Una leggenda ben radicata nella politica italiana è che il Pci fosse una sorta di chiesa, in cui le decisioni venivano assunte alle Botteghe oscure e da qui, attraverso una ben oliata catena di comando, giungevano fino alle più periferiche sezioni della penisola, dove i compagni si limitavano a ratificare, magari neppure capendole, scelte prese in un’altra sede e poi le sostenevano con ottusa testardaggine. Peraltro questa storia non era diffusa solo dagli avversari, ma è stata successivamente alimentata anche da persone che in quel partito avevano militato.
Non è proprio così. Prendiamo una delle scelte politicamente più rilevanti degli anni Settanta, una delle più foriere di conseguenze, ossia quello che è storicamente conosciuto come compromesso storico, anche se i comunisti preferivano la definizione alternativa democratica. Come noto la prima formulazione di questa idea fu fatta da Enrico Berlinguer in tre lunghi articoli, usciti su Rinascita il 28 settembre, il 5 e il 12 ottobre del 1973: si tratta di testi articolati – brevi saggi più che articoli – complessi perché scritti nella prosa politica di quel tempo. Il primo governo in cui venne messa in pratica questa tesi nacque nell’agosto del 1976: si tratta del monocolore Dc di solidarietà nazionale, conosciuto anche come il governo della “non sfiducia”.
Ci sono voluti quasi tre anni per far diventare quell’idea una pratica di governo. Non voglio qui discutere su quella fase politica, con tutte le sue potenzialità e pure con i suoi fortissimi limiti e i suoi strascichi negativi; mi limito a ricordare che contro quell’esperienza si scatenò una reazione furibonda da parte di tutta la destra internazionale e delle forze del capitale, che portò all’uccisione di Aldo Moro e quindi credo di poter dire che forse non era poi così sbagliata, come tanti soloni della sinistra adesso teorizzano. Comunque sia a me interessano quei tre anni in cui l’idea fu diffusa nel partito, spiegata, discussa, parzialmente modificata, quei tre anni in cui quell’idea divenne patrimonio del partito, pur con molte resistenze, perché si trattava di qualcosa che non era comunque semplice da accettare. Perché in quel partito, pur fortemente inquadrato, pur con un leader carismatico come Berlinguer, pur con una fortissima impronta ideologica, bisognava convincere i militanti, che conoscevano bene la politica, e proprio perché la conoscevano, erano disposti ad accettare – e quindi a sostenere – solo quello di cui erano davvero convinti. E quindi serviva tempo per prendere una decisione, e ancora più tempo per cambiarne una molta radicata. Non si poteva fare in fretta, anche se Berlinguer e i compagni di quella stagione erano ben consapevoli dell’urgenza che spingeva a prendere quella decisione, nata, tra l’altro, per la paura, non teorica, di un colpo di stato sul modello cileno.
Ho fatto questa riflessione perché in queste settimane pare sia destinato a nascere un nuovo governo, anche se non è chiaro da chi sarà composto; anzi sono in campo alcune diverse opzioni, apparentemente tra loro alternative. In questi giorni, davvero pochi giorni, siamo repentinamente passati da una all’altra formula. Evidentemente la cosa importante è fare, e fare in fretta. Curiosamente il fatto che le forze politiche si siano prese alcuni giorni – non tre anni – per discutere della cosa, è visto da molti come un’inutile perdita di tempo. E in questi pochi giorni forze politiche che fino all’altro ieri erano avversarie decideranno se fare o non fare un governo di coalizione, anche se non si capisce in base a che cosa.
O forse si capisce benissimo, perché l’unico vero tema di cui si discute in questi giorni è chi guiderà questo governo. Tra le forze politiche è in corso una sorta di lotta di resistenza per imporre il proprio candidato. Ovviamente è importante sapere chi guiderà il prossimo governo, se questo o quell’altro esponente politico, ma questo non può esaurire la discussione, non può rispondere alle domande: per fare cosa? in nome di quali interessi? per difendere quale blocco sociale? A queste domande non c’è risposta, perché i governi che ci vengono via via proposti non sono diversi l’uno dall’altro, al di là del nome di chi sarà chiamato a guidarlo.
Mi rendo conto che oggettivamente oggi la politica ha gli strumenti per essere più veloce di quanto fosse quarant’anni – e magari il Pci di Berlinguer, se ci fosse stata la rete, avrebbe impiegato qualche mese in meno per decidere il compromesso storico – ma non si può neppure pensare che una riunione di un organo dirigente convocato nel giro di una settimana o una consultazione on line di poche ore possano esaurire una discussione. Se in un settimana si può tranquillamente passare da un governo M5s-Lega a uno M5s-pd significa che questi due esecutivi, al di là di qualche aspetto di folklore, sono destinati a essere la stessa cosa, a rispondere agli stessi poteri, a interpretare la stessa parte in commedia. La politica, almeno per come ce l’hanno insegnata, è un’altra cosa. E non le si può metter prescia.

 

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Di Luca Billi

Luca Billi, nato nel 1970 e felicemente sposato con Zaira. Dipendente pubblico orgoglioso di esserlo. Di sinistra da sempre (e per sempre), una vita fa è stato anche funzionario di partito. Comunista, perché questa parola ha ancora un senso. Emiliano (tra Granarolo e Salsomaggiore) e quindi "strano, chiuso, anarchico, verdiano", brutta razza insomma. Con una passione per la filosofia e la cultura della Grecia classica. Inguaribilmente pessimista. Da qualche tempo tiene il blog "i pensieri di Protagora" e si è imbarcato nell'avventura di scrivere un dizionario...

Un pensiero su “Ci vuole tempo per cambiare idea”

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