Ipoi nemmeno tanto piccoli passi di un governo di destra verso una Costituzione di destra di una nuova Repubblica sempre più lontana dal suo carattere resistenziale, antifascista, social-liberal-democratico, si scorgono sul terreno accidentato di una crisi globale ogni giorno che passa. L’ultima, ma non certamente ultima, dell’esecutivo meloniano è quella dei test psicoattitudinali per accedere alle carriere da magistrato che saranno introdotti con i bandi che partiranno dal 2026.

In apparenza potrebbe sembrare persino un completamento delle verifiche fino ad oggi necessarie per poter entrare nel novero di una delle professioni più delicate al servizio della Repubblica, della Legge, del Diritto e, quindi, dell’interesse comune di tutte e tutti i cittadini nello stabilire la migliore interpretazione possibile delle norme caso per caso con terzietà ed imparzialità.

Ancora di più, sempre apparentemente, ci si potrebbe ingannare per il fatto che il governo dispone nel decreto legislativo approvato in Consiglio dei ministri, che sia l’organo supremo dei giudici, quindi il Consiglio Superiore della Magistratura, a nominare gli esperti in materie psicologiche che faranno parte delle commissioni apposite. Si tratterebbe di colloqui psicoattitudinali da tenersi dopo la prova orale e dopo una scritta.

Il test sarà sovrainteso dal presidente della commissione e uno psicologo presente avrà solamente una funzione di osservazione. Dalla prima bozza del famigerato decreto qui in oggetto è scomparso il coordinamento tra CSM e Ministero della Giustizia circa la stesura stessa dei test e, forse ancora più importante, è stata depennata e riformulata la normativa sulla nomina delle commissioni: da via Arenula a piazza dell’Indipendenza. Un passo indietro del governo.

Un piccolo, importante passo. Perché di per sé la decretazione che introduce questa novità per il cursus honorum dei magistrati che vogliono poter essere tali, ha come scopo principale quello che l’Associazione nazionale delle toghe ha presto e facilmente individuato: un impatto psicologico sì, ma sulla popolazione. Come a dire: l’affidabilità dei giudici non è sicura, quindi bisogna testarla ogni volta, perché la battaglia della destra contro l’indipendenza della magistratura si fa anche così.

La critica che viene dall’ANM è proprio questa: il governo cerca di indurre i cittadini a ritenere i magistrati affidabili soltanto se sottoposti ad un controllo che non sarà di tipo psichiatrico, ma psicoattitudinale. Qualcosa che, del resto, già esiste, visto che oggi prima di poter pienamente essere inscritto nelle facoltà giudicanti, i futuri giudici trascorrono un anno e mezzo in un tirocinio che è la prova sul campo della loro conformità al prezioso e delicato ruolo cui intendono uniformarsi.

Quella del governo, quindi, è una dimostrazione di forza nei confronti di un potere indipendente della Repubblica che, da sempre, la destra berlusconiana prima e post-berlusconiana poi ha mal tollerato nella lunga scia di conflitti di interessi che si sono rivelati durante il ventennio di spostamento sempre più a destra del Paese, su posizioni non veramente garantiste per tutte e per tutti, ma solamente per chi in quel momento esercitava le funzioni di amministrazione delle istituzioni.

Fu il Cavaliere nero di Arcore ad affermare, tanto tempo fa, agli albori della resistibile ascesa del suo movimento e del trittico di destra populista e nostalgica che aveva riunito sotto la sua protezione, che per fare il lavoro di magistrato o di pubblico ministero dovevi «essere mentalmente disturbato, avere delle turbe psichiche. Sono antropologicamente diversi dalla razza umana». Quella che era sembrata una moralmente bassissima iperbole, in realtà sintetizzava tutta l’avversione della nuova classe dirigente del Paese nei confronti dell’equipollenza dei poteri.

Governare e legiferare veniva reputato degno dei migliori uomini della nazione, di spiriti eccelsi che avevano dato prova delle loro qualità sul piano imprenditoriale, costruendo nuove città con tanti laghetti e parchi da mostrare in televisione come paradisi del futuro, mentre essere un magistrato inquirente e giudicante significava in sostanza nutrire chissà quale perversione interiore, inconfessabile, nascosta nel subconscio ed evidente soltanto al momento delle inchieste e dei processi.

La delegittimazione della magistratura non è, quindi, un’operazione che nasce oggi. Viene da lontano e pretende di andare lontano anche con una riforma della giustizia che si costruisce, passo dopo passo rinnovando vecchi rancori politici, riesumando il peggio dell’armamentario antilegalitario delle forze conservatrici, populiste e fintamente nazionaliste che vorrebbero dei tribunali compiacenti e non indipendenti.

Il tentativo di ieri, quello di gettare un’ombra sull’imparzialità della magistratura ordinaria, sulla capacità di essere per l’appunto giudicante come parte indipendente e terza rispetto a tutti gli altri poteri dello Stato, a tutte le altre funzioni della Repubblica, è, come nei primi anni ’90 del secolo scorso, tanto un elemento di distrazione di massa dai problemi reali dell’Italia nell’economia di guerra, quanto un tassello ulteriore del puzzle di modificazione della sovrastruttura costituzionale.

