Poche cose, nel mondo di oggi, ci accomunano e fanno parte della vita di tutti come i social network. L’uso che ne facciamo è un abuso: il mondo virtuale ha ormai assorbito quello reale, per alcune persone la rete di contatti social è più importante di quella reale, ed è ormai da tempo che psicologi e studiosi ci suonano dei campanelli di allarme. Non che ce ne curiamo più di tanto, alla fine il break in ufficio, alle poste, in casa, o al ristorante per scorrere le notifiche dello smartphone, ce lo prendiamo sempre e comunque; anche se abbiamo controllato la bacheca di Facebook non più di 3 minuti fa.

La questione non è però da prendere troppo sotto gamba se anche Sean Parker, fondatore del servizio di streaming musicale Napster e stretto collaboratore di Mark Zuckerberg, tanto che ha anche ricoperto il ruolo di presidente di Facebook, nei primi anni di vita della società con sede a Menlo Park, ha candidamente ammesso di non apprezzare più molto le piattaforme sociali. Parker si è definito un “obiettore di coscienza” dei social network in quanto, a suo dire, Facebook e i suoi simili approfitterebbero della vulnerabilità della psiche umana innescando un meccanismo che, secondo quanto ci hanno comunicato anche alcuni recenti studi, agisce come una droga. I social infatti liberano nel cervello umano dopamine, ovvero stimoli che ci gratificano e ci fanno provare sensazioni che vogliamo ripetere. Un simile effetto lo producono la nicotina e la cocaina, per dire. I like ricevuti, i commenti e le altre reazioni inserite nei social per mostrare apprezzamento alle nostre attività ci rendono felice e ad un commento, rispondiamo con un altro commento, originando un circolo vizioso difficilmente interrompibile, soprattutto dal momento che non vogliamo interromperlo, perché vedere che qualcuno ci sta dando attenzioni online ci fa, appunto, un gran piacere. Questo “loop di validazione sociale” per utilizzare di nuovo le parole di Parker, sfrutta una piega della nostra mente, una sua vulnerabilità ormai perennemente esposta quando fissiamo gli occhi sullo schermo del telefono o del pc.

Similmente si era espresso. Non troppo tempo fa, Evan Williams, uno dei fondatori di Twitter , il quale era stato anche più drastico di Parker, indicando come, a suo avviso, Internet si sarebbe rotto, incamminandosi su un percorso buio, una strada potenzialmente senza ritorno da quando si sono cominciate a condividere immagini di suicidi, pestaggi ed assassinii.

In un seminario universitario tenuto a Roma anche Jerry Kaplan, pioniere della scienza informatica, si sarebbe schierato in questa squadra, confessando di odiare i social, considerandoli una distrazione dalla vita.

Sono voci importanti, in quanto provenienti da “addetti ai lavori”, che dovrebbero quantomeno farci riflettere sulla nostra dipendenza, perché tale è, da social.

La libertà di parlare liberamente con tutti, in ogni parte del mondo; la praticità di essere perennemente in comunicazione e la possibilità di esprimere le proprie opinioni senza alcuna remora e farle subito conoscere a tutti erano le pietre angolari dell’esistenza social. La casa che vi abbiamo edificato sopra è però storta, ha deviato da queste fondamenta trasformando lo strumento social, nato come contenitore di immagini e pensieri, in contenitore della nostra vita in toto, una gabbia vera e propria.

Abbiamo comunque noi le chiavi di questa gabbia in quanto gestori del nostro tempo e dobbiamo prenderne coscienza, altrimenti le sue sbarre si faranno sempre più opprimenti.

Di Mattia Mezzetti

Mattia Mezzetti. Nato nel 1991 a Fano, scrive per capire e far capire cosa avviene nel mondo. Crede che l’attualità vada letta con un punto di vista oggettivo, estraneo alle logiche partitiche o di categoria che stanno avvelenando la società di oggi. Convinto che l’unica informazione valida sia un’informazione libera, ha aperto un blog per diffonderla chiamato semplicemente Il Blog: http://ilblogmm.blogspot.it.

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