Riceviamo e pubblichiamo

di Franco Astengo

Nel momento del massimo dispregio per la forma – partito ad integrazione di massa , che per circa un secolo ha caratterizzato la crescita politica del movimento operaio e di vaticinio d’estinzione per il Parlamento con il  rilancio del presidenzialismo inteso come punto di saldatura verticale della “democrazia diretta”, il ricordo della scomparsa di Palmiro Togliatti (21 agosto 1964) non può essere che incentrato sui due pilastri del pensiero del segretario del PCI, espressi all suo rientro in Italia e nel corso dei lavori dell’Assemblea Costituente, sul “partito nuovo” e la “centralità del Parlamento”.

Su questa basi teoriche si affermò la presenza del PCI in Italia come forma specifica dell’identità comunista, della sua capacità di rappresentanza della classe, di influenza determinante sulla Costituzione Repubblicana.

Un messaggio di assoluta attualità nella sua essenza della concezione della democrazia e della politica.

In questa occasione ci si limita a ripubblicare due testi:

Il primo testo è una sintesi tratta da : ALESSANDRO NATTA – TOGLIATTI E IL PARTITO NUOVO ISTITUTO DI STUDI COMUNISTI “PALMIRO TOGLIATTI” SEMINARIO NAZIONALE DI STUDIO (11-15 DICEMBRE ’73)

Il primo problema che vorrei esaminare è quello del termine «partito nuovo» e del perché «partito nuovo». L’idea e l’espressione – lo sappiamo tutti – è stata di Togliatti, proposta immediatamente al rientro in Italia, nel marzo del ’44.

Il primo dato, dunque, è il rilievo straordinario che Togliatti dà al problema del partito nuovo.

Il secondo dato è che quella concezione del partito che egli propone, è un elemento costitutivo, organico, della politica di unità antifascista, nazionale, dell’ispirazione fondamentale della lotta di liberazione e della strategia di avanzata democratica al socialismo.

Torniamo però all’interrogativo. Perché un partito nuovo se il partito comunista esisteva da più di venti anni?

La novità del partito era, dunque, in relazione alla svolta della situazione storica, internazionale ed italiana, ed alla novità della politica, degli obiettivi, dei compiti che i comunisti dovevano porsi. E’ del tutto evidente che bisogna costruire un partito adeguato ad una situazione che ripropone e riapre in concreto il problema dell’avanzata al socialismo in tutta l’Europa.

“l’esigenza che i partiti comunisti diventino un «effettivo movimento di massa”, capace di inserirsi in modo attivo e continuo nella realtà politica e sociale, di avere iniziativa politica ed un’influenza effettiva nella vita politica del nostro paese.
Viene così sottolineato un primo e rilevante carattere del partito nuovo. Quello appunto del «fare politica», per usare un’espressione di Togliatti, dell’impegno in un’attività positiva e costruttiva; quello del superamento netto dell’associazione dei puri propagandisti, dei predicatori degli ideali del |socialismo e del comunismo, del superamento della chiusura della mera denuncia e critica da parte dei comunisti.

Politica nazionale e democrazia, carattere nazionale e democratico del partito: qui, a mio giudizio, sono le novità decisive, i cardini di una prospettiva della lotta per il socialismo, che rompevano schemi tradizionali radicati nelle file comuniste e nel movimento operaio, risolvevano, almeno nel’limpostazione, il lungo dibattito degli anni trenta sulla doppia prospettiva, sul passaggio dalla dittatura reazionaria del fascismo al socialismo.

 Questo punto è la ripresa e lo sviluppo di un concetto essenziale di Gramsci, e cioè che la classe operaia deve; in un certo senso nazionalizzarsi; per potere essere forza egemone, per poter costruire una alleanza con altri strati – contadini, intellettuali – e dirigere un processo rivoluzionario.

Dobbiamo ora affrontare l’altro termine fondamentale della politica e della concezione del «partito nuovo»: il termine «democratico».

Anche questa definizione propone una correlazione tra obiettivi politici e il tipo di organizzazione di regime interno, di vita del partito. «Democratico» significava in quel momento l’affermazione di un nesso profondo, organico, fra democrazia e socialismo; una visione della lotta di classe e rivoluzionaria che riconosceva come propri ed essenziali il terreno e il metodo della democrazia, e che puntava sull’estensione, sullo sviluppo della democrazia nel campo economico e sociale e su una concezione della democrazia ben caratterizzata in senso antifascista, antimperialista, popolare e progressiva.

