Inutile negarlo o sottovalutarlo: la storia dell’educazione è una storia di violenza. L’insegnamento è nato, e ancora oggi è pensato, come relazione che si alimenta con la paura della punizione e con il controllo di ogni singola azione di bambini e ragazzi. Ma c’è una violenza più sottile. “La scuola è un sistema che cerca di dar forma alle persone secondo un’idea di come dovrebbero essere – scrive Antonio Vigilante in A scuola con la mindfulness. Riflessioni ed esercizi per portare l’Educazione basata sulla Consapevolezza nella scuola italiana (Terra nuova ed.) – Quest’idea di riferimento… si pretende universale, ma non lo è. È l’ideale di uomo e di donna che è stato abbracciato dalle classi dominanti europee degli ultimi secoli e che, in una società complessa, è destinato a cambiare con una rapidità che stordisce…”. Per eliminare dall’educazione la violenza (in quanto comportamento ma anche relazione di tipo economico e politico) occorre ripensare la figura dell’insegnante e la relazione educativa, anche perché le possibilità di apprendere sono ormai diffuse ovunque, si può imparare anche fuori da scuola. “Bisogna ripensare il processo, renderlo interamente dinamico. Diversamente dalla visione tradizionale, in cui l’insegnante è fermo e lo studente si muove, dobbiamo provare a mettere in movimento entrambi… In tal modo, una classe non è composta più da una persona che insegna e venti o trenta che imparano, ma da una comunità che apprende insieme. Lo studente e l’insegnante si muovono insieme… Chiaramente, restano diversi, per età, per cultura, per visione del mondo, ma si impegnano in un’impresa comune…”. Di seguito, ampi stralci di un paragrafo di A scuola con la mindfulness

Lezione in piazza per “Piccola polis“, la prima elementare della scuola nata dall’esperienza dell’Asilo nel bosco di Ostia

 

di Antonio Vigilante*

[…] Come educatore non posso fare a meno di chiedermi come aiutare gli studenti a liberarsi dal loro inferno interiore. Si potrebbe obiettare che un insegnante non è uno psicoterapeuta, né un assistente sociale, ma ha semplicemente il compito di formare culturalmente gli studenti e di prepararli a diventare dei membri attivi della società. Questo modo di pensare è comprensibile: i docenti sono sempre più oberati di incarichi, anche burocratici, e affidare loro la serenità psicologica degli studenti significa caricare sulle loro spalle, socialmente sempre più fragili, un fardello pesantissimo. Ma è inevitabile che debbano occuparsi e preoccuparsi anche di questo, se vogliono essere degli educatori, delle persone che aiutano altre persone a crescere (e magari, come vedremo, crescono insieme a loro), e non dei competentissimi e freddi trasmettitori di informazioni.

Il problema della violenza non è un problema tra gli altri dell’educazione. È ‘il’ problema dell’educazione. La violenza è la più grande forza diseducativa che esista. Educarsi vuol dire, trascendersi, aprirsi, realizzarsi. La violenza riduce l’altro, colui su cui la si esercita, ma riduce anche chi la compie, lo mortifica, lo umilia, lo mutila. Rende piccoli, meschini, umanamente menomati.

Occuparsi di come uscire dalla violenza significa andare al centro dell’educazione. Un centro che è nella nostra mente, ma dal quale si dipartono rami che vanno verso la relazione con l’altro, l’economia, la politica, la cultura.

Educazione e violenza

[…] La storia stessa dell’educazione è una storia di violenza. Se dovessimo racchiudere in una sola immagine ciò che è stata per secoli in Occidente (ma altrove non va molto diversamente) e in gran parte è ancora, dovremmo indicare strumenti di tortura: la ferula, il bastone, la frusta. Strumenti rivendicati ancora da uno straordinario educatore come don Lorenzo Milani: “Noi per i casi estremi si adopra la frusta. Non faccia la schizzinosa e lasci stare le teorie dei pedagogisti” (Scuola di Barbiana 1996, pp. 82-83). Noi faremo gli schizzinosi, invece, pur senza amare troppo la pedagogia e i pedagogisti. A difesa di don Milani diremo che, nonostante la frusta per i casi estremi, la sua scuola è infinitamente più libera di quella della professoressa cui è indirizzata la lettera. […] Nella scuola pubblica regnano l’ordine, il silenzio, un rispetto fondato sulla paura della punizione e sul controllo minuto di ogni singola azione: lo studente, anzi l’alunno, deve chiedere il permesso per uscire dall’aula, per alzarsi dalla sua sedia e perfino, spesso, per cercare qualcosa nel suo zaino. È un sistema fondato sul controllo e sulla paura. Ed è qui che va ricercata la ragione del malessere e dello stress scolastico.

