L’altissimo ruolo del Presidente della Repubblica implica quella famosa “terzietà” che è propria della garanzia istituzionale, dell’intercapedine che si mette tra i conflitti probabilissimi tra i poteri dello Stato.

A tutela degli stessi, a tutela, semmai ancora di più, dei cittadini tutti dagli scontri che, derivandone, si possono riversare nella concretezza quotidiana della vita di ognuno di noi e, nell’insieme, possono inficiare il buon funzionamento degli apparati e l’equilibrio democratico repubblicano.

Fin qui il principio che è, costituzionalmente, fattività e non solamente teoria. E siccome è tutto questo e anche di più, quando il Presidente della Repubblica parla, lo fa misurando attentamente le parole, consapevole che la centellinazione di ognuna di loro è quella saggezza con cui si discerne il comportamento di questo o quel partito, di questo o quel governo e, non ultime, le relazioni internazionali fra l’Italia e gli altri Stati.

Rifacendosi, pertanto, a questa cornice di considerazione delle dichiarazioni del Capo dello Stato in generale, non può non sfuggire la pesantezza delle stesse nell’ambito del bilaterale tra le presidenze italiana e polacca di queste ultime ore.

Mattarella ha ribadito ogni sostegno del nostro Paese alla difesa ucraina, ogni condanna risoluta, decisa e intransigente della guerra mossa dalla Russia putiniana contro Kiev e ha auspicato che, tra gli altri, anche il problema dei conflitti internazionali sia risolto con una convergenza europea, con una condivisione unitaria, con una, insomma, politica estera continentale.

Sarebbe un auspicio degno di nota se seguisse, ad esempio, il dettame della nostra Costituzione che, si badi bene, nemmeno il governo italiano segue.

Alla lettera vorrebbe dire non mandare armi all’Ucraina, non sostenere nessuna guerra per la risoluzione delle problematiche tra Mosca e Kiev ma, al contrario, adoperarsi costantemente con una azione diplomatica costante in ogni sede, presso ogni ufficio e cancelleria per far smettere il conflitto, per il cessate il fuoco immediato, per l’apertura di un tavolo negoziale serio e non solo adombrato.

Ma, siccome la Costituzione in tema di controversie internazionali è già stata tante volte tradita quanto è stata citata in proposito dai vari governi che si sono succeduti dagli anni ’90 in poi, almeno dalla Presidenza della Repubblica ci si sarebbe aspettati un richiamo fedelissimo alla Carta del 1948, che servisse da monito, anche da incoraggiamento ad abbandonare quella linea solamente atlantista che, invece, oltre che a Giorgia Meloni pare essere di gradimento anche al Quirinale.

Questo punto di vista pacifista e antibellico, ovviamente, contrasta prima di tutto con l’opzione del riarmo, con quella ancora più grande del mantenimento delle basi della NATO nel nostro territorio nazionale.

Dai tempi di Craxi e della sua timida idiosincrasia con la presenza USA a Sigonella attorno all’aereo che ospitava i terroristi palestinesi coinvolti nel sequestro della nave “Achille Lauro“, nessuno ha più osato sfidare il predominio militare americano in Italia.

Chi ha almeno mezzo secolo di vita ricorderà le scene passate nei telegiornali in cui i doppi cerchi di militari e di carabinieri si fronteggiarono per ore e ore prima che si addivenisse ad una soluzione con Ronald Reagan. Erano i tempi in cui, da Andreotti ai socialisti, si mostrava qualche simpatia per la causa palestinese, tutto dentro ad uno scenario internazionale giocato come in un risiko, ma sempre e soltanto sulla pelle di povera e disperata gente.

Oggi non si ha nemmeno più quel coraggio, di rivendicare un minimo di sovranità nazionale e, per paradosso, proprio i più fervidi che si dicono patrioti a tutto tondo, sono i primi a cedere alla linea Stoltenberg, al dettato universalizzato delle revisioni di bilancio degli Stati per uniformarsi a quel 2% di spesa militare obbligatoria, entro l’interezza del PIL, da consegnare in armamenti e cura delle basi alla NATO stessa.

Oggi, tanto il governo quanto la Presidenza della Repubblica si dicono convinti di essere nel giusto dell’interesse nazionale (ed internazionale) quando si schierano a favore del contrasto dell’invasione putiniana dell’Ucraina con una guerra per procura.

E’ la linea politica delle cosiddette “democrazie occidentali“, quelle che si esportano da sole a suon di guerre e bombe a grappolo, di uranio impoverito e di altri schifezze belliche che devastano i popoli, inquinano i terreni e le falde acquifere, cospargono i cieli di chimica di ogni tipo e rendono l’esistenza un vero inferno.

Questa uniformità di posizioni, seppure lievemente differibile nell’approccio adoperato da Meloni e da Mattarella sia internamente sia esternamente al Paese, nella sostanza approva il paradigma della risposta violenta, pur non escludendo – molto opportunamente – il ricorso alla mediazione dal gusto macroniano: non ora, perché le condizioni non la rendono fattibile.