L’idea del partito unico della classe operaia è un altro punto di riferimento essenziale del partito nuovo, e si colloca in effetti in una prospettiva, non solo italiana, ma europea e mondiale, di ricostituzione dell’unità politica del movimento operaio che sembrava essere stata riaperta dalle esperienze unitarie, di fronte proletario e popolare nel quadro delle alleanze e della lotta antifascista.

Togliatti ribadì, nel gennaio del ’47 alla Conferenza di organizzazione di Firenze: «Pensavamo che il compito della creazione del partito nuovo lo avremmo realizzato attraverso la fusione col partito socialista, che dal confluire di queste due grandi esperienze storiche e concrete sarebbe uscito più rapidamente un grande partito nuovo dei lavoratori italiani».

Non importa per il nostro discorso sul partito nuovo l’esame delle cause che impedirono la realizzazione del progetto di confluenza dei socialisti e dei comunisti in un solo partito. Si può dire che all’inizio del ’46 quell’ipotesi non è più attuale,  ma il problema che ha più rilevanza teorica e pratica è che con il partito nuovo, anche inteso come organizzazione politica unitaria di comunisti e socialisti, non si configura e non si prospetta una ipotesi di regime monopartitico: si segue anzi, non solo rispetto all’esperienza sovietica, ma alla stessa elaborazione gramsciana dei Quaderni del carcere, il passaggio netto ad una concezione pluralistica, di alleanza effettiva – non di manovra di assorbimento o di disgregazione nel campo delle forze politiche – per la lotta e la costruzione di un regime di democrazia aperto verso il socialismo. Il partito nuovo, anche quando è pensato – lo ripeto – come partito unico della classe operaia, come espressione politica dell’unità organica dei socialisti e dei comunisti non vuol essere «totalità», realtà integrale, prefigurazione dello Stato e del potere proletario e nemmeno è inteso come unica organizzazione politica delle masse lavoratrici e popolari.

Non c’è dubbio che il partito nuovo sottolinea il primato del partito, ma non solo di quello comunista o di quello che potrebbe sorgere dalla fusione, e bisogna ben intendere, d’altra parte, che la linea di unità antifascista e nazionale, di avanzata democratica, l’affermazione della necessità a questo fine delle alleanze politiche, della costruzione di uno schieramento delle forze politiche e ideali popolari progressive, pone il problema della direzione, dell’egemonia; non è una proposta di disarmo o di compromissione ma di confronto, di lotta, su una base e per una prospettiva politica unitaria.

Si tratta del superamento della diffidenza e della rottura antica da parte del movimento operaio di ispirazione marxista verso il Partito popolare, si tratta soprattutto del superamento della lunga e dura polemica tra i comunisti e i socialisti.

Questo importa ora sottolineare. E un altro dato. A questa concezione della via democratica al socialismo, della pluralità delle forze ideali e politiche nella lotta e per la costruzione di una società nuova, della politica di alleanze, della costruzione di un nuovo blocco di potere di forze progressiste, sociali e politiche, è del tutto coerente il concetto di «partito nuovo» come una formazione politica di grandi proporzioni, aperta sulla base dell’adesione non alla dottrina, alla ideologia del marxismo ma ad una linea e ad un programma politico.

Non c ’è dubbio che il partito nuovo è in modo eminente e netto il partito di massa, ma lo è – mi siano consentiti i termini un po’ paradossali – nel senso che il PCI riesce a diventare quello che avrebbe voluto essere anche prima.

Il partito nuovo voleva essere ed è stato lo strumento di una straordinaria leva democratica e socialista, di un’unificazione nazionale degli strati decisivi della classe operaia e del popolo nel momento in cui la sconfitta del fascismo poneva problemi di rinascita e di sviluppo dell’organizzazione e degli istituti democratici della società e del movimento operaio.

Ma non si trattava solo e principalmente di questo. La configurazione di massa del partito obbediva, più a fondo, all’idea di un’avanzata al socialismo che impegnava nella risposta positiva, politica, non propagandistica, su tutti i problemi della vita nazionale, che impegnava ad organizzare e a dirigere la lotta di un esteso, unitario schieramento delle masse lavoratrici e popolari.