In nessun altro sistema si viene privati della libertà – perché quella degli studenti nelle scuole è, a tutti gli effetti, una detenzione – e anche costantemente sottoposti allo sguardo che disciplina e controlla.

Ma c’è una violenza più sottile. La scuola è un sistema che cerca di dar forma alle persone secondo un’idea di come dovrebbero essere. Quest’idea di riferimento, che comprende tratti caratteriali, virtù, conoscenze e una certa visione del mondo, si pretende universale, ma non lo è. È l’ideale di uomo e di donna che è stato abbracciato dalle classi dominanti europee degli ultimi secoli e che, in una società complessa, è destinato a cambiare con una rapidità che stordisce: si pensi all’ideale di donna degli anni Cinquanta e a quello attuale. Una cosa però non cambia nel tempo: l’ideale umano è sempre quello delle classi dominanti. La scuola esprime la Weltanschauung di chi nella società gestisce il potere e ha la funzione, tra le altre (e non è da escludere che sia la sua funzione principale, anche se in crisi), di conferire lo status sociale a coloro che si adeguano a quella visione. È un sistema di imborghesimento e, per coloro che resistono, c’è l’esclusione, cui è collegato il conferimento di uno status sociale basso.

La religione della scuola

Che ne siamo consapevoli o meno, quella della scuola è in fin dei conti una religione, poiché propone la salvezza: colui che finisce fuori dal sistema scolastico è perduto, mentre lo studente al quale si riesce a evitare la bocciatura, ossia l’esclusione dal sistema di imborghesimento, è salvato. “L’abbiamo salvato”, dirà soddisfatto l’insegnante che è riuscito a evitare una bocciatura. Salvare e perdere sono verbi di uso comune nella scuola, dove anche l’insegnante più progressista è inserito in un sistema che guarda con estremo disprezzo a chi ne è fuori, o ne è stato escluso.

Extra scholam nulla salus: fuori dalla scuola non c’è salvezza, non è possibile imparare davvero, non è possibile crescere e ottenere la stima sociale. E in parte è vero. Nella nostra società, coloro che sono espulsi dal sistema scolastico finiscono spesso per fare lavori poco apprezzati e poco remunerati, sia in termini economici che di status. Eppure sono evidenti due cose: la prima è che siamo in una società della conoscenza, nella quale le possibilità di apprendere sono ovunque (si può imparare anche fuori da scuola, oggi più di ieri) e la stessa scuola fatica non poco ad adeguare i propri saperi alle trasformazioni sociali. La seconda è che a scuola si impara effettivamente poco, pochissimo, in relazione agli sforzi che sono necessari per impararlo. Anni e anni per cercare di apprendere una lingua che una persona realmente interessata imparerebbe in meno di sei mesi.

La difficoltà e il paradosso della scuola stanno proprio qui: pretende di insegnare in mancanza di un interesse. E il più delle volte l’impresa non ha successo, anche se a tutti pare diversamente. La cosa che riesce meglio è probabilmente la simulazione  dell’apprendimento.

La radice della violenza educativa sta nel cercare di plasmare bambini e adolescenti secondo un modello predefinito. Se c’è resistenza, bisogna ricorrere ai sistemi più vari: la violenza fisica, la minaccia, il ricatto, la punizione. La pedagogia è sempre ortopedia; tutto il sistema educativo funziona sulla psiche allo stesso modo in cui un dispositivo ortopedico agisce sul corpo: raddrizza, corregge, modella il bambino affinché diventi come vuole l’adulto. All’inizio c’è dolore, ma poi ci si abitua e lentamente la psiche, come il corpo, prende la forma desiderata.