Semmai in seguito. Ma queste circostanze favorevoli al dialogo, invece di divenire disponibili, appaiono sempre più lontane; e questo mentre Londra, attraverso i suoi servizi segreti, fa sapere che il conflitto è tutt’altro che in una fase calante.

I venti di guerra attorno a Taiwan si manifestano in tutta la loro prepotenza, la situazione in Africa degenera in colpi di Stato che ammorbano terre desertificate dal colonialismo novecentesco e mai recuperate ad un sano e civile rapporto egualitario e democratico tra i popoli, ed in Europa non si consolida nessun tentativo di mediazione tra le parti.

E questo per il semplicissimo, banale ed evidentissimo motivo per cui il Vecchio continente è, nei fatti ed anche abbastanza volontariamente, una dipendenza americana in fatto di propaggine imperialista, di espansionismo militare e, quindi, anche economico e finanziario.

Il fatto che le istituzioni della nostra Repubblica non si pongano in linea con la Costituzione ma, piuttosto, preferiscano un atteggiamento da conclamata realpolitik bismarkiana, la dice lunga sull’eterogenesi dei fini a cui indirettamente si richiamano coloro che auspicano, come contributo italiano alla crisi internazionale, il ruolo attivo nel conflitto allo scopo di non escludere lo Stivale dal consesso delle “nazioni civili” contro la tirannia dell’Est e contro le dittature in generale.

Nessuno, per carità, ha un piano risolutivo nell’immediato ma, è abbastanza lampante desumere che alimentando la guerra si ottiene sempre e soltanto la guerra. In particolar modo se non si fa nemmeno una dichiarazione che la metta in forse, che apra degli spiragli di dubbio e che, quindi, critichi apertamente la linea Stoltenberg – Biden (ma i sostenitori di questa posizione vanno ben oltre i confini sia europei, sia atlantici).

Dalla Presidenza della Repubblica era giusto attendendersi, nella tre giorni di tappe nei paesi del blocco di Visegrad, una distinguibilità da quelle politiche che Varsavia, Bratlisava e Budapest condividono col governo Meloni. Lo si poteva fare senza entrare nel merito dei rapporti di governo, richiamandosi ad un ruolo per l’appunto di pace del nostro Paese nel nome degli alti princìpi che ispirano (leggasi: “che dovebbero ispirare“) la nostra politica estera secondo il dettato costituzionale.

La delusione, almeno fino ad ora, è quindi molta ed è commisurabile – se si vuole – con una inversione di proprozionalità alla soddisfazione registrata dalle parti di Palazzo Chigi dopo il discorso de Presidente Mattarella a Varsavia.

Meloni e i ministri hanno avuto la prova che la terzietà del Quirinale qui si esprime nell’adesione alla linea internazionale dell’Occidente e che il Capo dello Stato, non intervenendo nel merito (sic!), lascia agli organismi preposti dello Stato, al Parlamento e alla Corte costituzionale, di valutare la legittimità sulle politiche migratorie. Anche in questo frangente, Mattarella invita l’Europa intera ad occuparsi della revisione del Trattato di Dublino, inserendo il problema epocale delle migrazioni in un ambito ben più ampio della sola Italia.

Ciò è ragionevole, e lo sarebbe ancora di più se il governo avesse in mente non una politica repressiva e respingente nei confronti dei migranti asiatici ed africani, mentre l’accoglienza dei profughi ucraini risponde ad un criterio umanitario tutto suo, favorevole ai venti elettorali e al buon nome dell’Italia.

Qui le strade del Quirinale e di Palazzo Chigi divergono, ma qui viene anche meno il potere persuasivo del Capo dello Stato, la sua capacità di influenza indiretta nei confronti delle manifeste intenzioni delle forze di governo e di maggioranza nel Parlamento. Il parlamentarismo non ci condanna a subire le bizze reazionarie dei partiti della destra estrema, omofoba, xenofoba e tutt’altro che patriottica e sociale.

E’ la distorsione (in)costituzionale della rappresentanza, attuata anche attraverso leggi elettorali perverse, ad allontanare i cittadini dalla politica e dalla considerazione che hanno per le istituzioni, dal sentimento di unicità che dovrebbero avere nei confronti della propria Repubblica. Perché non è la loro: non è quella che di chi si aspetterebbe dal Colle un messaggio di distensione e di pace, contro la guerra fatta da chiunque. Direttamente o per procura.

Questo messaggio non c’è e quella maggioranza di italiani che non disapprova l’invio di armi a Zelens’kyj, anche per questo, si sente più lontana dal Parlamento, dal governo, dal Quirinale. La democrazia ne soffre, la partecipazione anche. Il tutto mentre la crisi sociale si acuisce e miete tante, troppe vittime sul suo inesorabile cammino di povertà crescente, di futuro inesistente.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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