di Ken Jones

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Non mi sono recato a Cuba per fare il turista. Ci sono andato per partecipare alla resistenza alla lunga guerra statunitense contro Cuba. Non illuso dalle nuove tattiche di cambiamento di regime di Obama e pungolato dall’irritante retorica di Trump, mi sono sentito obbligato il mese scorso a unirmi alla Carovana di Amicizia dei Pastori per la Pace, proprio come avevo fatto dieci anni fa. Questa volta, come allora, sono rimasto colpito dai molti successi della Rivoluzione Cubana, nonostante gli ininterrotti tentativi statunitensi di minare e rovesciare il suo governo.

Ultimamente le cose tra i due paesi non sono davvero andate molto meglio. Anche se Obama ha stabilito un nuovo tono e fatto alcuni passi verso la cosiddetta “normalizzazione”, quello che non ha fatto, né poteva fare, è stato eliminare l’embargo. Di natura commerciale, economica e finanziaria, questo atto di guerra, avviato negli anni ’60, è tuttora in gran parte in vigore e continua a infliggere danni indicibili alla gente comune di Cuba. Cancellare questo embargo è una condizione sine qua non per qualsiasi tentativo onesto di normalizzazione.

Parte dell’embargo è un insieme di restrizioni ai viaggi dei cittadini statunitensi, che prescrive che le persone e le organizzazioni richiedano, e sia loro concesso, un permesso del governo al fine di recarsi a Cuba.

Ormai da 25 anni i Pastori per la Pace violano deliberatamente l’embargo, in atti annuali di disobbedienza civili, rifiutandosi di presentare domanda per il permesso di viaggio e portando sia persone sia assistenza materiale alla gente di Cuba. Non è fatto di nascosto, bensì pubblicamente perché tutti vedano, per pubblicizzare la disumanità dell’embargo. E, devo dire, è fatto con cuore e gioia, non con qualche cupo senso di inquietudine per la violazione della legge. Come soleva dire il reverendo Lucius Walker, fondatore dei Pastori per la Pace, questi sono viaggi pastorali intesi a esprimere manifestare amore e solidarietà ai nostri vicini cubani.

Con in mente questo proposito, e prima di mettere piede a Cuba, ero già nello stato mentale di abbracciare come fratelli e sorelle i cubani che avrei incontrato e di essere aperto ad ascoltare le loro verità riguardo alle loro vite, al loro governo e alle loro prospettive riguardo al mondo in cui tutti viviamo. Ho smesso tanto tempo fa di credere alla demonizzazione di Fidel Castro e della rivoluzione da lui condotta con successo contro il corrotto regime di Batista. E ho ben compreso i mali del nostro rampante sistema capitalista e la coraggiosa lotta a Cuba e altrove per creare un’alternativa socialista più umana.

Nel mio precedente viaggio avevo visto l’eccellente e gratuita assistenza sanitaria e istruzione per tutti, nessun senzatetto, niente fame, un forte sostegno alle arti, orti comunitari e un mucchio di passaggi in auto. Ho anche appreso, e l’ho visitato, del più formidabile dono del governo cubano, la Scuola Latinoamericana di Medicina (ELAM nell’acronimo spagnolo) che offre un’istruzione medica assolutamente gratuita a studenti di tutto il mondo alla sola condizione che dopo la laurea, quando diventano dottori, devono tornare nei loro paesi e servire i poveri. E questo da un paese povero!

In questo viaggio più recente ho avuto una visione più da vicino, quando abbiamo visitato organizzazioni e imprese di base in forte contrasto con le realtà degli Stati Uniti. Ad esempio:

