di Ramzy Baroud – 5 settembre 2018

Israele vuole cambiare interamente le regole del gioco. Con il sostegno incondizionato dell’amministrazione Trump, Tel Aviv vede un’occasione d’oro per ridefinire quella che da decenni costituisce la base legale e politica del cosiddetto “conflitto israelo-palestinese”.

Anche se la politica estera del presidente statunitense Donald Trump è stata sinora stravagante e imprevedibile, la “visione” della sua amministrazione riguardo a Israele e alla Palestina è sistematica e incrollabile. Tale coerenza pare fa parte di una visione più ampia, intesa a liberare il “conflitto” dai confini della legge internazionale e persino dal vecchio “processo di pace” patrocinato dagli Stati Uniti.

In effetti la nuova strategia ha sin qui preso di mira lo status di Gerusalemme Est come città palestinese occupata e il Diritto al Ritorno dei profughi palestinesi. Mira a creare una nuova realtà nella quale Israele consegua i suoi obiettivi strategici mentre i diritti dei palestinesi siano limitati a meri problemi umanitari.

Non sorprendentemente, Israele e gli Stati Uniti stanno sfruttando a loro vantaggio la divisione tra le fazioni palestinesi, Fatah e Hamas. Fatah domina l’Autorità Palestinese (PA) a Ramallah, mentre Hamas controlla Gaza assediata.

E’ davvero applicato uno scenario da bastone e carota. Mentre per anni Fatah ha ricevuto numerosi benefici politici da Washington, Hamas è sopravvissuto in isolamento sotto un assedio permanente e un protratto stato di guerra. Pare che l’amministrazione Trump – sotto gli auspici dell’alto consigliere e genero di Trump, Jared Kushner – stia ribaltando il tavolo.

Il motivo per il quale la PA non è più la dirigenza palestinese “moderata” che soleva essere nell’agenda sempre opportunista di Washington, è che Mahmoud Abbas ha deciso di boicottare Washington in reazione al riconoscimento, da parte di quest’ultimo, dell’intera Gerusalemme come capitale di Israele.  La subordinazione di Abbas è stata messa alla prova con successo in passato ma, sotto la nuova amministrazione, gli Stati Uniti pretendono “rispetto”, dunque totale obbedienza. Hamas, che è rinchiuso a Gaza tra confini sigillati in ogni direzione, ha coinvolto indirettamente Israele attraverso la mediazione di Egitto e Qatar. Tale coinvolgimento ha, sinora, avuto come risultato una tregua di breve termine, mentre una tregua di lungo termine è tuttora oggetto di discussione.

Lo sviluppo più recente su tale fronte è stato la visita di Kushner, accompagnato dall’inviato per il Medio Oriente, Jason Greenblatt, in Qatar il 22 agosto. Là, Gaza è stata il principale tema all’ordine del giorno.

Dunque perché Gaza, che è stata isolata (persino dalla stessa PA), è improvvisamente la nuova porta che dirigenti di vertice statunitensi, israeliani e regionali stanno usando per riattivare la diplomazia mediorientale?

Ironicamente, Gaza è particolarmente soffocata in questi giorni. L’intera Striscia di Gaza sta affondando sempre più profondamente nella sua crisi umanitaria in aggravamento, con agosto uno dei mesi più duri.

Una serie di tagli agli aiuti finanziari statunitensi ha attaccato la stessa infrastruttura socioeconomica che consentiva a Gaza di tirare avanti, nonostante l’estrema povertà e il continuo blocco economico.

Il 31 agosto la rivista Foreign Policy ha scritto che l’amministrazione statunitense sta per negare tutti i fondi all’agenzia dell’ONU per i profughi palestinesi, l’UNRWA, che sta già subendo pesanti tagli statunitensi da gennaio. Oggi il futuro dell’organizzazione è in grave pericolo.

La preoccupante notizia è arrivata solo una settimana dopo un altro annuncio, nel quale gli Stati Uniti hanno deciso di tagliare quasi tutti gli aiuti stanziati quest’anno per i palestinesi, 200 milioni di dollari, prevalentemente spesi per progetti di sviluppo nella West Bank e per aiuti umanitari a Gaza.

