Italia spendacciona. Italia che ha vissuto sopra le proprie possibilità. I mercati ci puniscono perché, se non seguiamo le raccomandazioni, il nostro debito è insostenibile. Il pensionato norvegese finanzia lo stipendio della maestra italiana.

Questi alcuni assiomi del “pensiero” liberale in materia di debito pubblico, poi ripetuti come fossero mantra da chi, fino a ieri, confondeva spread con spritz o da volonterosi studenti di economia che si illudono di essere destinati ai ranghi della futura classe dirigente.

Ma le cose stanno proprio così? Mettiamo da parte per un momento ogni visione alternativa al liberalismo e cerchiamo di ragionare in termini di mercato, come farebbe un investitore.

Partiamo quindi da qualche dato. L’Italia è in avanzo primario (le entrate pubbliche superano le uscite, esclusa la spesa per interessi) da metà degli anni 90.

Avanzo primario dell’ Italia confrontato con quello dei maggiori paesi europei


Quindi no, almeno negli ultimi 25 anni non siamo stati degli spendaccioni.

Dopo la terribile crisi del 2008 il rapporto debito PIL italiano è cresciuto da circa 100 (99,7) a circa 130 (131,8 come precedentemente detto). Una crescita del 30%. Sembrerebbe notevole, ma se la rapportiamo a quanto successo negli USA o in Francia vediamo che altrove le cose sono andate in modo ben peggiore. Il debito/pil USA è passato da 67,7 a 105,4 (una crescita del 60%), quello francese da 68 a 97 (circa il 45%).

I numeri quindi direbbero che l’Italia è stato un paese “virtuoso” secondo i parametri standard. Ha fatto avanzo primario e nonostante la spesa per interessi più alta e la crisi più pesante ha incrementato meno la propria posizione debitoria in rapporto al PIL. Naturalmente ciò ha avuto esiti disastrosi dal punto di vista sociale e di desertificazione industriale, ma lasciamo pure da parte questo aspetto e concentriamoci sui dati. Dopotutto stiamo ragionando da “investitori”, per cui se i numeri tornano bene così.

Fatte queste doverose premesse chiediamoci quindi due cose: il rendimento dei titoli di stato italiani è ingiustificato rispetto ad esempio a quelli francesi? E, più in generale, i titoli di stato italiani in questo momento sono economici?

Andiamo per ordine. Alla chiusura di venerdì il btp a 10 anni dava un rendimento del 3,14%. L’omologo OAT francese dello 0,80. Circa 235 punti di spread.

Abbiamo però detto che la crescita del rapporto debito/pil negli ultimi 10 anni è stata decisamente peggiore in Francia. Ci aggiungiamo un altro dato fondamentale: la posizione sull’estero. Sia guardando la NIIP (net international investment position, in breve la differenza tra crediti e debiti esteri del sistema paese) sia guardando la bilancia dei pagamenti (merci e servizi esportate meno import) l’Italia è messa meglio della Francia.

Bilancia dei pagamenti Italiana confrontata a quella dei maggiori paesi europei

Per quanto riguarda la NIIP siamo entrambi paesi debitori. Ma la posizione negativa italiana è del 7% del Pil, in risalita dal -25 dei momenti peggiori. Quella francese è a -20, in declino. Paesi come Spagna o Portogallo, con debito che paga meno interessi del BTP hanno posizioni orribili (negative per circa il 90 e il 110 del PIL rispettivamente).

Sulla bilancia dei pagamenti i dati sono ancora più favorevoli per l’Italia con un surplus di 50 miliardi a fine 2017 da confrontare con un deficit francese di 22 miliardi circa (rispettivamente il 3% del pil in positivo e l’1% in negativo).

Bilancia dei Pagamenti in Francia

Per cui a fondamentali siamo messi meglio in tutto tranne che nello stock pregresso (130% contro 95% circa). Ma per quanto abbia un peso quest’ultimo aspetto il caso (particolare quanto si voglia) del Giappone con il suo debito/Pil monstre al 250% che contemporaneamente è visto come rifugio e paga meno interessi dei tedeschi dovrebbe perlomeno farcelo relativizzare.