  • un centro diurno per gli anziani (dove ai residenti è offerta eccellente assistenza medica gratuita, sono fatti partecipare a ogni sorta di attività animate e si godono visibilmente la vita insieme. Hanno suonato per noi, recitato commedie e ci hanno fatto ballare con loro!);
  • una casa per “bambini senza sostegno familiare”, come chiamano queste piccole case di quartiere per quelli che noi chiameremmo orfani (dove adulti e bambini sono stati con noi in un salotto come se fossero una vera famiglia, parlando di andare a scuola, del programma quotidiano dei pasti, delle pulizie, di compiti per casa, giochi, uscire per appuntamenti per gli adolescenti, eccetera. C’era vero affetto tra loro, in forte contrasto con le nostre istituzioni impersonali);
  • un laboratorio di biotecnologia (dove hanno prodotto vaccini e farmaci per controllare diabete, meningite, cancro alla prostata, epatite B, cancro alla pelle, cancro ai polmoni e altro. Hanno sviluppato farmaci di cui beneficeremmo negli Stati Uniti se fosse cancellato l’embargo);
  • una cooperativa agricola gestita da donne (si sono molte cooperative agricole volontarie e gestite democraticamente a Cuba che organizzano e offrono sostegno ai contadini nella produzione di raccolti e nell’accudimento del bestiame, strumenti, credito, assicurazione e via dicendo);
  • una fabbrica di elettrodomestici di proprietà governativa (dove il sindacato ha avuto un forte ruolo nel garantire condizioni di lavoro eque);
  • una comunità montana con radici indigene che stava sviluppando un’economia locale sostenibile di coltivazione del caffè e turismo (sostenuta da assegnazioni governative);
  • un teatro comunitario diretto da un acclamato produttore/regista argentino (comprendente nel repertorio pezzi teatrali concentrati sulla critica sociale e politica);
  • una farmacia aperta ventiquattr’ore su ventiquattro in un piccolo villaggio montano (che comprendeva farmaci omeopatici, naturali e tradizionali);
  • una clinica di base nello stesso villaggio (dove i medici vivevano localmente e avevano il sostegno di infermiere e assistenti e di specialisti e chirurghi ospiti; la clinica, come cliniche locali onnipresenti in tutta Cuba offriva una varietà di cure, dall’assistenza d’emergenza a vaccinazioni, test di laboratorio, raggi X, ultrasuoni, odontoiatria, servizi dietetici, servizi di riabilitazione, psicologia; conducevano visite a domicilio ed erano intenti a evitare che le persone dovessero recarsi nell’ospedale di una cittadina vicina).

Abbiamo anche avuto l’occasione di ascoltare:

  • cinque sopravvissuti della brigata di Che Guevara durante la rivoluzione (un uomo ha raccontato la storia di come il Che imponeva la disciplina prescrivendo ai soldati cinque giorni di digiuno quando infrangevano le regole. Lo stesso Che digiunava per cinque giorni quando commetteva un’infrazione. Una delle infrazioni era che a nessun era permesso di adulare il Che. Una volta, quando il Che aveva in corso uno dei suoi digiuni, il suo cuoco lo supplicò di smettere di digiunare perché lo rendeva debole e i suoi soldati avevano bisogno che fosse forte per poterli ispirare e guidare. Il Che accettò e interruppe il suo digiuno ma assegnò cinque giorni di digiuno al suo cuoco per averlo adulato. L’uomo che ci raccontò questa storia rise fragorosamente, dicendo che il Che aveva un grande senso dell’umorismo e i suoi soldati lo amavano);
  • un gruppo ecumenico di ecclesiastici che ci hanno incontrato in una moschea (comprendeva un rabbino, un imam e una varietà di ministri cristiani);
  • un’università dove un gruppo di docenti e di personale hanno condiviso con noi i loro progetti sociali (studenti conducono ricerche in comunità locali e contribuiscono ai loro sforzi in aree quali ingegneria, edilizia, allevamento, istruzione, eccetera);
  • un gruppo sulla storia della discriminazione razziale – e il progresso – prima e dopo la rivoluzione (hanno ancora problemi derivanti dal razzismo, ma non sono approvati o permessi dal governo e non sono istituzionalizzati).

