali? Per quanto riguarda il primo aspetto si fa riferimento da più parti a qualche difficoltà registrata nel settore delle esportazioni, in particolare nel comparto dell’auto, a causa anche di un cambiamento nelle norme antinquinamento di qualche tempo fa e del fatto che l’economia cinese, rallentando, ha teso a comprare meno prodotti tedeschi; viene anche segnalata l’incertezza che sta gravando su alcuni importanti dossier, quali la Brexit, i rapporti Cina-Usa, nonché la situazione italiana, ciò che ha contribuito, tra l’altro, a frenare gli investimenti privati in attesa di vederci più chiaro. L’interpretazione congiunturale dei problemi attuali può portare poi a pensare che le cose possano migliorare anche velocemente, come sperano in molti. Intanto diminuisce il livello della disoccupazione, crescono i salari e i consumi interni, i tassi di interesse si mantengono bassi. Ma si può temere che l’interpretazione congiunturale sia troppo riduttiva e che almeno alcuni aspetti strutturali possano essere entrati in gioco. Essi sembrano essere dipesi soprattutto da una strategia che ha puntato quasi tutte le sue carte sull’export – la Germania è probabilmente il Paese al mondo più legato all’economia globale e l’incidenza delle esportazioni sul Pil si aggira oggi intorno al 50% -, in particolare di alcuni settori, tralasciando invece di sostenere la domanda interna, anche se nell’ultimo periodo essa ha ricevuto una maggiore attenzione (si veda tra l’altro il rilevante recente aumento dei salari e stipendi nel settore pubblico, che si è aggirato in media intorno all’8%), nonché gli investimenti pubblici e privati (Boutelet, 2019). I risultati ottenuti negli anni sul fronte delle esportazioni sono dipesi sostanzialmente, oltre che dalla qualità dei prodotti e dalla loro eccellenza tecnica, da una rilevante sottovalutazione del cambio, essendo l’euro determinato per buona parte dall’esistenza di economie molto più deboli di quella tedesca, che hanno in particolare spinto il rapporto euro-dollaro a livelli molto favorevoli al Paese teutonico. Per quanto riguarda un’altra e molto controversa misura, quella del mutamento della politica del lavoro, con le regressive misure Schroeder- Harz, che è stata da molti a suo tempo indicata come all’origine per una buona parte del miglioramento dell’andamento dell’economia tedesca, alcuni studiosi sostengono che in realtà ha contato molto di più il parallelo favorevole andamento dell’economia mondiale, oltre che la già citata sottovalutazione del cambio. Sulle ragioni più strutturali della frenata c’è poi chi sottolinea le carenze delle infrastrutture del Paese a causa di politiche pubbliche troppo restrittive, con ritardi accumulati nella digitalizzazione dell’economia. Si teme che il settore dell’auto del Paese, all’avanguardia sino a ieri nell’innovazione tecnologica, stia perdendo colpi, di fronte in particolare all’incalzare delle novità che si vanno profilando. Pende sul tutto la minaccia dei dazi di Trump, il cui aumento potrebbe portare a qualche miliardo di perdita annuale di vendite nel settore; si fa inoltre riferimento agli scarsi investimenti pubblici nel settore dell’istruzione. Le preoccupazioni dell’establishment tedesco fanno soprattutto riferimento al timore che la situazione di mercati internazionali molto aperti, che è prevalsa sino a poco tempo fa e che ha fortemente favorito il Paese, possa volgere al termine. Si scrutano con preoccupazione la crisi dei rapporti commerciali Cina-Stati Uniti, la sviluppo dei populismi nell’Unione Europea, la Brexit. La Germania era saldamente ancorata all’alleanza con gli Stati Uniti e al tradizionale quadro europeo, situazioni ambedue oggi messe in discussione dallo sviluppo degli eventi. Il problema cinese Un’attenzione particolare viene in questo momento rivolta poi alla Cina e ai rapporti con tale Paese. Sono finiti i tempi in cui la Germania importava dal Paese asiatico prodotti di consumo a buon mercato ed esportava auto costose, macchine utensili e altri beni ad elevato valore aggiunto, come sottolinea ad esempio The Economist (2019). La Cina è da tempo il principale mercato di esportazione tedesco; così le auto teutoniche traggono una rilevante quota delle loro vendite e la gran parte dei profitti da tale mercato. Ma ora, mentre si fanno avanti i timori di un rallentamento strutturale dell’economia cinese, affiora il timore che i produttori cinesi, che stanno salendo sempre più in gamma, facciano sempre più concorrenza a quelli tedeschi, dall’auto alle macchine utensili, alla chimica (Munchau, 