Dunque perché gli Stati Uniti fabbricherebbero una grande crisi umanitaria a Gaza – che si adatta bene al governo di destra di Benjamin Netanyahu – e contemporaneamente si impegnerebbero in discussioni riguardanti l’urgente necessità di por fine alla sofferenza umanitaria di Gaza?

La risposta sta nella necessità statunitense di manipolare gli aiuti ai palestinesi al fine di ottenere concessioni politiche nell’interesse di Israele.

Mesi prima che iniziassero tornate di colloqui indiretti patrocinati dall’Egitto tra Israele e Hamas, c’è stata una svolta inequivocabile negli atteggiamenti statunitensi e israeliani riguardo al futuro di Gaza.

Il 31 gennaio Israele ha presentato a una conferenza di alto livello a Bruxelles “piani di assistenza umanitaria” per Gaza con un costo proposto di un miliardo di dollari. Il piano si concentra prevalentemente sulla distillazione dell’acqua, sulle infrastrutture dell’elettricità e del gas e sull’ammodernamento della zona industriale congiunta al valico di Erez tra Gaza e Israele. In essenza il piano israeliano è oggi la discussione centrale relativa al cessate il fuoco di lungo termine proposto. Alla riunione ha partecipato Greenblatt, insieme con Kushner cui è affidata l’attuazione della visione poco chiara di Trump, definita in modo inappropriato “l’accordo del secolo”.

Due mesi dopo, Kushner ha ospitato dirigenti di vertice di 19 paesi per discutere della crisi umanitaria a Gaza. Chiaramente c’è un filo conduttore comune in tutte queste attività.

Da quando gli Stati Uniti hanno deciso di sfidare la legge internazionale e di trasferire la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme lo scorso dicembre, sono stati in cerca di una nuova strategia che aggirasse la PA di Ramallah.

Il presidente della PA, Abbas, il cui apparato politico dipende in larga misura dal “coordinamento della sicurezza” con Israele, dalla convalida politica e da sussidi finanziari statunitensi, ha poco con cui negoziare.

Hamas ha un capitale politico relativamente maggiore in quanto ha operato con minore dipendenza dal campo israeliano-statunitense-occidentale. Ma anni di assedioincessante, interrotti da guerre israeliane con tante vittime, hanno spinto Gaza in una crisi umanitaria permanente.

Anche se una tregua temporanea tra Israele i gruppi palestinesi di Gaza guidati da Hamas è entrata in vigore il 15 agosto, un tregua di lungo termine è tuttora in corso di negoziazione. Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, che cita funzionari israeliani, la tregua comprenderebbe, tra altre clausole, un cessate il fuoco complessivo, l’apertura di tutti gli attraversamenti di confine, l’ampliamento delle are di pesca permesse al largo della costa di Gaza e la ristrutturazione dell’infrastruttura economica distrutta di Gaza.

Contemporaneamente dirigenti palestinesi di Ramallah sono furiosi. Il “negoziatore capo”, Saeb Erekat, ha accusato Hamas di cercare di “distruggere il progetto nazionale palestinese”, negoziando un accordo separato con Israele. L’ironia è che l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) dominata da Fatah e la PA hanno fatto esattamente ciò per venticinque anni.

Tuttavia scollegare il futuro di Gaza dal futuro di tutti i palestinesi può, in effetti, avere conseguenze disastrose.

Indipendentemente dal fatto che sia raggiunta una tregua permanente tra Israele e le fazioni di Gaza guidate da Hamas, la triste verità è che, quali che siano le grandiose illusioni nutrite al momento da Washington e Tel Aviv, esse sono quasi interamente basate sullo sfruttamento delle divisioni palestinesi, di cui è interamente da biasimare la dirigenza palestinese.

Ramzy Baroud è un giornalista, scrittore e curatore di Palestine Chronicle. Il suo libro più recente è ‘The Last Earth: A Palestinian Story’ (Pluto Press, Londra). Ha conseguito un dottorato in studi palestinesi dall’università di Exeter ed è studioso non residente presso l’Orfalea Center for Global and International Studies, Università della California, Santa Barbara.

  

Da Znetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/what-lies-beneath-the-us-israeli-plot-to-save-gaza/

traduzione di Giuseppe Volpe

Traduzione © 2018 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.

 

 

 

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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