Francesco Cecchini

IL 1915 – 1918 FU UNA GUERRA DI TRINCEA

“La più gigantesca imbecillità che il genere umano abbia compiuto dal tempo delle Crociate” Hermann Sudermann sulla Grande Guerra.                                                              

Il Grande Massacro terminò il 3 novembre 1918 a villa Giusti di Padova con la firma dell’armistizio tra Italia e Austria. Il 3 novembre 2018 sarà aperto  a Villa Correr Pisani di Montebelluna il Memoriale di quel tragico evento. Con questo orrendo mattatoio iniziò il secolo che avrebbe dovuto essere del progresso, ma invece fu di catastrofi. Dal 2015 al 2018 in Italia vi sono state molte celebrazioni retoriche, adunate, discorsi, etc.,etc., ma nessun intento celebrativo nella realizzazione del Memoriale di Montebelluna. Niente di quanto è già conservato nei numerosi musei e sacrari che nel solo nord est italiano, ovvero lungo l’area del fronte orientale del conflitto, ricordano degnamente la tragica, straordinaria quotidianità del conflitto. Nessun sacrario se non quello, doveroso, alla memoria di una tragedia che cancellò, sui diversi fronti, circa 17 milioni di vite. Non sarà un museo con i cimeli esposti nelle teche, anche se qualche cimelio ci sarà, ma tante postazioni interattive, manifesti e foto a raccontare il Grande Massacro.

Ideatore del Memoriale è il sindaco di Montebelluna, Marzio Favero, antifascista e antimilitarista. La parte museale è curata da Monica Celi, direttrice del Museo di Storia Naturale e Archeologia di Montebelluna.

GRANDE GUERRA, GRANDE MASSACRO.                         

Il 4 novembre 1918 sancì ufficialmente la vittoria di alcuni eserciti su altri. Il giorno prima a villa Giusti, a Padova, era stata firmato l’armistizio fra l’Italia e i suoi alleati con l’impero austro-ungarico. La battaglia di Vittorio Veneto esistette solo sulla carta in quanto non ci fu nessun assalto, nessuno sfondamento. L’esercito italiano avanzò perché quello austriaco si stava ritirando, impossibilitato a continuare una guerra irrimediabilmente perduta. Il generale Armando Diaz informato di un’avanzata che non aveva né previsto, né ordinato e neppure sapeva come si stava sviluppando, dovette esaminare le carte geografiche per sapere dov’era Vittorio Veneto. Ferruccio Parri, allora ufficiale nell’Alto Comando testimoniò che Diaz esclamò in dialetto napoletano: “Addò sta stu cazzo ‘e Vittorio Veneto?”. I popoli che uscirono dal Grande Massacro furono i veri sconfitti, tutti. Per quello italiano la disfatta fu feroce per i morti in battaglia, la prigionia, le malattie, la vita tremenda delle donne e dei bambini, la fame, l’esodo, il saccheggio e gli stupri dopo Caporetto, le fucilazioni e le decimazioni. Il 4 novembre dovrebbe essere decretato giorno di lutto nazionale per rispetto di un’intera generazione di giovani che sono stati trucidati senza sapere bene il perché nelle nevi delle Alpi, nelle pietre del Carso e nella pianura del Piave.                                                                     

Le morti. Su un totale di 63 milioni di uomini mobilitati, 8 milioni e mezzo furono i soldati morti. I civili furono circa un milione. Il contributo di sangue dell’Italia in 3 anni di guerra fu di quasi 700.000 soldati morti – ma non esiste una contabilità precisa- e oltre un milione e mezzo di mutilati e feriti. Centinaia di morti quindi per ogni giorno di guerra. Un’intera generazione fu distrutta. L’impatto sulle comunità locali fu devastante sconvolgendo le famiglie e la demografia stessa. La battaglia di Gorizia, un massacro particolarmente assurdo in una guerra assurda, può essere considerata il simbolo di quanto accadde. La battaglia avvenne fra il 9 e il 10 agosto 1916: in poche ore costò la vita a 1.759 ufficiali e 50.000 soldati italiani e a 862 ufficiali e 40.000 soldati austriaci. La canzone «Gorizia tu sei maledetta» venne cantata per la prima volta da fanti che entrarono in città dopo l’immenso prezzo di sangue. Esprimeva un forte sentimento antimilitarista: chi veniva sorpreso a cantarla rischiava la fucilazione. Ecco un paio di versi.                                                                                    O Gorizia tu sei maledetta per ogni cuore che sente coscienza dolorosa ci la partenza E il ritorno per molti non fu.                                                                           

ll 4 novembre dovrebbe essere decretato giorno di lutto nazionale per rispetto di un’intera generazione di giovani che sono stati trucidati senza sapere bene il perché nelle nevi delle Alpi, nelle pietre del Carso e nella pianura del Piave.                                                                                                                         

