Si può vivere, disarmati, dentro una guerra infinita senza diventare come chi la fa? La storia della guerra interna colombiana per decenni è sembrata escludere in modo categorico questa possibilità. Centinaia di migliaia di morti, milioni di desplazados e poi i cartelli del narcotraffico, le basi militari del cortile di casa del Grande Fratello del Nord, l’ipocrisia di un processo di pace senza verità né giustizia… Bisognava scegliere, capire da che parte stare, distinguere i fini dai mezzi, tertium non datur: in fondo, da una parte c’era la guerriglia più forte e longeva del Sudamerica e dall’altra la violenza inaudita dei paramilitari e dell’esercito regolare. E poi la guerra in Colombia pare sempre sfuggire a ogni ragione, sembra un destino. C’è perfino chi è arrivato a sostenere che si tratti di un elemento genetico. E invece, alla fine del Novecento, diverse centinaia di persone hanno deciso di resistere con un progetto assurdo, addirittura impensabile in un contesto dove la sola possibilità di sopravvivere era decidere da che parte stare. Quelle persone osavano l’impossibile: vivere in mezzo alla guerra senza prendervi parte. Da 21 anni la Comunidad de Paz di San José de Apartadó resiste disarmata nella selva colombiana all’assedio dei paramilitari e alla persecuzione giudiziaria, agli interessi miliardari dei narcos e agli insaziabili appetiti delle multinazionali. In questi giorni, molti dei nostri lettori stanno sostenendone l’autonomia con le barrette di cioccolato Comune. Un piacere disarmante che ha il sapore della vita che si difende perfino dove nessuno lo credeva possibileFoto: Comunidad de Paz de San José de Apartadó di Marco CalabriaSuor Clara glielo aveva detto che a San Josecito non c’era nessun giorno uguale a un altro. Quel giorno, un giovedì di novembre, erano arrivati al villaggio di Arenas e avevano trovato tutti fuori, terrorizzati. Luis Hernando aveva un proiettile conficcato nella spalla. L’altro contadino, Arlen Salas, era nel campo di mais, fatto a pezzi da una granata. I soldati avevano aperto il fuoco anche contro la scuola, perché da lì – avevano detto – erano partiti dei colpi d’arma da fuoco contro di loro. Nella scuola, però, c’erano solo il maestro e sei alunni. La sola arma presente, aveva spiegato l’insegnante, erano dei gessetti.Ecco, si potrebbe riassumere anche così, con questa sintesi della testimonianza diretta di una volontaria spagnola, Yolanda Rodriguez, la chiave interpretativa della straordinaria vicenda della resistenza nonviolenta della Comunidad de Paz di San José de Apartadó, in Colombia. Si tratta, certo, di una delle testimonianze meno cruente: qui non si parla di motoseghe, stupri, decapitazioni, massacri di bambini o delle indicibili torture compiute tra gli sghignazzi degli assassini. Eppure, le semplici parole riportate in un eccellente saggio d’archivio di Rubèn Dario Pardo Santamaria (Pardo Santamaria, 2005) ci pare contengano ancora tutti gli elementi essenziali di una storia che da 21 anni conserva un posto davvero molto speciale negli occhi e nel cuore di migliaia di persone disseminate in ogni angolo del pianeta.Nel racconto di Yolanda c’è la guerra dei militari (e non solo dei “para”) e la scelta disarmata dei contadini e del maestro. Ci sono la morte, con i suoi strumenti spropositati, e la vita, con i bambini a scuola. E ci sono, soprattutto, l’assurdità del pretesto, la certezza di poter mentire restando impuniti e la verità sconcertata dall’orrore nella testimonianza dei volontari delle brigate internazionali. La guerra, d’altro canto, per esistere, deve poter mentire. Nessuna guerra ha il coraggio di confessare le proprie ragioni, che sono quasi sempre quelle della rapina. Bisogna inventare motivazioni per uccidere in nome della pace, di dio, della lotta a potenziali minacce, della democrazia, della civiltà, della modernità, della liberazione dal narcotraffico…L’ultima