Genova 2001. In molti trovano coraggiose le parole di Gabrielli, quasi nessuno riesce l’insidia delle sue parole. Nell’anniversario dell’omicidio di Carlo si torna in Piazza Alimonda

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Genova 20 luglio, sedici anni fa un carabiniere sparava e uccideva Carlo Giuliani al termine di ore di scontri determinati dalle cariche illegittime dei carabinieri contro un corteo regolarmente autorizzato. Il reparto era comandato da ufficiali esperti di teatri della guerra globale e il carabiniere che si accusò dell’omicidio non avrebbe mai avuto un processo. Carlo Giuliani, come risulta da una mole di materiali filmati, raccolse un estintore da terra solo quando si accorse che aveva un revolver puntato contro. Impugnato da un carabiniere che gridava che avrebbe ammazzato tutti i maledetti comunisti. Così si raccontò all’epoca. Però un giudice stabilì che era l’uomo con la pistola a essersi difeso e non il ragazzo di minuta corporatura che era stato ucciso. Nemmeno ebbe da dire la procura sugli evidenti tentativi di depistaggio (abusando del corpo di Carlo e manomettendo la scena del crimine) per mettere in scena una morte per colpa di un sasso. Anzi, verrà inventata una teoria del masso vagante che avrebbe deviato un colpo sparato in aria. Nel giorno della memoria vale la pena ricordare l’enorme lavoro di video-inchiesta di Giuliano Giuliani

L’omicidio di Carlo, le violenze di strada da parte di sciami di militari, secondini, finanzieri, forestali e agenti, la decisione di impedire l’identificazione dei responsabili, la mancata inchiesta parlamentare: tutto resta in ombra sedici anni dopo grazie a un’operazione di Repubblica che potremmo titolare “Fai scrivere alla polizia la storia del G8″.

Dopo Gabrielli tocca a Scajola, ministro degli interni di Berlusconi, l’onore di rendere la sua versione dei fatti: «La mattina successiva alla fine del G8 di Genova, il capo della polizia Gianni De Gennaro venne da me e mi presentò le sue dimissioni. Io le rifiutai, convinto, allora come oggi, che in quei momenti, assai delicati per la tenuta del Paese, le dimissioni del capo della polizia sarebbero state destabilizzanti per le istituzioni».

Ma sono le reazioni a sinistra le più sconcertanti: «Gabrielli è coraggioso», dice Luca Casarini, ex tuta bianca, ex disobbediente e sedici anni dopo segretario di Si in Sicilia. «Un’ottima intervista (quella di Gabrielli)», dice Giuliano Pisapia, ex sindaco di Milano, promotore del Campo progressista e sedici anni prima legale della famiglia Giuliani. Fratoianni, ex giovane comunista disobbediente e leader di Si mescola le parole di entrambi: «intervista coraggiosa». Sfugge a tutti e tre la rivendicazione del 25 marzo da parte di Gabrielli Franco, capo supremo della polizia che da quarantottore partecipa alla clamorosa operazione di Repubblica.

Vale la pena riprendere un passaggio dell’intervista del capo del Viminale a Bonini: «Guardiamo cosa è accaduto ad Amburgo. E guardiamo cosa invece è accaduto a Roma, in occasione dei 60 anni della firma dei trattati di Roma, e a Taormina con il G7. Il nostro sistema di prevenzione e sicurezza è oggi quello che conosciamo anche perché c’è stata Genova. E da lì è cominciata la nostra traversata nel deserto. Oggi, il nostro baricentro è spostato sulla prevenzione prima che sulla repressione. Sul prima, piuttosto che sul poi. Lavoriamo perché le cose non accadano. O quantomeno per ridurre la possibilità che accadano». Traduzione: invece dei “pattuglioni” poi, meglio limitare prima e a priori la libertà di movimento, dare fogli di via, obblighi di dimora, daspo, sradicare le persone dai propri contesti di vita e di lotta. E’ la dottrina Minniti, nipote di Pecchioli, figlio di D’Alema, ministro di polizia con Renzi. «Non abbiamo bisogno di una ‘memoria condivisa’ – avverte invece Lorenzo Guadagnucci, vittima della Diaz e fondatore del comitato Verità e giustizia per Genova – abbiamo bisogno di un’assunzione piena di responsabilità e di azioni conseguenti. Su questo, Gabrielli è molto lontano dall’essere conseguente. Mi sembra più intenzionato a captare la benevolenza dell’opinione pubblica piuttosto che affrontare le vere questioni». Guadagnucci ha risposto a un’intervista pubblicata su Altreconomia.