La costruzione del partito nuovo è contrassegnata, nonostante le condizioni in cui il partito opera – la guerra, la spaccatura del paese, i diversi centri di direzione del partito – da un forte elemento democratico.

La costruzione del partito nuovo è però caratterizzata da un altrettanto forte elemento di centralizzazione, di unificazione, e non solo per le esigenze della lotta. Il senso dell’intervento di Togliatti che dirime e risolve il dibattito risponde non solo alla esigenza dell’unità per il fine primo della lotta di liberazione, ma mira a far muovere in modo coerente, in modo efficace un partito che veniva crescendo in modo rapido e tumultuoso.

Dalla lotta di liberazione usciamo, in sostanza, con un’impostazione del regime, della vita, del metodo di direzione del partito che definirò – ho usato questo termine anche altre volte – di «democrazia organica», che rappresentava un fatto nuovo per il nostro partito e nel movimento comunista.

Perché democrazia organica? Democrazia organica nel senso che noi poniamo come cardini della vita, dell’attività del partito il gusto della politica, del fare politica, la partecipazione cioè, l’impegno, l’esperienza reale nella politica del maggior numero possibile di militanti; la politica come attività di massa – e qui è la misura vera della democrazia di un partito. Democrazia organica nel senso che la costruzione di una volontà collettiva, di una unità politica ed ideale viene perseguita senza crlstallizzazioni di gruppi, di frazioni, ma attraverso un dibattito, un confronto, una verifica nei fatti; un confronto ed un dibattito che potranno essere più o meno aperti, in uno od in un altro momento, ma sono e diventano sempre più un costume radicato nel partito.

Negli anni infuocati della costruzione del partito nuovo due dati mi sembrano da sottolineare.

Il primo è una straordinaria saldatura di generazioni, di esperienze diverse dei comunisti, quelle del carcere, dell’emigrazione, degli anziani e dei giovani, dei diversi centri dirigenti, dell’impegno nella direzione politica, nel governo, nella lotta armata sulle montagne, nelle città.

Il secondo dato è quello di un’ altrettanta straordinaria formazione, nel fuoco stesso della lotta, di nuovi dirigenti politici, di un diffuso quadro intermedio, soprattutto, anche se questa straordinaria formazione non sarà proporzionata al ritmo di sviluppo del partito, alle esigenze che la presa del partito in quel momento determinava.

Il partito come organizzazione di massa, come corpo unitario, come intellettuale collettivo, muove di qui; esige questa complessa saldatura di avanguardia e massa, e un processo, quindi, di elevamento, di unificazione al più alto livello politico e culturale.

Così alla costruzione del partito nuovo si può dire che Togliatti diede non soltanto la fondamentale elaborazione teorica e politica, ma anche l’opera concreta e paziente, la lezione del metodo di direzione e di lavoro e, poi, la forza di non arretrare in questa concezione, di difenderla e di condurla a nuovi sviluppi.

La verità è che Togliatti dà valore storico, permanente, alla linea di avanzata democratica e che la continuità nell’ispirazione nella linea, nel metodo che erano a fondamento della vita italiana e del partito nuovo, è stata a sua volta un elemento essenziale della continuità del processo storico aperto dalla resistenza e dalla lotta di liberazione.

Anche per questo credo che debba essere sottolineata l’attualità ed il valore dell’opera di Togliatti nella costruzione della nostra politica e del partito nuovo negli anni della lotta di liberazione e dell’immediato dopoguerra.

Il secondo testo di seguito riportato solo parzialmente è tratto da un discorso pronunciato da Palmiro Togliatti alla Camera dei Deputati l’8 dicembre 1952 nel corso del dibattito su quella che poi sarebbe passata alla storia “come legge truffa”.

Il Parlamento specchio del Paese

 La Costituzione sancisce che l’Italia è una Repubblica democratica, e dal concetto che fa risiedere nel popolo la sovranità deriva il carattere rappresentativo di tutto il nostro ordinamento, al centro del quale stanno le grandi Assemblee legislative, la Camera e il Senato della Repubblica, a cui tutti i poteri sono coordinati e da cui tutti i poteri derivano.

 Questo è il nostro ordinamento, questo e non altro.

 È evidente che in siffatto ordinamento l’elemento che si può considerare prevalente, e che certamente è essenziale, è la rappresentatività.