Su un tono più riflessivo, abbiamo visitato un museo che commemorava le continue morti e danni inflitti dagli Stati Uniti a Cuba dalla rivoluzione in poi (3.478 morti, 637 tentativi di assassinio contro Fidel, 11 attentati a strutture turistiche da parte della CIA, 21 attacchi aerei della CIA in appoggio a bande armate in lotta contro il governo cubano; 300.000 tonnellate di canna da zucchero distrutte da incendi dolosi dal solo settembre 1960 all’aprile 1961, 581 attacchi terroristici contro missioni e personale cubani di stanza all’estero; la lista prosegue a lungo).

Abbiamo incontrato solo una volta un dirigente governativo, un diplomatico del ministero degli affari esteri. Dopo aver detto che la recente iniziativa di Obama era un passo in avanti e la politica di Trump un passo indietro e aver riconosciuto vari problemi cui i due paesi stanno collaborando, ha ripetuto le richieste cubane per una piena normalizzazione:

  1. L’embargo deve essere totalmente revocato;
  2. Deve essere posta fine ai finanziamenti NED e USAID ai cosiddetti programmi di “promozione della democrazia” che sono mirati a sovvertire l’ordine costituzionale di Cuba;
  3. Guantánamo deve essere restituita a Cuba e la base militare deve essere sciolta;
  4. Le norme sull’immigrazione devono essere modificate di mutuo accordo, compresa la prosecuzione della fine della politica del ‘piede bagnato/piede asciutto’ [rimpatrio di migranti cubani recuperati in mare/concessione della residenza a quelli che approdano negli Stati Uniti – n.d.t.] e la revoca delle leggi Cuba Adjustment e Helms-Burton [rispettivamente, legge sull’immigrazione cubana negli USA e sull’embargo a imprese e interessi cubani negli Stati Uniti – n.d.t.];
  5. Devono essere versati risarcimenti. Gli Stati Uniti affermano di avere rivendicazioni per proprietà nazionalizzate dalla rivoluzione per un importo di 8 miliardi di dollari; Cuba ritiene ciò legale in base alla legge internazionale. Ma Cuba rivendica più di 100 miliardi di dollari in conseguenza dei più di cinquant’anni di embargo e dei danni inflitti dai tentativi di rovesciare il governo cubano appoggiati dagli Stati Uniti.

Riguardo all’atteggiamento del presidente Trump nei confronti di Cuba, il diplomatico si è limitato a dire che ciò cui stiamo assistendo da parte degli Stati Uniti è purtroppo un ritorno alla Guerra Fredda. Ha anche detto che la politica cubana di Trump influenzerà indubbiamente anche le relazioni degli Stati Uniti con il resto dell’America Latina. Una cosa che ha chiarito è stata che in nessuna circostanza i temi interni di Cuba faranno parte di negoziati con gli Stati Uniti. Cuba non accetterà di cambiare il suo modello economico né la procedura elettorale (sì, ci sono elezioni, dal basso in su, che funzionano come una specie di sistema parlamentare). Né privatizzerà mai servizi essenziali, in modo particolare il sistema dell’assistenza sanitaria.

Il diplomatico ha concluso i suoi commenti al nostro gruppo prevalentemente di statunitensi affermando: “Noi non siamo antistatunitensi, siamo anti-imperialisti”.

In tanti modi dovremmo imparare da Cuba. Naturalmente il suo governo, che oggi ha solo 58 anni, sta ancora lottando con molti problemi. E’ nella morsa dello sviluppo di un’economia mista in cui l’impresa privata e gli investimenti di capitale straniero si fondano nel processo di pianificazione centrale. Il governo è consapevole di vari problemi sociali, e vi lavora, compresi i rapporti razziali e l’equità di genere. E, come sempre, sta lottando per la sua prosperità economica, per migliorare il benessere materiale di tutto il popolo, non solo di una piccola percentuale. La grande sfida consiste nel superare l’embargo statunitense, che impedisce anche ad altri paesi di commerciare o concludere accordi finanziari con Cuba.