aggressione armata dei paramilitari colombiani nei confronti della Comunità di San José è del dicembre scorso. In questi anni, sebbene abbiano avuto diversa natura, ne sono sono state contate centinaia. Foto: Monitoreo de MediosLa guerra non è un destinoLa Colombia è territorio di guerra per antonomasia. Nel nostro tempo, lo è da almeno 60 anni, da quando, nel gennaio del 1960, in un piccolo villaggio di montagna venne assassinato Jacobo Prías Alape, detto il Charro Negro, l’uomo che aveva insegnato a leggere e poi avvicinato alle idee del comunismo Pedro Antonio Marín Marín, più noto col nome di battaglia: Manuel Marulanda, detto “Tirofijo”, il fondatore della guerriglia più antica del Sudamerica: le Forze armate rivoluzionarie della Colombia, le FARC. Da allora, sulla terra colombiana corrono fiumi di sangue: centinaia di migliaia di morti e desaparecidos e diversi milioni di persone, i desplazados, costrette ad abbandonare il proprio tetto. La guerra, in Colombia, sembra poter sfuggire a ogni ragione, sembra un destino. C’è perfino chi è arrivato a sostenere che si tratti di un elemento genetico. A loro, agli «esperti ‘violentologi’ che accusano il paese», in uno splendido testo intitolato “Una guerra disfrazada” in cui, a proposito dell’enorme business del narco-traffico, sostiene che gli statunitensi mettono il naso e i colombiani i morti, Eduardo Galeano risponde così: «È insita nei geni, dicono. È il marchio in fronte. Questo paese gioioso, appassionato, innamorato della morte? Perché non lo chiedono alla Comunità di Pace di San José de Apartadó?». (“Pueblos en camino”, 2018).Negli ultimi anni del Novecento, nel dipartimento di Antioquia della regione di Urabá della Colombia nord-occidentale, quasi al confine con Panama, la guerra e gli appetiti delle multinazionali sulla florida produzione di banane avevano formato una miscela esplosiva. La vecchia United Fruits Company, oggi Chiquita, nutriva un interesse strategico per quelle terre fertili. Per impossessarsene, non esitò a finanziare i gruppi paramilitari creando un vero e proprio regno del terrore, la condizione necessaria a far fuggire i campesinos. Ben presto i desplazados si contarono a migliaia, ma poco meno di 400 persone decisero di resistere con un progetto assurdo, addirittura impensabile in un contesto dove la sola possibilità di sopravvivere era decidere da che parte stare. Quelle persone, invece, osavano l’impossibile: avevano deciso vivere in mezzo alla guerra senza prendervi parte.Nasceva così, il 23 marzo del 1997, la Comunidad de Paz. Prima i comuneros si raccolsero a San José de Apartadó, un paese diventato fantasma in seguito ai massacri avvenuti e abitato quasi solo dai reparti armati, poi si spostarono in una terra limitrofa che ribattezzarono San Josecito, il piccolo San Josè. Costruirono nuove case, seminarono fagioli, canna da zucchero, riso, yucca, mais, banane e cacao e cominciarono ad allevare pesci e maiali. Cucinavano il poco che riuscivano a mettere insieme in una sola olla comunitaria, dove prima mangiavano i bambini e poi le donne. Se qualcosa avanzava, toccava agli uomini. Poi cominciò ad arrivare qualche aiuto ma l’obiettivo dei comuneros restava raggiungere la sopravvivenza con quel che si produceva. L’assedio di centinaia di paramilitari, protetti dall’esercito regolare, era un incubo costante. In Colombia quasi nessuno dava credito a quella neutralità. Specialmente durante il mandato presidenziale di Álvaro Uribe, le accuse di avere legami con la guerriglia delle FARC erano martellanti, malgrado la Comunità avesse subito almeno 20 aggressioni e alcuni suoi leader erano stati uccisi proprio dalla guerriglia.Foto: eldiario.esLa Comunità è un processo che appartiene a tuttiNel 2005 ci furono i massacri più tremendi. Quello è stato, fino ad ora, il periodo più sanguinoso della violenza paramilitare e dell’esercito: più di 300 morti nella