Invece di promuovere una riforma della giustizia che semplifichi utilmente il lungo calvario burocratico di centinaia di migliaia di procedimenti penali che si trascinano per anni e anni e che costano ai contendenti (ed allo Stato) non pochi soldi, il governo riprende la vecchia lotta contro pubblici ministeri e giudici che Berlusconi non era riuscito a mettere in pratica e che oggi, con la forza dei numeri e con il vento ancora a favore (lo si vedrà soprattutto con le elezioni europee di giugno), può ritenere ringalluzzibile.

Andando oltre al delega avuta dal Parlamento, l’esecutivo aggiunge questa decretazione sui test psicoattitudinali senza che vi sia una necessità dettata da una urgenza, quindi senza una motivazione esplicita se non quella di circoscrivere la credibilità dei giudici nell’immaginario popolare che, come è abbastanza evidente, è largamente influenzabile dalle argomentazioni sullo strapotere magistratuale, sul fallimento delle sentenze, sulle accuse ingiuste, sull’eccessiva viscosità normativa.

C’è un altro messaggio che viene veicolato da questo attacco ai giudici ordinari: è l’idea che lo Stato debba essere, nella sua funzione amministrativa, meno presente possibile e che, quindi, la funzione della burocrazia debba progressivamente essere ridimensionata perché complicherebbe la vita dei cittadini. Non vi è dubbio che sia anche così, e chiunque di noi lo può constatare anche nell’ambito delle cause civili e penali, nonché in tante operazioni fiscali che deve compiere per accedere a servizi a volte essenzialissimi.

Ma l’aspetto burocratico che la maggioranza intende colpire è quello del controllo da parte degli organi preposti al funzionamento di quelle complesse regole che determinano un livello sufficiente di uguaglianza per tutta la popolazione. Almeno, se non sul piano della sostanzialità, su quello della formalità: ossia sul fatto che un diritto è tale se viene riconosciuto a tutti e se lo Stato per primo esercita il dovere di riconoscerlo (e non di concederlo) proprio grazie ad una rete di garanzie che non è inutile.

C’è, dunque una burocrazia buona che è formata da queste regole, e c’è una burocrazia cattiva che è data più che altro dalla sovrapposizione di norme pleonastiche a cui non si pone rimedio eliminandole e semplificando senza per questo far venire meno il livello di eguaglianza di accesso ai diritti per chiunque. Contribuire a ricreare l’idea che non ci si possa poi fidare del tutto dei magistrati, quasi a prescindere, preventivamente, quindi con un pregiudizio che si antepone al giudizio, è lo scopo di una destra che non ha mai chiuso la sua partita con il potere giudiziario.

La comprensibilità di questo atteggiamento governativo si situa perfettamente nell’ambito della controriforma costituzionale che pretenderebbe di sovvertire la Repubblica parlamentare, spostando il baricentro delle istituzioni dalle Camere a Palazzo Chigi, ridimensionando i poteri del Quirinale e, in un pasticcio veramente esorbitante e inquietante, rendendo l’unità nazionale in fatto di diritti sociali e civili un ricordo del passato mediante l’applicazione dell’autonomia differenziata.

Se si sommano tutti questi elementi, si inizia a vedere chiaramente il progetto di trasmutazione dell’Italia rinata con la Resistenza e della Repubblica sorta con la Costituente del 1946-48: mettere da parte tutte quelle tutele, anche giuridiche, che non permettono la legalizzazione sistemica dei privilegi, che continuano – pur in una serie di evidentissime contraddizioni strutturali – a non consentire che vi siano livelli diversi nello sviluppo complessivo del cittadino come persona, come essere umano.

La maggioranza meloniana disegna così una serie punti fermi su cui si esige di non transigere. Per i magistrati questi paletti dovrebbero riguardare soltanto il rispetto della Legge. La Costituzione dispone che non debbano rispondere del loro operato se non nei termini previsti dal diritto italiano. La psicoattitudinalità che Palazzo Chigi pretende di introdurre è tanto pleonastica quanto infida: non ci dice nulla di più sulle piene capacità dei PM e dei giudici rispetto a quello che oggi ci dicono gli esami e i tirocini.

E’ soltanto un pretesto per creare un presupposto antipatico tra la popolazione e la magistratura, tratteggiandola fisiognomicamente con le sembianze di una pseudo-infermità mentale che, chissà perché (ma il perché si sa…), dovrebbe essere riscontrata solo in coloro che aspirano a diventare procuratori degli interessi della Repubblica (e quindi di tutte e tutti noi) o magistrati giudicanti.

Sbaglieremmo, e di tanto, se considerassimo questo atto del governo, questo vero e proprio blitz aggiuntivo di una norma come un episodio decontestualizzabile dal resto delle politiche di riforma amministrativo-istituzionale e (in)costituzionale che questa maggioranza si prefigge di portare a termine. Dobbiamo essere in grado di leggere molto più nel profondo e dietro alle righe, tralasciando polemiche sterili.

Guardando nella sua interezza il progetto destabilizzante delle destre nei confronti del parlamentarismo, dell’uguaglianza dei diritti costituzionali e delle libertà repubblicane da nord a sud del Paese. Stando quindi bene attenti a non sottovalutare niente. Proprio niente. Perché ogni mossa del governo Meloni si prefigge di rendere effettiva una mutazione genetica della Repubblica e, quindi, dei rapporti tanto sociali quanto civili ed umani per come, seppure con tante storture, li abbiamo conosciuti fino ad oggi.

MARCO SFERINI

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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