Pare che al momento dell’inabissamento del peschereccio che trasportava più di settecento migranti, data l’ora, molti di loro stessero dormendo. Per la maggior parte erano bambini. Tocca parlarne al passato perché quei cento, forse più, piccole donne e piccoli uomini finiti in fondo al mare non hanno più nessuna speranza. Di essere non solo ritrovati in vita, ma proprio di essere recuperati.

In quel punto del Mediterraneo i fondali toccano i quattromila metri. Impossibile scendere così tanto per poter restituire alle famiglie, all’incoscienza di una pubblica opinione che fa spallucce, all’ipocrisia e alla crudeltà manifesta dei governi e delle istituzioni nazionali ed europee un segno tangibile della tragedia: l’immagine della morte più drammatica, della sofferenza patita da tutte quelle giovani vite e da tutte e tutti gli altri.

Morti come i topi in una stiva: senza alcuna possibilità di via di fuga, senza poter avere un appiglio cui aggrapparsi e guardare, seppure da lontano, le coste della Grecia, un pezzo di quel Vecchio continente e di quella millenaria civiltà, culla della democrazia, del vivere civile, della condivisione di diritti e di doveri.

Quella corda lanciata dalla guardia costiera ellenica verso l’imbarcazione stracolma di urla, di ansia, di panico, di sudore, di corpi protesi troppo a poppa, non si sa se fosse una mano tesa o un modo per trainare il natante lontano dalla rotta verso il Peloponneso. Comunque sia, ciò che resta sono i fatti ferali, l’incommensurabile gravità di una strage per cui si battono il petto in molti, mentre alcuni deputati asseriscono: «Se fossero sbarcati avrebbero iniziato a rubare nei mercati di Atene».

E ormai poco conta, anche se è un piccolo segnale di empatia che non va trascurato, che il parlamentare sia stato espulso dal suo partito di governo, perché ci siamo abituati alla cattiveria gratuita, al cinismo dilagante, al disprezzo per le vite umane che il racconto quotidiano delle tragedie che punteggiano il globo a macchia di leopardo, ma che sono sempre di più e sempre più feroci,  è una costante narrativa che descrive la “normalità” degli eventi.

Crepare in mare per colpa delle tratte di esseri umani ad opera delle organizzazioni criminali, dagli Stati complici all’ultimo anello della catena che sono gli scafisti, è parte della cronaca dei tempi moderni. Lì dove il confine della civiltà si ferma davanti all’orrore dei conflitti interetnici, delle tribalità come dei più aspri confronti tra poteri che sono sostenuti dai grandi paesi che si vantano di essere e rappresentare i più grandi popoli della Storia.

Nessuna delle grandi potenze emergenti e riemergenti in questo nuovo millennio, dagli Stati Uniti d’America alla Cina, dalla Russia al conglomerato eterogeneo dell’Unione Europea, ha preso le distanze da un colonialismo di vecchia data.

Lo ha, piuttosto, attualizzato e adattato ad una modernità in cui si rispettano formalmente le indipendenze dei vari Stati, ma vi si intromette imperialisticamente nei processi economici, nel condizionamento minuzioso dei gangli principali dei processi di vita interni, per influenzarne le politiche estere e, in particolare, i rapporti con i propri vicini.

Africa e Medio Oriente sono le aree del pianeta in cui le guerre divampano con una facilità che è attribuibile soltanto ad una conclamatissima eterogenesi dei fini, altrimenti rintracciabile in una sovrapposizione o compenetrazione di eventi che raggiungono un equilibrio in accordi tra i più diversi, con scopi appunto lontanamente avvicendabile ma difficilmente equiparabili o simili.

Nella crisi globale, climatica, economica, persino sanitaria, in particolar modo sociale (e civile, umana…), capita di leggere le cronache più diverse su situazioni che non si immaginerebbe mai potessero verificarsi. Nella Russia di Putin, ad esempio, succede che pacifismo e bellicismo si incontrino nella critica al regime; in Egitto il militarismo repressivo del governo contrae gli spazi di libertà ed è sostenuto dai poteri forti, da una struttura economica cui appartengono i nuovi paperoni delle privatizzazioni.

Nello Yemen delle guerra civile, dove si fronteggiano Al Qaeda, governativi e altre frange ribelli Huthi, si insinuano gli interessi occidentali ed orientali per il controllo dell’area strategica che collega il Mar Rosso all’Oceano indiano. Un conflitto che dura da oltre trent’anni ha già prodotto milioni di rifugiati, di esseri umani privati di qualunque cosa, senza case, senza nessuna possibilità di trovare un luogo dove posare un piede e rimanervi al sicuro.

Ognuno di questi interessi particolari è, a suo modo, parte di un disegno molto più complesso che viene tracciato dalla competizione mondiale per un ristabilimento egemonico sul pianeta entro una economia che è, già di per sé, terroristica ed omicida.

La tragedia del fenomeno migratorio di massa, in questi termini, assume i connotati di una punta da iceberg, di una conseguenza inevitabile di altrettante problematiche che si intrecciano e che innescano dinamiche ginepraiche, impossibili da risolvere con accordi bilaterali, perché in ognuna di queste situazioni vi sono coinvolte molto di più di due nazioni che si guerreggiano direttamente o per procura.