Comunità, oltre mille azioni d’intimidazione con violenze sessuali, distruzione di case, campi bruciati, usurpazione di terre e relative montature giudiziarie. A San Josecito decisero di rompere le relazioni con la giustizia ufficiale, rivolgendo le loro denunce solo alla Corte Interamericana dei Diritti Umani e alla Corte Costituzionale. Entrambe pronunciarono sentenze che ordinavano allo Stato di proteggere la vita e l’incolumità delle persone della Comunità. L’apparato dello Stato che avrebbe dovuto (e dovrebbe ancora) proteggere i comuneros era però la XVII Brigata dell’Esercito. Per i suoi membri, il rispetto della dignità e dei diritti umani era, nel migliore dei casi, una perdita di tempo, mentre i paramilitari erano visti come preziosi alleati contro la minaccia comunista della guerriglia.Eppure la Comunità trovò la forza per resistere ancora. La trovò, in primo luogo, al suo interno, organizzando l’autogoverno della salute, dell’educazione, del lavoro nei campi. Di tanto in tanto, qualcuno tentava di allontanarsi per uscire dall’assedio, molti furono assassinati così. Allora si decise di uscire solo in gruppi numerosi, alcuni missionari e poi anche volontari della Croce Rossa presero ad accompagnare le spedizioni. La semina e il raccolto venivano gestiti in modo collettivo. Si cominciava a progettare un’idea solidale di economia alternativa al dominio del mercato, all’imperativo del profitto e al prevalere dell’egoismo e delle logiche individualistiche. Il sogno di una società diversa, da costruire giorno dopo giorno affermando la dignità di tutti, avanzava lentamente. Nessuno era stato abituato a lavorare e a pensare mettendo nella scala delle priorità al primo posto il benessere comune. Non fu facile crescere tenendo sempre presente che la Comunità è un processo che appartiene e riguarda tutti. C’è voluto un lavoro di formazione continuo, per questo si dice spesso che la Comunità è un’università alternativa, senza titoli e senza competizione. Il sapere è al servizio della resistenza e non genera esclusione, va condiviso per una ragione semplice: aiuta a vivere bene e a lottare meglio.In occasione del ventunesimo anniversario della fondazione, il 24 marzo scorso, il sito “Pueblos en Camino”, una delle fonti più originali e interessanti sui processi e il tessuto delle resistenze in Colombia e in tutta l’América Latina, ha pubblicato una foto di apertura che mostra un piccolo cartello scritto a mano e conficcato in un ramo a mo’ di asta di bandiera. Vi si legge: «Ventuno anni fa parlavamo di cambiare il mondo. Oggi possiamo dire di averlo fatto perché siamo stati comunità». Non si tratta di quella che qui, da qualche tempo, siamo abituati a chiamare autostima. Si tratta di qualcosa di molto più profondo e analitico, qualcosa che assomiglia al concetto forse oggi un po’ desueto di coscienza.Questa foto è stata scattata in uno molti viaggi di conoscenza e solidarietà degli amici della Cdp. Grazie a Nelly Bocchi che ce l’ha fornita.La solidarietà e il cioccolatoNon c’è alcun dubbio, tuttavia, che questa magnifica esperienza colombiana oggi non sarebbe viva se non avesse coltivato con pari pazienza e passione l’autonomia e l’attenzione per la solidarietà internazionale. A San Josecito la consapevolezza che lasciati soli sarebbero stati trucidati è ancora piuttosto palpabile. Quando si parla di solidarietà internazionale, però, non bisogna riferirsi solo o soprattutto a quella, pur essenziale, delle autorevoli istituzioni preposte alla tutela dei diritti umani o di quelle della Chiesa cattolica, che non hanno mai sottovalutato la portata delle quotidiane minacce e aggressioni. C’è di più, c’è l’ansia, l’apprensione vissuta ora dopo ora, la partecipazione appassionata con cui i gruppi o le singole persone impegnate nella solidarietà in ogni continente vivono la pressione costante dell’assedio dei paramilitari a San