[…] Il maestro è la figura chiave della pedagogia-ortopedia. Il termine deriva da magis, che significa “colui che è più grande degli altri” e la principale caratteristica del maestro è proprio questo suo soprastare, spazialmente simboleggiato dalla cattedra, tradizionalmente sopraelevata rispetto al resto della classe. Il maestro sta sopra perché ha più conoscenza e siccome ha più conoscenza ha il diritto di esercitare il potere. A lui la società affida il compito di rappresentare se stessa, di essere una sintesi vivente dei suoi valori, della sua visione del mondo, del suo stile di vita.

Da qualche tempo, però, questa visione del maestro è entrata in crisi. La società non si riconosce più nei suoi insegnanti, non si affida più, non si sente rappresentata da loro. Il patto di ferro tra classe docente e classe dominante sembra essersi infranto. Come conseguenza, lo status sociale degli insegnanti è sempre più basso, non solo in relazione agli stipendi, ma anche e soprattutto per il prestigio sociale. Una volta le famiglie affidavano i figli ai maestri e alle maestre, poi ai professori, e sentivano di aver messo la loro vita nelle mani di esperti di educazione e cultura. Oggi le competenze degli insegnanti sono sempre più messe in discussione e la loro autorità delegittimata. I genitori, che hanno il più delle volte uno o due figli, intendono prendere in carico direttamente la loro educazione, in qualche caso secondo visioni in contrasto con quelle dominanti nella scuola pubblica. Da qui la scelta, che si sta diffondendo anche nel nostro paese, dell’homeschooling o scuola parentale: i genitori rifiutano semplicemente di mandare i figli a scuola, educandoli in casa secondo i propri criteri.

Questa crisi può essere affrontata in due modi. Il mondo della scuola può chiudersi in se stesso, rivendicare i propri diritti, lamentare l’autorevolezza perduta e accusare a sua volta la società di essere diseducativa, causando in tal modo uno scollamento sempre più profondo tra scuola e società. Oppure può cogliere l’occasione della crisi per cambiare, a partire da un profondo ripensamento della figura dell’insegnante e dal rifiuto della pedagogia.

Dalla pedagogia alla sinagogia

Il modo in cui viene considerata la figura del maestro rappresenta una delle differenze più significative tra il buddhismo, l’insegnamento di Siddhartha Gautama, e il suo retroterra indiano. Per molte scuole filosofico-religiose indiane, la salvezza è possibile solo attraverso il contatto con un maestro spirituale, il guru, colui che conduce dall’oscurità dell’ignoranza alla luce della conoscenza. Il rapporto tra maestro e discepolo è strettissimo, basato sulla condivisione quotidiana e sul servizio dell’adepto, che venera il proprio maestro come un padre spirituale. […] Il motivo dell’assenza di questa figura nel buddhismo va ricercato nella sua essenza schiettamente filosofica. L’insegnamento del Buddha è ehipassika, cioè tale che può, anzi deve essere verificato da tutti, e privo di elementi esoterici: “chiaro, aperto, evidente e senza pecche” lo definisce il Buddha stesso (Alagaddupamasutta, Gnoli 2001, p. 248). Il dharma del Buddha indica un sentiero chiaro per raggiungere il risveglio, che ognuno deve percorrere da sé. Non completamente da solo, certo: esiste la comunità dei praticanti, il sangha, che svolge funzioni non diverse da quelle dell’ecclesia per i cristiani e dell’umma per i musulmani (con gli stessi risvolti negativi). Ma esiste anche, ed è quello che qui ci interessa, la figura del kalyanamitta, il “buon amico” o “amico spirituale”. […] Il “buon amico” è colui che aiuta il praticante a percorrere il nobile ottuplice sentiero, non da una posizione di autorità e di superiorità, come quella dei guru, ma come un compagno di viaggio. […]

Mi pare che ci siano, in questa concezione, degli elementi interessantissimi per ripensare la figura dell’insegnante e la relazione educativa. Come abbiamo detto, la visione tradizionale del docente, che oggi appare in crisi, è fortemente asimmetrica. Benché privo di sacralità, egli rappresenta l’autorità, il depositario non solo del sapere disciplinare, ma anche della verità morale, dei criteri del bene e del male: istruisce ed educa al tempo stesso. Per proporsi come autorità, occorre che egli concepisca se stesso e sia visto dagli studenti e dalle loro famiglie come una persona che ha concluso il proprio percorso educativo, che non è più in cammino, ma ferma, e pertanto può porsi come meta ideale della crescita dei suoi studenti.