Prigionia. Una delle pagine meno conosciute del Grande Massacro riguarda i prigionieri italiani, le cui sofferenze furono e sono un’infamia per l’Italia. Gabriele D’Annunzio li chiamò con una frase oltraggiosa: «Imboscati d’Oltralpe». Nei campi di prigionia finirono circa 600.000 italiani, la metà dei quali catturati dopo Caporetto. Ne morirono 100mila ma anche in questo caso la contabilità è approssimativa. Le cause delle morti furono la fame, il freddo e le malattie, principalmente la tubercolosi. I campi di prigionia furono Mathauesen Sigmundsheberg, Theresiendat, Rastat e Celle. In questi due ultimi visse lo scrittore Carlo Emilio Gadda che raccontò la sua esperienza nel «Giornale di guerra e prigionia» e in «Taccuino di Caporetto», descrivendo la fame, le condizioni terribili dei prigionieri, la tubercolosi, la morte di tanti. In pratica i Comandi Supremi assimilarono di fatto i prigionieri ai disertori e con l’ accordo del governo fecero mancare qualsiasi aiuto, sabotando anche le iniziative della Croce Rossa.

Malattie. Mi sono accoccolato vicino ai miei panni sudici di guerra … (da «I fiumi» di Giuseppe Ungaretti). Il Grande Massacro fu innanzitutto una guerra di trincea. Vere e proprie ecatombi a cielo aperto che si ricorrevano per centinaia di chilometri, tane dove i soldati vissero per 4 anni ammassati uno addosso agli altri. Oltre la guerra poco distante, uomini con diverse uniformi dovevano combattere fame e sete, pioggia e melma, la pazzia sempre in agguato, topi, cimici e scarafaggi. Alcuni erano presi da cancrene che mangiavano i corpi. La trincea produceva malattie e poi epidemie che colpivano sia i militari che i civili. Poi arrivò la “spagnola” che nel 1918 fece strage su una popolazione indebolita ma già dal 1915 si erano diffusi tifo, polmoniti, febbri ed altro.

Fame. Un esempio. A Valdobbiadene, cittadina della Marca trevigiana, in una lapide che ricorda il tributo di sangue si può leggere: «Cittadini uccisi da proiettili n. 51 – Cittadini morti per fame n. 484». Da dati ufficiali sappiamo che i soldati di Valdobbiaadene morti in combattimento furono 214 e durante l’esodo per cause varie, malattie in genere altri 129. I numeri quindi dicono che la causa maggiore di morte fu la mancanza di cibo. 874 morti su un totale di 8.800 abitanti, 10% quindi. I più uccisi da una miseria che non permise loro di mangiare. La fame durante il Grande Massacro è raccontata in dettaglio da Francesco Jori nel libro «Ne uccise più la fame. La Guerra della gente comune nel Triveneto.

Donne e bambini. La guerra sconvolse anche la vita delle donne che pagarono un alto prezzo durante il Grande Massacro. Dovettero rimpiazzare in molte funzioni gli uomini partiti per il fronte, soprattutto operaie nelle fabbriche a produrre per lo più materiali bellici. Ma andarono anche al fronte come crocerossine o portatrici. Nelle retrovie furono prostitute per “consolare” i combattenti. Dopo Caporetto furono profughe. Vale la pena sottolineare la vicenda delle donne italiane internate in quel periodo. Fra le migliaia di civili e italiani internati, soprattutto nel Sud, dall’esercito italiano durante il Grande Massacro molte furono le donne. Come gli uomini, furono accusate di spionaggio o di sentimenti anti-patriottici. Dopo la prima fase della guerra, caratterizzata da un gran numero di internamenti femminili, soprattutto nei territori occupati dall’esercito italiano, la caccia al nemico interno crebbe durante il periodo 1917-1918, al fine di garantire la sicurezza di fronte a un gran numero di donne sospettate e internate come spie nemiche pur senza indizi di colpevolezza. E analizzando le cause di internamento femminile troviamo innanzitutto stereotipi anti-femminili. Le memorie di un maestra di Grado, Antonia Fonzari, hanno il titolo «Ricordi amari». Bambini e ragazzi, sotto i 14 anni, erano  12 milioni, vissero la guerra come figlie e figli, sorelle e fratelli di quei soldati che combattevano. Soffrirono  in tutte le situazioni: famiglia, scuola e luoghi di lavoro. Fra i civili che morirono vi furono molti bambini.                                                                                  