Josecito, Arenas, Miramar, Mulatos e negli altri villaggi del territorio occupato della Comunità di Pace. È un sentimento davvero fuori del comune, rafforzato dai molti viaggi in Colombia e dalla presenza costante di chi trascorre periodi, più o meno lunghi ma sempre particolarmente intensi, proprio nell’attività di protezione delle attività di routine dei comuneros. Un esempio significativo, in Italia, è quello dei volontari dell’Operazione Colomba, impegnati in missioni simili in altre zone difficili del pianeta come la Palestina o i campi libanesi di rifugiati al confine con la Siria.Altrettanto preziosa è però anche un altro tipo di attività solidale, che va in modo assai concreto al di là della testimonianza e della protezione. «ChocoPaz, la prima barretta di cioccolato di Modica fatta interamente con il cacao della Comunità di pace di San José, nasce da un sogno che ci ha accompagnato in un lungo percorso durato tre anni: quando li abbiamo conosciuti, ci ha impressionato la loro determinazione, la costanza nel costruire giorno dopo giorno un mondo nuovo fatto di lavoro collettivo ed educazione popolare. E poi quella capacità di custodire una memoria fertile per una storia di dolore e sofferenza, una storia lunga, che riescono a trasformare ogni giorno in speranza e futuro, rinunciando alla vendetta e alla violenza», ci racconta Sara Ongaro, antropologa della Cooperativa Quetzal di Modica, un’esperienza siciliana nata nel 1995 che oggi conta 54 soci e 10 dipendenti. (Alla barretta “Chocopaz” ha subito fatto seguito quella che abbiamo chiamato “Comune“, ndr)«Lavorare questo cacao non può lasciare indifferenti, dà un significato molto speciale al nostro lavoro per la dignità e la vita», spiega Sara, che poi precisa: «Quando loro sono attaccati, e purtroppo accade spesso, tutta la nostra cooperativa lo sa e per giorni li segue con affetto e trepidazione. Promuoviamo appelli verso le istituzioni italiane e colombiane, scriviamo articoli, raccontiamo, spieghiamo i contesti, proviamo in ogni modo, da tanto lontano, a condividere le tremende minacce che li investono. Averli qui a Modica, due anni fa, è stata una gioia e un’opportunità eccezionale per costruire una relazione fortissima. La cosa più bella, poi, è che ogni barretta di cioccolata che, dall’inverno scorso, produciamo per il commercio solidale ci pare che in qualche modo possa consolidarla».Le prime barrette del cioccolato Comune-L’eccellenza di Modica sono state distribuite all’asilo nel bosco di OstiaUn simbolo intollerabileA Modica, come altrove, gli amici della Comunità sono molto preoccupati per l’elezione presidenziale di Iván Duque, candidato della destra considerato da molti una sorta di prestanome dell’impresentabile Álvaro Uribe, l’ex-presidente del tempo dei ‘falsi-positivi’, i contadini assassinati che venivano poi mostrati alla stampa con l’uniforme della guerriglia di sinistra. Uribe oggi è alle prese con seri problemi giudiziari per corruzione e comprovati legami con il narco-traffico e i para-militari, ma è ancora molto potente. È stato lui a indicare Duque, che nel giugno scorso ha sconfitto Gustavo Petro, l’ex sindaco di Bogotà che pur ha conseguito, con 8 milioni di voti, il maggior consenso nelle urne raggiunto dalle sinistre nella storia nazionale. Insieme all’ingresso della Colombia nella Nato, quel risultato rappresenta un colpo durissimo per le speranze di pace.Duque ha già detto di voler rivedere i fragili accordi di pace siglati con le FARC dal suo predecessore, Juan Manuel Santos, insignito non senza legittime polemiche del premio Nobel per la pace. Il rischio che la Colombia di Duque si avventuri ora non solo nel ritorno in grande stile del conflitto armato interno ma anche in una nuova guerra con il vicino Venezuela è molto elevato. La rovinosa tentazione di scegliere questa nuova sanguinosa opzione nazionalista per cercare di unire un paese tanto polarizzato è