Infatti, oltre a chiudere l’era De Gennaro (una faccenda di regolamenti di conti interni alle catene di comando, supponiamo), spicca il ruolo politico, una sorta di investitura per Gabrielli dopo le prove generali nella stagione di commissario post-sisma a L’Aquila e di prefetto di Roma per traghettare la Giunta Marino fuori dalle secche di mafia capitale.

Perché da sedici anni siamo ancora nel passaggio dallo «stato sociale minimo allo stato penale massimo», spiega Italo Di Sabato dell’Osservatorio repressione che è tornato a Genova per presentare l’idea di una rete europea per il diritto di dissenso che ha preso corpo in una due giorni a Bruxelles a fine giugno.

Esiste infatti una dimensione europea dei dispositivi autoritari: ley mordaza nello stato spagnolo, etat d’urgence in Francia, decreti Minniti-Orlando in Italia. E poi i muri e gli abusi fuori legge. Durante le proteste contro la legge al Khomri, il jobs act alla francese, i gendarmi si toglievano il codice alfanumerico dalla giubba per non incappare in qualche telecamera. In Italia nemmeno esiste una misura così elementare di garanzia per tutti. Sull’altra sponda dello Ionio, il governo Tsipras sta lavorando a una legge sulla censura mentre Macron, idolo dei “democratici” europeisti, si appresta a introdurre in Costituzione le controverse norme dello stato d’emergenza.

Ovunque le norme introdotte per contrastare il terrorismo o per garantire il decoro si rivoltano contro i movimenti sociali e il dissenso come dimostra la cascata di misure preventive che s’è abbattuta, grazie ai decreti Minniti, su militanti e sindacalisti alla vigilia di ogni tappa del G7. Subito dopo è iniziato il pressing di governo e giornali amici per limitare ulteriormente il diritto di sciopero.

Nella Fortezza Europa esiste un problema di libertà di movimento e di legittimità del dissenso. La possibilità stessa di inceppare i meccanismi del liberismo da parte dei movimenti sociali viene rimessa ogni giorno in discussione con un bilancio sociale pesantissimo.

Siamo nell’epoca del diritto penale del nemico e prende piede una nuova economia della pena e  della sicurezza di cui la militarizzazione stile Valsusa, Taormina o Amburgo è solo il pezzo più visibile: meno carcerazioni, più misure preventive, fogli di via, daspo, obblighi di dimora, sgomberi, decreti penali, pene pecuniarie. Una costituzione materiale fondata sull’emergenza che si sovrappone alla costituzione formale anche quando, com’è successo il 4 dicembre, non riesce a cancellare le norme garantiste, gli impianti del diritto nato dalle resistenze e dalle lotte sociali.

Dallo stato sociale minimo c’è un passaggio brusco allo stato penale massimo. Su tutto una sovrapposizione dell’astrazione della legalità sull’idea stessa di legittimità. L’emergenza sicurezza è quella che vivono milioni di poveri, di lavoratori, disoccupati ma la fabbrica della paura riesce a dirottare l’attenzione sulla miriade di conflitti orizzontali o sulle guerre fra poveri.

Decine di migliaia di persone sono sotto processo per reati connessi all’esercizio del diritto di manifestare. Un salto di qualità, quello dei decreti Minniti Orlando che piombano su un tessuto sociale frammentato, degradato nei legami sociali, impaurito, reso passivo.

Italo Di Sabato parla tra le mura del circolo Arci 30 giugno, un casale del quattrocento dove prendono vita pratiche di mutualismo e antifascismo. Proprio per antifascismo, alcuni attivisti genovesi hanno subìto un tentativo di daspo urbano annullato solo dopo un costoso ricorso. Alcuni di loro erano a Bruxelles e hanno voluto riprodurre il lavoro di costruzione di una rete europea proprio nei giorni dell’anniversario del luglio genovese.

In cantiere ci sono proposte come quella di un’osservatorio europeo che potrebbe produrre un libro bianco e l’idea di pratiche realmente comunicative e capaci di condivisione, rivendicazione, solidarietà. Perché se è reale la connessione tra repressione e liberismo, dovrà esserci collegamento tra lotte sociali e battaglie di libertà e liberazione. Una piattaforma che pretenda una legge realmente contro la tortura, l’identificazione degli agenti con un codice alfanumerico, l’abolizione dei decreti Minniti-Orlando, del Codice Rocco e della legge Reale deve diventare parte integrante di ogni programma politico e sindacale che si proponga di disarticolare i meccanismi del neoliberismo.

 

http://popoffquotidiano.it/2017/07/20/genova-2001-una-storia-che-non-dovrebbe-scrivere-il-capo-della-polizia/

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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