È un elemento essenziale per ciò che si riferisce ai rapporti tra i cittadini e le assemblee supreme dello Stato.

 Ma che vuol dire che un ordinamento costituzionale sia rappresentativo?

I dibattiti dottrinali sul contenuto giuridico di questo concetto – e i colleghi che hanno frequentato le università giuridiche come studenti o che tuttora le frequentano come professori lo sanno meglio di me – sono stati infiniti.

Li lascio in disparte perché ritengo giusta l’opinione che se questi dibattiti davano scarso aiuto per il progresso delle dottrine politiche, ciò derivava dal fatto che in essi si confondevano rapporti di diritto privato con rapporti di diritto pubblico.

 Non possono confondersi i rapporti di rappresentanza e di mandato, quali sono definiti dal codice e dalle leggi civili, con il mandato e la rappresentanza politici.

Si tratta di cose diverse. Il più noto e grande dei nostri costituzionalisti moderni, dopo aver dibattuto a lungo questo problema, giunge alla conclusione, che mi sembra la sola esatta, che nel diritto pubblico non si arriva a capire le cose se non si tiene continuamente presente la storicità dei fatti e del diritto stesso.

Lo so che una volta fui aspramente rimbrottato da quella parte, perché la nostra visione del mondo sarebbe storicistica.

Vorrei replicare, ad ogni modo, che è vero, sì, che la nostra visione del mondo è storicistica, ma che non bisogna mai dimenticare che cosa ciò vuol dire e che cosa è la storia. La storia è l’umanità nel proprio sviluppo.

La storia è l’uomo, quale si afferma e realizza nelle sue relazioni e con la natura e con la società.

Se guardiamo, allora, alla storia, incontriamo all’inizio e partiamo da una visione della rappresentanza come istituto di diritto privato, nel senso che essa riguarda la tutela, attraverso un delegato o mandatario, di determinati interessi di gruppi precostituiti. Di qui la composizione bizzarra, ma in quel momento storicamente giustificata, data l’organizzazione della società, dei parlamenti medioevali. Qualcosa di questa composizione rimane anche in alcuni ordinamenti che pretendono di presentarsi come costituzionali e rappresentativi, ma non lo sono.

 Alludo alle assemblee rappresentative elette secondo il principio della curia, applicando il quale si ha in partenza una schiacciante maggioranza di “deputati” delle classi possidenti e una minima rappresentanza di operai, di contadini, di lavoratori.

Ho voluto ricordare questa bizzarra forma di degenerazione di una istituzione che dovrebbe essere rappresentativa, perché è quella che maggiormente rassomiglia al sistema che viene proposto qui dall’onorevole Scelba.

 Non vi è dubbio, infatti, che la visione che traspare dalla legge in discussione ci prospetta un Parlamento diviso in curie, non più secondo un criterio economico o sociale, ma secondo un criterio politico.

 Precede alla elezione del Parlamento un’azione del governo per riuscire, partendo dai dati delle precedenti consultazioni, a raccoglier determinate forze politiche a proprio appoggio. A questo gruppo è quindi già assegnato, prima che si sia proceduto alle elezioni, un numero fisso di mandati, e un numero fisso e ridotto di mandati è assegnato, in modo precostituito, agli oppositori del governo. A questo ci vorrebbe riportare l’onorevole Scelba: al Parlamento eletto per curie. Ed è peggio, direi, il Parlamento per curie ordinate secondo un criterio politico che non secondo un criterio economico, perché

scompare qualsiasi base oggettiva della differenziazione.

Unica base rimane la volontà sovrana del potere esecutivo.

Tutti però, finora, sono stati d’accordo che un siffatto sistema di scelta degli organi rappresentativi non ha nulla a che fare non dico con la democrazia, ma neanche con il liberalismo. I parlamenti liberali, quando sorgono, affermano il principio della rappresentanza politica, il quale “si fonda – è ancora Vittorio Emanuele Orlando che parla sull’ipotesi che i bisogni e i sentimenti politici dei cittadini abbiano una maniera diretta, esterna di manifestarsi”.

Queste manifestazioni vengono raccolte; da esse esce la rappresentanza di tutto il paese.

 Ed ecco subito un altro concetto non facile a districare, quello che definisce la natura nostra, di deputati in quanto rappresentanti.