grande. E, d’altra parte, lo stesso “pacifico” Santos, poco prima di uscire di scena, è stato coinvolto certamente in un attentato contro il presidente venezuelano Nicolás Maduro. L’oligarchia colombiana, al servizio degli interessi geopolitici di sempre e dell’insaziabile avanzata “territoriale” del modello ispirato dall’ideologia estrattivista, alimenta progetti politici e militari contro il Venezuela da ben prima dell’avvio del processo “bolivariano” di Hugo Chávez, un progetto oggi molto logorato dalla disperata auto-conservazione del potere da parte dell’apparato statale di Maduro. In questo nefasto scenario nazionale, l’assassinio sistematico di centinaia di esponenti di spicco della resistenza sociale e delle lotte in difesa dell’ambiente non può sorprendere. La Comunità di Pace di San José affronta dunque un contesto più minaccioso che mai. La sua resistenza è un simbolo intollerabile per i paramilitari, le forze armate regolari che li proteggono, e per gli interessi del narco-traffico che vivono, naturalmente, uno dei momenti più floridi della loro esistenza. C’è ancora spazio per affrontare una guerra senza diventare uguali a quelli che la fanno?

A Modica, come altrove, gli amici della Comunità sono molto preoccupati per l’elezione presidenziale di Iván Duque, candidato della destra considerato da molti una sorta di prestanome dell’impresentabile Álvaro Uribe, l’ex-presidente del tempo dei ‘falsi-positivi’, i contadini assassinati che venivano poi mostrati alla stampa con l’uniforme della guerriglia di sinistra. Uribe oggi è alle prese con seri problemi giudiziari per corruzione e comprovati legami con il narco-traffico e i para-militari, ma è ancora molto potente. È stato lui a indicare Duque, che nel giugno scorso ha sconfitto Gustavo Petro, l’ex sindaco di Bogotà che pur ha conseguito, con 8 milioni di voti, il maggior consenso nelle urne raggiunto dalle sinistre nella storia nazionale. Insieme all’ingresso della Colombia nella Nato, quel risultato rappresenta un colpo durissimo per le speranze di pace.Duque ha già detto di voler rivedere i fragili accordi di pace siglati con le FARC dal suo predecessore, Juan Manuel Santos, insignito non senza legittime polemiche del premio Nobel per la pace. Il rischio che la Colombia di Duque si avventuri ora non solo nel ritorno in grande stile del conflitto armato interno ma anche in una nuova guerra con il vicino Venezuela è molto elevato. La rovinosa tentazione di scegliere questa nuova sanguinosa opzione nazionalista per cercare di unire un paese tanto polarizzato è grande. E, d’altra parte, lo stesso “pacifico” Santos, poco prima di uscire di scena, è stato coinvolto certamente in un attentato contro il presidente venezuelano Nicolás Maduro. L’oligarchia colombiana, al servizio degli interessi geopolitici di sempre e dell’insaziabile avanzata “territoriale” del modello ispirato dall’ideologia estrattivista, alimenta progetti politici e militari contro il Venezuela da ben prima dell’avvio del processo “bolivariano” di Hugo Chávez, un progetto oggi molto logorato dalla disperata auto-conservazione del potere da parte dell’apparato statale di Maduro. In questo nefasto scenario nazionale, l’assassinio sistematico di centinaia di esponenti di spicco della resistenza sociale e delle lotte in difesa dell’ambiente non può sorprendere. La Comunità di Pace di San José affronta dunque un contesto più minaccioso che mai. La sua resistenza è un simbolo intollerabile per i paramilitari, le forze armate regolari che li proteggono, e per gli interessi del narco-traffico che vivono, naturalmente, uno dei momenti più floridi della loro esistenza. C’è ancora spazio per affrontare una guerra senza diventare uguali a quelli che la fanno?

https://comune-info.net/2018/12/il-lungo-addio-alle-armi/

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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