Allora tutto bene? Reazioni emotive? Il Btp è sottovalutato rispetto agli OAT francesi? Si, ma anche no. No perché (ma qui entriamo nel campo delle ipotesi) i mercati prezzano un rischio ridenominazione del debito in lira, l’inevitabile caos ed incertezza di una opzione del genere e ragionevolmente il fatto che, nel caso di una uscita dell’ Italia dalla moneta unica, verrebbero attuate politiche di spesa atte a riparare, almeno in parte, a quell’austerità da avanzo primario e compressione della domanda interna imposteci per anni dai “trattati”.

E qui casca appunto l’asino. Se guardiamo le cose dal punto di vista degli investitori la valutazione negativa non è tanto sui fondamentali italiani come narrano (in buona o malafede) gli apologeti del mercato che ci punisce (per la nostra supposta cialtronaggine) ma sulla nostra libertà scegliere, eventualmente, di non essere stritolati dal sistema che ci opprime, con ciò che comporta in termini di rischi per gli investitori.

E qui ci colleghiamo alla seconda domanda. I btp (ma più in generale tutti i titoli di stato) sono convenienti in assoluto oggi? La risposta, a mio avviso, è negativa.

L’intero sistema economico dei paesi “sviluppati” si regge, infatti, da fine anni 70 (con l’avvento della globalizzazione) sulla compressione salariale, sull’export selvaggio e sul relativo surplus appropriato dal capitale, surplus che viene investito non nell’economia reale, ma direttamente nei mercati finanziari. Con il risultato di inflazionare il valore degli asset e deprimere (con bassi salari, disoccupazione, politiche di austerità e contenimento della domanda interna) la base economica materiale che dovrebbe salvaguardare di consumatori.

Questo rende molto probabile, se non inevitabile, uno choc economico violento visto che il prezzo degli asset (azioni, obbligazioni, derivati vari) è tenuto a galla artificialmente da quantitative easing, buyback (riacquisto azioni proprie), reindirizzo più o meno forzato dei e delle risorse verso i mercati (vedi fondi pensione) o verso le terre vergini di paesi in via di sviluppo che offrono bassi salari e mercati in espansione.

Infatti il primo pilastro (la compressione salariale e la disciplina fiscale) sta scricchiolando in quanto provoca delle ovvie ripercussioni politiche in termini di proteste per i vari tagli alla spesa pubblica, per la disoccupazione, per il libero commercio internazionale percepito come insostenibile e sleale e, più in generale, per una percezione (non certo erronea) di impoverimento e instabilità per larghe fette della popolazione (a tutto questo si aggiunge la questione immigrazione…) ed inoltre crea squilibri macroeconomici in sé (si veda il terribile deficit estero USA oppure i consumi interni stagnanti).

Il secondo (la droga finanziaria come QE), risolve forse i problemi nel breve periodo peggiorandoli nel lungo in quanto inflaziona il valore stesso degli asset e ne abbassa i rendimenti, spingendo, quindi gli operatori ad assumersi a rischi anche maggiori per portare a casa qualcosa di più di rendimenti minimi (problema primario per i fondi pensione).

Pertanto, in conclusione, potremmo dire che l’attenzione spasmodica su un’Italia “spendacciona” e non conforme ai dettami del Washington Consensus, della BCE, del Fondo Monetario e dei mitici “mercati” è un falso storico (siamo stati al contrario troppo ligi al dovere), visto che, dall’esame dei crudi dati, l’Italia ha fondamentali messi meno peggio di quanto comunemente si immagini, mentre il vero rischio è appunto un sistema squilibrato e fragile sotto ogni punto di vista che, è il reale problema per gli investitori.

In questo contesto l’Italia può sicuramente essere il cerino, o uno dei cerini, che dà il via all’incendio ma il problema, anche uno volesse porsi in un’ottica di mercato, sta nel come si è configurato il mercato stesso. Non in chi dichiara per primo che il re è nudo.

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articolo di Amos Pozzi del 1 ottobre 2018 per Saker Italia

http://sakeritalia.it/europa/italia/non-chiamateci-pigs-cosa-temono-davvero-i-mercati/

Di L.M.

Appassionato sin da giovanissimo di geopolitica, è attivo nei movimenti studenteschi degli anni novanta. Militante del Prc, ha ricoperto cariche amministrative nel comune di Casteldelci e nella C.M. Alta Valmarecchia. Nel 2011 crea il blog Ancora fischia il vento.

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