Dopo Caporetto, esodo, saccheggio e stupri.                 Indubbiamente dietro il disastro di Caporetto vi furono incapacità militare dell’Alto Comando e rigetto collettivo dei soldati a farsi assurdamente uccidere. Dopo la rotta di Caporetto circa 600.000 civili, provenienti prevalentemente dalle provincie di Treviso, Venezia e Udine, furono costretti ad abbandonare improvvisamente il territorio invaso o minacciato da vicino dall’esercito austro-ungarico dando vita alla più grande tragedia civile collettiva che interessò la popolazione durante il Grande Massacro. Fu la Caporetto delle famiglie. Ci furono ovviamente atti di vandalismo e la devastazione aumentò a causa dei saccheggi perpetrati dai soldati di von Below, che entrarono vincitori in città e paesi presentandosi talora con il volto più crudele e violento dei saccheggiatori. Il sito «Vecchia Conegliano e dintorni» racconta l’occupazione di Castel Roganzuolo, una frazione del comune di San Fior in provincia di Treviso: «I soldati germanici e austro-ungarici non si accontentavano di dare sfogo alla fame repressa: uccidevano il bestiame, ne consumavano una parte e lasciavano l’altra marcire nella strada; gettavano il grano sotto le zampe dei cavalli; si ubriacavano direttamente alle botti e non si davano nemmeno il disturbo di tapparle dopo essersene serviti, sicché il vino scorreva per le cantine. Il saccheggio metodico non lasciò intatta alcuna casa e la popolazione venne ridotta alla fame. Si racconta che in certi paesi la gente raccattava perfino gli escrementi dei cavalli, nella affannosa ricerca di qualche chicco di granoturco per sfamarsi. I pochi beni e la vita stessa degli abitanti erano quotidianamente appesi ad un esile filo. Ogni notte c’era il rischio che un gruppo di soldati penetrasse a forza in casa: alla ricerca di cibo o per violentare le donne che vi abitavano. Oltre allo stupro notturno, le donne erano spesso oggetto di forme di violenza più “meditate”. Povere madri, spesso profughe, che si recavano presso qualche comando locale allo scopo di ottenere un lasciapassare o una tessera annonaria, venivano costrette dagli ufficiali a subire lo sfogo delle loro basse passioni per ottenere ciò di cui avevano assoluto bisogno». Lo «stupro del Belgio» fu all’inizio uno slogan per raccontare l’invasione tedesca, nel 1914, di quel Paese neutrale ma le atrocità – compresi gli stupri commessi dall’esercito del Kaiser – gli hanno dato un significato letterale, reale. Dopo Caporetto anche le donne dei territori invasi dagli austroungarici divennero bottino di guerra; come del resto accade per tutti gli eserciti vittoriosi. Ecco una fonte d’informazione diciamo “ufficiale”: si formòin Italia, dopo il Grande Massacro, una Commissione d’inchiesta sui crimini compiuti dall’invasore dopo Caporetto. I suoi lavori si conclusero con la pubblicazione del volume «Il martirio delle terre invase», nel quale si parlava anche dei numerosi stupri subiti da donne italiane. In seguito, la “Reale Commissione d’Inchiesta” pubblicò ben sette volumi fra il 1920 e il 1921: si tratta delle «Relazioni della Reale Commissione d’inchiesta sulle violazioni dei diritti delle genti commesse dal nemico». Il IV volume dedicava un intero capitolo alla ricostruzione delle violenze carnali inflitte a donne italiane da parte dei militari dell’esercito austroungarico: si tratta del capitolo “Delitti contro l’onore femminile.” L’argomento era ripreso nel VI volume, al cui interno si riportavano documenti, testimonianze, aneddoti. I soli casi accertati di stupro da parte degli invasori furono 735 ma la relazione medesima ammetteva che ve ne erano stati moltissimi altri che erano “sfuggiti” anzitutto per vergogna delle vittime e delle loro famiglie. Gli stupri erano sovente accompagnati da violenze d’altro tipo. Spesso i mariti o i padri vennero assassinati durante le aggressioni sessuali, specie se cercavano di difendere le donne ma perfino in assenza di reazione. In altri casi furono le donne a venire uccise dopo lo stupro: 53 subito dopo, mentre altre 40 morirono giorni od anche mesi dopo, in conseguenza delle violenze. Molte altre furono contagiate da malattie veneree. Le violenze avvenivano abitualmente a mano armata e in gruppo e riguardarono donne d’ogni età: dalle bambine sino a vecchie ottuagenarie. Sovente le madri furono violentate davanti ai propri figli.