Cuba è oggi in pericolo che il capitalismo sommerga le sue basi socialiste? E’ una possibilità di cui i cubani sembrano consapevoli. Ci sono molti giovani a Cuba per i quali la rivoluzione è storia e che vogliono semplicemente una maggiore prosperità materiale. Ho incontrato numerosi giovani brillanti, energici, creativi che sono ansiosi di godere delle cose che, da statunitense di classe media, do per scontate: cibo abbondante e buono, trasporti efficienti, facile accesso a Internet, la prospettiva di un miglioramento della vita.

Il turismo internazionale abbonda in quest’isola tropicale magnifica e deliziosa; il nostro paese è il solo che impedisce ai propri cittadini di recarvisi. Così molti giovani cubani socializzano con quelli di paesi capitalisti più prosperi. E ciò crea tensione nell’accrescere aspettative che minacciano di destabilizzare una società impegnata all’equità sociale. La speranza è che i giovani cubani saranno in grado di vedere i pericoli e i fallimenti del capitalismo nel momento stesso in cui ne vedono la ricchezza.

E questo è il problema dal quale dipende il futuro di Cuba. La prossima generazione di cubani vedrà ciò che ha, rispetto alle aspre realtà del capitalismo negli Stati Uniti: estrema disparità di ricchezza, assenza di bisogni elementari per così tanti loro cittadini, gli odi razziali e religiosi, l’incarcerazione di massa, il controllo industriale dei media e del governo, le infinite guerre all’estero e la polizia militarizzata in patria?

Molte volte quelli di noi degli Stati Uniti tendono a dimenticare i mali del nostro paese quando guardiamo ai problemi della società cubana. Dieci anni fa chiesi al nostro interprete cubano dell’epoca come rispondesse alla domanda così spesso posta riguardo alla presunta mancanza di libertà di espressione o di stampa a Cuba. Ha sospirato e mi ha guardato come se fosse stanchissimo di sentire quella domanda. Disse: “Voi statunitensi criticate il modo in cui respiriamo, quando voi avete le mani strette alla gola”.

E’ vero. Gli Stati Uniti hanno strangolato Cuba sin da quando Fidel e i suoi compagni ci cacciarono. E tuttavia i cubani non sono rimasti soffocati, né incattiviti. Le persone che ho incontrato sono state calorose e generose e non ce l’hanno avuta con me perché venivo dal paese che è stato così ostile con loro. Siamo stati bene insieme.

E, forse bizzarramente per alcuni, a Cuba mi sono sentito libero. Libero dall’alienazione che avverto costantemente nel mezzo della cultura dominante negli Stati Uniti. Libero dall’indignazione che provo per le guerre imperiali e razziste condotte in mio nome, sia in patria sia in tutto il globo. Libero dalla persistente realtà della mia stessa complicità nell’essere uno dei privilegiati in una terra di forte disuguaglianza e ingiustizia.

Cuba non è un regime e non ha bisogno che noi la cambiamo. Sono gli Stati Uniti a essere un regime e potrebbero utilizzare un po’ di aiuto da Cuba che ci aiuti a cambiare. Perché non possiamo superare quel senso di superiorità che è stato incassato nelle nostre menti e renderci conto che in realtà stiamo peggio di altri nel mondo, nonostante la nostra relativa ricchezza materiale? Perché non possiamo guardare ai nostri fratelli e sorelle a novanta miglia di distanza perché ci aiutino a salvarci – e a salvare il mondo – dalle crescenti malignità del capitalismo, del militarismo e del razzismo? Capisco che questa è una proposta dubbia, che noi si possa passare attraverso una simile rivoluzione del nostro modo di pensare negli Stati Uniti.

Al minimo, tuttavia, aspetto il giorno in cui le richieste cubane di una vera normalizzazione siano soddisfatte, quando gli Stati Uniti saranno in grado di rispettare la sovranità di Cuba e quando non dovrò più commettere un atto di disobbedienza civile per recarmi in quel paese per una boccata di aria fresca.

Ken Jone è un professore in pensione di formazione degli insegnanti che vive presso Asheville, NC. Può essere contattato all’indirizzo kwjj1949@gmail.com.

Da Znetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/visiting-cuba-as-an-act-of-civil-disobedience/

traduzione di Giuseppe Volpe

Traduzione © 2017 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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