2019). E tale timore appare a nostro parere molto ben fondato. Tale minaccia a livello generale, e quella specifica legata alla possibilità che le imprese di quel Paese acquistino molte delle imprese europee più qualificate, stanno spingendo l’establishment tedesco ad avviare anche in sede europea, oltre che nazionale, politiche di risposta. Si veda in proposito più avanti. Intanto, presentano prospettive difficili per varie ragioni anche altri importanti mercati tradizionali del Paese teutonico, quali quelli russo, turco, britannico. Cosa fare Non a caso, anche di fronte all’evidenza di queste difficoltà, si va sviluppando in Germania un grande dibattito di rilevante interesse. Esso sembra mettere in discussione due dogmi fondamentali della politica tedesca: quello dell’equilibrio di bilancio, iscritto anche nella Legge fondamentale del 2009, e quello del non intervento pubblico in economia (Boutelet, Wieder, 2019). Così, per quanto riguarda il primo tema, Michael Hauter, presidente dell’istituto economico di Colonia, ente vicino al padronato, giudica che sia un’assurdità, in un periodo di tassi di interesse bassissimi, non indebitarsi un poco per investire in quelle capacità di produzione che appaiono strategiche per l’avvenire; in particolare, vengono identificate le infrastrutture e l’educazione quali priorità strategiche e che hanno in particolare sofferto della disciplina budgetaria del decennio precedente (Boutelet, Wieder, 2019). D’altro canto, cambiare la legge dell’equilibrio di bilancio appare oggi molto difficile, viste le crescenti divisioni partitiche. Per quanto riguarda la seconda questione, di fronte al quadro della situazione, i due grandi partiti della coalizione stanno pensando a rilevanti mutamenti di rotta, che possono anche in qualche modo sorprendere per la loro novità. Peter Altmaier, ministro dell’Economia e stretto alleato di Angela Merkel, pensa a misure che possano far crescere l’economia e così facendo mette in campo un progetto di politica industriale di cui non si sentiva parlare da molti anni: incentivi fiscali per la ricerca e sviluppo, piani per grandi progetti infrastrutturali e per l’efficienza energetica, acquisizione di quote di capitale in imprese strategiche per evitare che cadano in mano allo “straniero” (sottinteso, ai cinesi), parallelamente a politiche attive per creare campioni nazionali ed europei in alcuni settori, in particolare insieme alla Francia (Chazan, 2019). Mentre il dirigente della CDU pensa alla politica industriale classica, dal canto loro i dirigenti della socialdemocrazia tedesca si concentrano piuttosto sulle politiche sociali, che stanno ripensando in una maniera che indica una decisa virata a sinistra del loro programma. In effetti, parlano ora di ripudiare le norme Schroeder-Hartz, di aumentare i diritti dei lavoratori, di migliorare il welfare state, di aumentare il salario minimo di un terzo, tutte proposte che si credeva impensabili solo alcuni mesi fa; ma, nel frattempo, l’erosione del loro elettorato procede inesorabilmente, così come quello dei democristiani. Le misure individuate potrebbero portare ad un rilancio della domanda interna, ciò che potrebbe riequilibrare qualche cedimento sulle esportazioni. Il presidente dell’organizzazione della gioventù socialdemocratica, condannando il capitalismo in generale, sta cominciando a pensare a politiche socialiste, quali il controllo democratico dell’economia, la collettivizzazione delle grandi imprese, una casa per tutti, il benessere collettivo da mettere prima della soddisfazione individuale. Tutto questo con il commento ovviamente scandalizzato di un giornale “liberal” quale il New York Times (Bittner, 2019). A sottolineare la bontà delle proposte ad esempio di Altmaier sta la dura reazione degli ambienti conservatori. Ad esempio Christoph Schmidt, capo del consiglio degli esperti economici del ministero dell’Economia, giudica illusorio ed ingannevole l’interventismo nell’economia, cosa che a suo dire non ha niente a che vedere con l’economia sociale di mercato (Boutelet, 2019; Schmidt, 2019). Anche le piccole e medie imprese – Mittelstand -, ricordando che esse sono largamente responsabili dell’innovazione e della grande diminuzione della disoccupazione, pensano di essere state dimenticate nei piani del ministro (Boutelet, Wieder, 2019). Si apre così in Germania un periodo politico ed economico incerto, ma di rilevante interesse, visto il peso che ha in Europa.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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