Italiani che combatterono con un’altra divisa, sotto un’altra bandiera. Nell’ agosto del 1914, più di centomila trentini, triestini e goriziani andarono a combattere per l’Impero austrungarico di cui erano sudditi. Furono inviati al fronte russo, alla frontiera di quell’ Impero. Molti morirono nelle carneficine nelle pianure polacche, in Bucovina ed in Galizia. E’ un fatto che sembra censurato, annegato nella retorica delle celebrazioni del centenario, come se per questi italiani fosse negato il diritto alla memoria. Una guerra ancora sconosciuta dove si cantava in dialetto trentino o giuliano, ma anche in italiano, canti malinconici ed inquieti:

Quando fui sui Monti Scarpazi                                                                                                          

miserere sentivo cantar                                                                                                                         

ti ho cercato tra il vento e i crepazi                                                                                                         

ma una croce soltanto ho trovà…      

I I prigionieri italiani furono portati in un campo di prigionia ad Isernia e trattati in condizioni disumane. Poi durante la dittatura fascista, considerati “ austriacanti” subirono epurazioni ed esclusioni da benefici assistenziali per mutilati di guerra ed altro. La vicenda è ben raccontata in un libro di Paolo Rumiz, Come cavalli che dormono in piedi.

IL GRANDE MASSACRO A MONTEBELLUNA E DINTORNI

Montebelluna nel 1916

Tutto iniziò e terminò in Veneto, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adice, nel Triveneto. Montebelluna si trova nel cuore di questo territorio,ai piedi del Montello e a sud ovest del Piave. Montebelluna visse in prima persona e in prima linea il  1915-1918. Il primo morto a Montebelluna  fu dopo un anno dall’inizio, nel maggio 1916. Dopo Caporetto, fra il novembre del 1917 e il novembre del 1918, i numeri diventarono più tragici e pesanti. Il territorio di Montebelluna venne bombardato dall’alto  per 21 volte e colpito dalle artiglierie oltre Piave per ben 48 giorni. Ė stata, più che altre, una vera e propria città al fronte. Per esempio nella battaglia del settembre 1917 fu al centro dello schieramento italiano che bloccò l’avanzata degli austriaci, con davanti le armate settima, sesta, quarta, ottava e terza e alle spalle la nona armata di contenimento. Vicine a Montebelluna vanno ricordate, per esempio, Sernaglia e Nervesa. A Sernaglia vi è l’Isola  della Morte, dove furono ingenti perdite di vite umane, sia italiane che austriache, Nervesa nel giugno del 1918 al centri di accaniti combattimenti fu distrutta.

Montello 1918, trincea con morti.

1917, BATTAGLiE D’ARRESTO, AL CENTRO MONTEBELLUNA.

ALCUNI EPISODI DA RACCONTARE.                               Vi sono stati molti episodi, a Montebelluna e dintorni, che raccontano la Grande Guerra per quello che in realtà è stata un Grande Massacro. Alcuni tra i quali sono i seguenti.

Montebelluna abbandonata. Dopo Caporetto a Montebelluna, come altrove, la popolazione rimane e soffre o va profuga il lontani luoghi dell’Italia e sempre soffre. Coloro che abbandonarono Montebelluna  furono le autorità. Significativo è un rapporto del 17 novembre 1917 del tenente colonnello Monfardini all’ Intendenza della IV armata: Le autorità sottosegnate di Montebelluna  abbandonarono già da 5 o 6 il i loro uffici, e questa loro fuga fece una cattiva impressione nella popolazione rurale che quasi tutta è rimasta e avrebbe bisogno di aiuti e consigli.” I fuggitivi furono quindi il sindaco, il segretario e gli impegati del comune, medici, ma non la popolazione.