Così, mentre il Mediterraneo accoglie impietosamente le vite di centinaia e centinaia di esseri umani, ospitandone l’ultimo viaggio tra le fredde profondità di acque imperscrutabili, sulla riva del mare, appena dopo il bagnasciuga, sulla terra ferma, là negli ospedali e negli obitori della Grecia si contemplano i sommersi e i salvati.

La grande ecatombe la biasimano in molti: presidenti e capi di governo, ministri, sottosegretari, istituzioni internazionali. Si dicono rattristati da quanto avvenuto e, allo stesso tempo, si rimpallano le responsabilità: per punto giuridico, di diritto, tutto legalmente parlando, con tanto di carte ufficiali, con intestazioni di questo o quell’ufficio istituzionale.

Ma i morti restano, i sopravvissuti anche. Gli inabissati chi li potrà mai contare uno ad uno. Ma chi è scampato alla morte può e deve raccontare. Perché abbiamo bisogno di sapere per filo e per segno come sono andate le cose: come e perché la corda della motovedetta greca è stata lanciata, prima assicurata alle cime e poi slegata, ributtata indietro. Dagli scafisti? Dai migranti? Per paura dei controlli? Per paura di essere trainati e spostati dalla rotta originaria (ammesso che ve ne fosse una)?

Oppure per timore che quella manovra facesse rovesciare la bagnarola, come del resto, peraltro, è avvenuto immediatamente dopo. Ciò che rimane in superficie e ciò che ora giace in fondo al mare sembrano mondi ormai separati, incongiungibili, intoccabili, quasi dicotomici. Morte e vita, invece, sono l’una la continuità dell’altra in un cortocircuito tra tensioni emotive, frustrazioni singole, respingimenti di massa, politiche di ostracizzazione e respingimento sotto l’egida della concordia europea.

Adesso si parla di “paesi terzi sicuri“, nemmeno più dei paesi di origine. Qualcuno può ritenere che sia una buona cosa, che si tratti quindi di un passo avanti rispetto agli infami finanziamenti delle guardie costiere che abbiamo elargito fino ad ora, affinché trattenessero nei loro lager di Stato migliaia di esseri umani in condizioni di schiavismo, di sottomissione, di stupro, di violenza sistematica. Di vera e propria segregazione criminale.

Tutte le interferenze che le grandi potenze inseriscono nelle società africane e mediorientali non sono mai finalizzate ad una stabilizzazione dei conflitti; semmai ottengono, e volutamente, l’effetto opposto: la destabilizzazione è l’arma migliore per dimostrare che c’è bisogno dell’intervento esterno, di chi porti ed “esporti” la democrazia, di chi arrivi con moneta sonante a comperarsi porzioni di territorio dove costruire infrastrutture per arricchire le compagnie internazionali che estraggono minerali, petrolio, che costruiscono gasdotti, che impoveriscono, quindi, sempre di più chi vive in loco.

La brutalità dell’intromissione finanziaria ed economica è la prima ragione di endemica povertà dei mondi da cui si fugge per disperazione, per sopravvivere altrove, con tutti i rischi che questo comporta. E se si superano le compravendite umane, i lager di Stato, la pietra tombale del mare messa lì dal cinismo interessato delle nazioni europee e di quelle che vi sono accanto, allora i migranti hanno un ultimo ostacolo da affrontare… Farsi largo in comunità dove il razzismo e la xenofobia sono largamente diffusi e incentivati dalle politiche dei loro governi.

Leggi, codici e trattati internazionali finiscono con il somigliare a vecchie carte messe sotto il vetro di espositori museali, privi di qualunque attinenza con una realtà che ignora, nel nome del potere, del profitto, dell’interesse esclusivo di ogni popolo contro altri popoli, le fondamenta di una empatia umana che trascende l’umano stesso e si eleva ben oltre la miserevole, ma impattante, politica liberista dei vari poli continentali.

Dopo quella di Lampedusa del 2013, questa di Pylos è la più grande strage di migranti che non solo la Grecia, ma l’Europa intera, forse pure il mondo, possa contemplare. E’ una vergogna dell’ipocrisia medesima. Una vergogna dentro la vergogna, perché tra qualche giorno torneremo, come è anche normale, a parlare d’altro, considerando ovvio che questo accada di tanto in tanto. Viste le premesse: fame, guerre, morte, miseria…

Questa mediocrità morale, questa abitudinarietà tutta umana alle tragedie giudicate “inevitabili“, fa parte di un coerente percorso esistenziale nel capitalismo ipermoderno.

Scostarsene vorrebbe dire prenderne coscienza e fare i conti con la propria. Ai governi, che dovrebbero essere una coscienza collettiva, una espressione di una volontà piuttosto ampia, possiamo chiedere di intervenire. Ma possiamo già scommetterci sopra una posta bella alta: interverranno solo nell’interesse particolare – nazionale e non entro una logica di vero mutuo soccorso. E negheranno ogni colpa se una nave affonderà.

In fondo, la colpa è dei migranti che partono. Tutt’al più degli scafisti che contrabbandano le vite di quegli ultimi della Terra… Mai può essere di chi governa. Mai può essere di chi depreda paesi e popoli per secoli senza curarsi delle conseguenze.

The show of power and liberalism must go on…

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e di profilazione. Cliccando su accetta si autorizzano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su rifiuta o la X si rifiutano tutti i cookie di profilazione. Cliccando su personalizza è possibile selezionare quali cookie di profilazione attivare.
Attenzione: alcune funzionalità di questa pagina potrebbero essere bloccate a seguito delle tue scelte privacy