 Noi siamo, si, rappresentanti dei nostri elettori. Nessuno lo può negare: essi si rivolgono a noi, ci inviano lettere, ci sottopongono quesiti; ad essi parliamo, con essi esiste un legame particolare.

Ciascuno di noi però – e la Costituzione lo afferma – rappresenta tutto il paese. Nel dibattito intorno a questo concetto, l’estensore della relazione a questo disegno di legge fa naufragio

La realtà è che nello sviluppo della scienza del diritto pubblico il fascismo ci ha spinti molto all’indietro. Quando noi oggi andiamo a rivedere i testi e i trattati di diritto costituzionale che andarono per la maggiore durante il fascismo, siamo costretti a inorridire.

Ci troviamo di fronte a tale mostruosa contorsione di concetti, a tali bizzarri travestimenti di idee un tempo chiare, per cui comprendiamo come oggi chi oggi appartenne a quella schiera non possa comprendere nulla.

Quanto male, onorevole ci ha fatto il fascismo!

Perché,  c’è stato chi al fascismo –e fu il re – sottomise la nazione, sacrificandogli la carta costituzionale.

 Vi è stato un onorevole De Gasperi che al fascismo sacrificò il proprio partito, mandandolo disperso.

 Vi è stato chi ha sacrificato al fascismo interessi vitali del popolo, e così via.

Tutti, dunque, hanno peccato, tutti coloro che sottomisero al fascismo ciò che era degno di vivere per sé, che aveva un valore, che doveva essere difeso fino all’ultimo; ma chi ha sottomesso a l fascismo il pensiero, la scienza, ha commesso il peccato più grave.

Il conte di Mirabeau. “Le assemblee rappresentative – diceva – possono essere paragonate a carte geografiche, che debbono riprodurre tutti gli ambienti del paese con le loro proporzioni, senza che gli elementi più considerevoli facciano scomparire i minori”..

Ecco il concetto nuovo, per cui la rappresentanza viene ridotta quasi a un elemento visivo, e quindi immediatamente compresa nel suo valore sostanziale.

A questo concetto si riferiscono i grandi pubblicisti il cui pensiero, successivamente, contribuisce a far progredire tutto il sistema delle istituzioni liberali e democratiche. Ecco Cavour, per il quale “il grande problema che una legge elettorale deve risolvere si è di

costituire un’assemblea che rappresenti, quanto più esattamente e sinceramente sia possibile, gli interessi veri, le opinioni e i sentimenti legittimi della nazione”.

Potrei abbondare nelle citazioni.

 Desidero osservare che esse vengono anche da uomini che non furono di parte democratica avanzata o di parte liberale del tutto conseguente.

Ecco il barone Sidney Sonnino, per esempio. “L’Assemblea elettiva – egli dice – dovrebbe stare alla intera cittadinanza nella stessa relazione che una carta geografica al paese che raffigura. Come le carte si fanno in proporzione di 1 a 20 mila o di 1 a 50 mila, così la Camera dovrebbe potersi dire il ritratto fotografico della nazione, dei suoi interessi, delle sue opinioni e dei suoi sentimenti, nella proporzione del numero dei deputati ai numero dei cittadini”.

Così si arriva alla visione, insita fin dall’inizio nella concezione degli istituti rappresentativi, ma elaborata pienamente con una certa lentezza, del Parlamento come specchio della nazione.

 Fu un costituzionalista inglese, il Lorrimer, che per primo formulò questa idea nel titolo stesso di un suo trattato famoso che parla del Costituzionalismo del futuro o del Parlamento come specchio della nazione .

 Un filosofo inglese, Stuart Mill, sviluppando lo stesso concetto, nel suo scritto assai noto di Considerazioni sul governo rappresentativo, asseriva, con piena coscienza, che, arrivati a questo concetto, arrivati cioè a stabilire questa proporzionalità fra la rappresentanza e il paese, si giunge a dare “al governo rappresentativo un lineamento che corrisponde al suo periodo di maturità e di trionfo”.

 Ruggero Bonghi, da noi, in un articolo sulla Nuova antologia del 16 gennaio 1889, incalzava affermando che se si riesce a ottenere che una nazione si specchi “tutta com’è e quanta è nel suo Parlamento”, allora “il governo rappresentativo sarà assicurato in perpetuo”.