Prostituzione. Durante la prima guerra mondiale si diffusero sempre di più nei paesi vicino alle zone di guerra, le case chiuse. Ma vi furono molte donne che si prostituirono non neii casini. Erano, per lo più, madri , non riuscendo a mantenere i  figli mentre i mariti erano al fronte, erano costrette a prostituirsi pur di portare un pezzo di pane a casa. Da un documento della storica Laura Matelda Puppini ( Capitolo quarto di O gorizia tu sei maledetta…): Maria G. e Anna V. con le figlie, furono internate perché, dopo essersi sottratte agli ordini di sgombero delle retrovie del Piave, si prostituivano clandestinamente nei pressi di Montebelluna, nuocendo «al buon ordine, alla disciplina e all’immagine dei numerosi reparti». Maria era vedova, Anna aveva dieci figli, tra cui tre, di 22, 18 e 17 anni, praticavano la prostituzione per mantenersi…                                                          

Ospedale militare di Montebelluna. L’ospedale militare di Montebeluna a pochi chilometri dal fronte è ben raccontato nel romanzo “La Montelliana” di Gianni Pomante.                                                  

Fucilazioni a Nervesa della Battaglia.            

Dopo la rotta di Caporetto l’esercito italiano si assestò sulla linea del Piave. Furono giorni di confusione e di tensione, anche tra i vertici militari e le truppe. La brigata Treviso,  è a Nervesa della Battaglia. Tre soldati, fra cui un caporale, erano stati sorpresi dal Colonnello Brigadiere Giuseppe Barbieri che uscivano da una villa di Nervesa con della biancheria, un paio di camicie e mutande pulite con le quali cambiarsi di indumenti sporchi e pieni di insetti. Vennero interrogati e tre ore arrivò dal Comandato di Brigata l’ordine di fucilarli. Invano valse il tentativo del olonnello stesso di far ridurre la pena. Furono fucilati il 2 novembre 1917 da un plotone d’esecuzione che pianse per l’ordine assurdo. Dovettero presenziare ufficiali e compagni d’armi sgomenti. I fucilati non si lamentarono né vollero essere bendati.

FUCILATI E DECIMATI.

Il tragico episodio di Nervesa ricorda che l’ Italia detiene il record pesante di essere al primo posto in fatto di fucilati e decimati. In un esercito di 4 milioni e 200 mila soldati al fronte ne “giustiziò” circa 1000. L’esercito francese che iniziò la guerra nel 1914, un anno prima, ebbe 6 milioni di soldati e 700 fucilati. Nell’esercito inglese furono 350 e in quello tedesco una cinquantina. L’Italia deve ancora fare i conti con questo capitolo doloroso e rimosso dalla memoria nazionale. l numero esatto non è conosciuto, fucilati e comunque uccisi dal piombo di altri soldati italiani perché ritenuti colpevoli di codardia, diserzione o disobbedienza. Fra di loro ci sono anche i decimati, estratti a sorte da reparti, ritenuti vigliacchi e passati per le armi per dare l’esempio.

 

 

Di Francesco Cecchini

Nato a Roma . Compie studi classici, possiede un diploma tecnico. Frequenta sociologia a Trento ed Urbanistica a Treviso. Non si laurea perché impegnato in militanza politica, prima nel Manifesto e poi in Lotta Continua, fino al suo scioglimento. Nel 1978 abbandona la militanza attva e decide di lavorare e vivere all’estero, ma non cambia le idee. Dal 2012 scrive. La sua esperienza di aver lavorato e vissuto in molti paesi e città del mondo, Aleppo, Baghdad, Lagos, Buenos Aires, Boston, Algeri, Santiago del Cile, Tangeri e Parigi è alla base di un progetto di scrittura. Una trilogia di romanzi ambientati Bombay, Algeri e Lagos. L’ oggetto della trilogia è la violenza, il crimine e la difficoltà di vivere nelle metropoli. Ha pubblicato con Nuova Ipsa il suo primo romanzo, Rosso Bombay. Ha scritto anche una raccolta di racconti, Vivere Altrove, pubblicata da Ventura Edizioni Traduce dalle lingue, spagnolo, francese, inglese e brasiliano che conosce come esercizio di scrittura. Collabora con Ancora Fischia IL Vento. Vive nel Nord Est.

Un pensiero su “UN MEMORIALE DELLA GRANDE GUERRA A MONTEBELLUNA. ”
  1. Un Plauso a Francesco Cecchini per l’ approfondita e documentata Ricerca Storica, arricchita con numerose foto d’ epoca dei tragici avvenimenti dell’ ” inutile strage”, che procurò immani sofferenze al Popolo Italiano e ai Popoli Europei. ( Il Documento serve a ravvivare la memoria a tutti, ma specilmente alle nuove generazioni,) aldilà della vuota e imperante Retorica.

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