In una situazione educativa tradizionale, quando le cose funzionano, infatti, c’è un movimento degli studenti verso l’insegnante. Oggi questo movimento è in crisi perché la meta ideale non è più riconosciuta come tale. La società, come detto, nega ogni autorevolezza agli insegnanti, e così anche gli studenti e le loro famiglie.

Che fare allora? Bisogna ripensare il processo, renderlo interamente dinamico. Diversamente dalla visione tradizionale, in cui l’insegnante è fermo e lo studente si muove, dobbiamo provare a mettere in movimento entrambi. Il docente non deve essere considerato come qualcuno che ha concluso il suo percorso educativo, ma come un individuo in crescita, che ha ancora da imparare e può farlo anche grazie al rapporto con i suoi studenti. In tal modo, una classe non è composta più da una persona che insegna e venti o trenta che imparano, ma da una comunità che apprende insieme. Lo studente e l’insegnante si muovono insieme: cercano la verità, il bene, il bello, la liberazione dalla violenza, una società più giusta. Chiaramente, restano diversi, per età, per cultura, per visione del mondo, ma si impegnano in un’impresa comune, proprio come gli alpinisti che, pur trovandosi su punti diversi, più o meno avanzati, della montagna da scalare, lavorano in gruppo e se sbaglia uno cadono tutti. Nelle ricorrenti discussioni sullo stato attuale dell’educazione, si sentono spesso lamentele relative al fatto che insegnanti e genitori oggi rinunciano alle responsabilità educative per diventare amici dei loro studenti o dei loro figli. L’amicizia diventa, in questa “chiacchiera pedagogica” (e molta pedagogia è proprio questo: chiacchiera), una cosa negativa. In realtà, il senso profondo dell’amicizia è proprio una di quelle cose che gli adulti possono imparare dagli adolescenti, ai quali, a loro volta, possono insegnare cos’è un’amicizia ‘spirituale’, fatta di condivisione di cose profonde, di interrogativi morali, di indagini filosofiche, di percorsi comuni. Non riesco a pensare la relazione educativa se non come un’amicizia spirituale, o amicizia nel bene.

Ripensando in questo modo la relazione educativa, è possibile lasciarsi alle spalle la pedagogia, con la sua inevitabile ombra ortopedica. Va detto, peraltro, che lo stesso termine “pedagogia” diventa palesemente inadeguato nel momento in cui si parla di apprendimento per tutta la vita, e non solo in riferimento ai bambini. Se l’educazione è un processo comune, che coinvolge tanto chi è educato quanto chi educa, allora possiamo parlare di “sinagogia”: l’educarsi insieme (syn). Non c’è nessuno che sia depositario della verità sul bene, sul vero, sul giusto. La verità va cercata insieme e possono essere considerati luoghi educativi tutti quelli in cui si verifichi questa ricerca comune.

Ritengo importante questa premessa riguardo la relazione educativa perché, introducendo la meditazione nell’insegnamento, c’è il rischio che a qualcuno appaia come una via per riconquistare un’autorevolezza perduta. Di tutto abbiamo bisogno tranne che di insegnanti-guru che si propongano come modelli di realizzazione spirituale, come in passato si proponevano quali esempi di cultura e di morale. L’approccio sinagogico alla mindfulness in educazione presuppone che l’insegnante abbia la già menzionata “mente di principiante”, che a dire il vero dovrebbe caratterizzare sempre la pratica dell’insegnamento, qualunque cosa si voglia insegnare (sulla mindfulness come pratica di meditazione che può rivelarsi utilissima per affrontare il bullismo nella scuola e le difficoltà di concentrazione e di relazione degli studenti leggi anche La mindfulness a scuola

 

https://comune-info.net/2018/11/una-comunita-che-apprende-insieme/

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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