Dal Parlamento liberale, per quale ancora poteva prevalere il vecchio principio del diritto pubblico romano, valido per le decisioni ma non per la rappresentanza, che volontà della maggioranza è volontà di tutti, si giunge così, non per ciò che si riferisce al diritto di decisione, che sempre è della maggioranza, ma per ciò che si riferisce alle basi dell’istituto rappresentativo, ad asserire il grande principio nuovo.

 E veramente qui si apre un nuovo periodo storico: passiamo dall’epoca liberale all’epoca democratica, dai parlamenti liberali passiamo ai parlamenti e agli ordinamenti democratici. La natura di questo passaggio è chiara, sia nella scienza che nello sviluppo storico.

 Occorre dire che i costituzionalisti non erano partiti, nella loro indagine, dalla ricerca di un principio nuovo.

 Erano partiti, piuttosto, da una ricerca di equità.

 Il Guizot, che esprime questa ricerca di equità nel modo più chiaro, lo asserisce: “Se la maggioranza è spostata per artificio, vi è menzogna; se la minoranza è preliminarmente fuori combattimento, vi è oppressione.

Nell’un caso e nell’altro, il governo rappresentativo è corrotto.

 Partiti dalla ricerca dell’equità non si poteva però non arrivare alla elaborazione di tutta una nuova concezione politica.

Lo sviluppo storico seguiva, d’altra parte, lo sviluppo del pensiero, che lo accompagnava e rischiarava.

È uno sviluppo storico che comprende tutto il secolo XIX e nel quale gli anni decisivi furono il 1848 e il 1871.

Il 1848 è l’anno in cui appare sulla scena per la prima volta in modo autonomo una classe, la classe operaia, che rivendica non soltanto una rappresentanza e quindi una parte del potere, ma collega questa rivendicazione al proprio programma di trasformazione sociale.

Nel 1871 la classe opera ia va assai più in là della rivendicazione di una parte del potere per se stessa.

 Essa afferma la propria capacità di costruire un nuovo Stato.

 Questi grandi fatti storici si impongono all’attenzione di tutti.

Agli uomini politici di più chiaro spirito liberale e democratico essi indicano la necessità di fare quel passo che separa i parlamenti liberali dai parlamenti democratici rappresentativi.

Di non accontentarsi cioè di dire che la maggioranza rappresenta l’opinione generale,anche quella della minoranza, ma di costruire un organismo nel quale si rispecchi la nazione, sperando e augurando che questo consenta uno sviluppo progressivo senza scosse rivoluzionarie.

La rivoluzione operaia del giugno 1848 è soffocata nel sangue.

Sull’atto di nascita del Regime borghese, istallatosi in Francia dopo il secondo crollo napoleonico, sta la macchia di sangue delle fucilate con le quali venne fatta strage degli eroici combattenti della Comune.

È una macchia indelebile. Si spegne l’eco delle fucilate, ma resta odor di polvere nell’aria!

Il movimento operaio si afferma, va avanti. Il problema è posto, bisogna progredire, bisogna tener conto delle forze nuove che si affermano.

 Per questo vi è chi comprende che ormai è necessario forgiare l’ordinamento dello Stato in modo che consenta questo progresso e lasci che queste forze, nello Stato stesso, si possano affermare.

Per questo il sistema di rappresentanza proporzionale delle minoranze nel Parlamento, che è l’approdo tecnico del movimento, può veramente essere definito il punto più alto che sino ad ora è stato toccato dalla evoluzione dell’ordinamento rappresentativo di una società divisa in classi.

 Così lo hanno sentito tutti i nostri politici, e non solo quelli che ho già citato. Filippo Turati, quando propose, nel 1919,di passare alla rappresentanza proporzionale, asseriva per questo che la sua proposta aveva un valore storico.

 Sidney Sonnino si richiamava apertamente, nel proporre e difendere la proporzionale, al fatto storico della Comune. Si trattava di dare una impronta definitiva di democraticità, di rappresentatività e di giustizia all’ordinamento costituzionale dello Stato, nel momento in cui il movimento sociale non può più essere soppresso con la forza.

Naturalmente, il modo in cui si realizza il principio non è uniforme .

 Lo so. Non è stato trovato ancora un modo di avere la perfetta proporzionalità della rappresentanza. Rimane sempre un certo scarto tra la realtà del paese e la rappresentanza nella Camera, a seconda che si adotti un determinato sistema di conteggio dei voti e dei rappresentanti in rapporto ai voti, oppure un altro sistema.

 Ma questo non ha niente a che fare con l’abbandono del principio.

Quello che interessa è il principio.

 Il principio per cui noi siamo rappresentanti di tutto il paese nella misura in cui la Camera è specchio della nazione.

Dello specchio, veramente, si può dire che ogni parte, anche piccolissima, di esso, è eguale al tutto, perché egualmente rispecchia il tutto che gli sta di fronte.

Qualora il principio venga abbandonato, è distrutta la base dell’ordinamento dello Stato che la nostra Costituzione afferma e sancisce.

Quali sono, ora, le conseguenze che debbono derivare da questa nozione dell’ordinamento costituzionale rappresentativo? Prima conseguenza è l’uguaglianza del voto, che la nostra Costituzione solennemente stabilisce, e l’uguaglianza del voto non può ridursi al fatto che tutte le schede siano eguali, messe nell’urna con lo stesso gesto della mano.

Non si tratta di questo.

L’uguaglianza deve essere nell’effetto che ha il voto per la composizione dell’assemblea come specchio della nazione.

 Se non vi è questa uguaglianza, cioè l’uguaglianza negli effetti, non vi è più sistema rappresentativo, vi è un’altra cosa, si ritorna addietro.

Di qui deriva, poi, la funzione politica del Parlamento.

Soltanto quando il Parlamento sia organizzato come specchio della nazione, in modo oggettivamente rappresentativo, esso può diventare e diventa quel centro di elaborazione della vita e dell’indirizzo politico della nazione, che esclude o dovrebbe escludere le sopraffazioni, gli scontri violenti, gli urti sanguinosi, le rivoluzioni.

Anche in questa concezione del parlamentarismo vi è fra i politici una unanimità che va da Turati ad Amendola, dai vecchi rappresentanti del partito popolare ai liberali più in vista del secolo scorso e del secolo attuale.

 Secondo la legge attuale, la fisionomia del Parlamento diventa un’altra, diventa quella che Giovanni Amendola (e mi riferisco a lui perché la sua formulazione è particolarmente evidente) prevedeva respingendo la legge Acerbo. “Non esiste, disse, una maggioranza precostituita. Il paese è costituito da tante forze, di tante unità morali quanti sono i partiti, i gruppi, le tendenze. Ognuna di queste forze, ognuna di queste unità non può da sola a vere la maggioranza. Ma esiste la possibilità della costituzione di un edificio più complesso, nel quale le singole volontà, le singole idealità entrino, non già per sovrapporsi meccanicamente e per determinare una coalizione morta, ma per essere un elemento necessario alla vita e all’unità del governo, capace di manifestarsi in un’azione governativa”.

 Ecco la visione delle funzioni dell’istituto parlamentare che corrisponde alla esatta concezione dell’assemblea rappresentativa e del modo come essa deve corrispondere alla struttura del paese

Vi è poi un ultimo richiamo che pur occorre fare.

 La nostra Costituzione è una delle poche che  introduce nel quadro costituzionale il partito politico e gli attribuisce determinati diritti in rapporto con determinati doveri. Al partito politico è attribuito il diritto di partecipare a determinare la politica nazionale con metodo democratico.

È evidente che il metodo democratico esclude l’anatema contro un partito, qualunque esso sia, a meno che non sia il ricostituito partito fascista, e che è la sola esplicita eccezione.

Tutti i partiti politici hanno dunque questo diritto, e hanno la facoltà di esercitarlo in modo eguale. Essi debbono partecipare in modo eguale a determinare la politica nazionale.

Quando però voi abbiate messo un gruppo di partiti nelle condizioni in cui li vorrebbe mettere la legge Scelba (e in questo momento prescindo dalla qualificazione di questi partiti, siano essi di sinistra, di destra o di centro), partecipano essi ancora, con metodo democratico e con eguaglianza di diritti, alla determinazione della politica nazionale?

No, una parte dovranno diventare partiti propagandisti, potranno usare della tribuna parlamentare come mezzo di propaganda; ma il principio nuovo che tutti i partiti partecipano a determinare la politica nazionale scompare, è cancellato.

La Costituzione è violata, la Costituzione è messa sotto i piedi.

Di AFV

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