Ci sono molti modi per dividere un Paese mantenendolo formalmente unito. Parimenti, ci sono anche molti modi per costringere all’unione paesi che non ne vogliono sapere di stare insieme. In Europa alcuni stati sembrano volersi allontanare progressivamente da una unione che ne ha mortificato le economie, le vite dei popoli e che ha la sua capitale non a Strasburgo dove ha sede il Parlamento continentale, bensì a Francoforte sul Meno dove si erge maestoso il grande edificio che ospita la Banca Centrale Europea. In Italia, invece, accadano un po’ tutti e due questi scenari impietosi: da un lato il governo sovranista gioca al tira e molla con i paesi che dirigono l’asse portante politico ed economico della UE; dall’altro, al di qua delle Alpi, promuove una riforma amministrativa dei poteri assegnati alle regioni sulla scia dei referendum voluti dalla Lega Nord nel 2017 secondo cui a regione più ricca vanno maggiori entrate (trattenute mediante il minore versamento fiscale a Roma) e a regione più povera, ovviamente, ne vanno meno. Tutta la nostra Costituzione si ispira a princìpi di uguaglianza che investono l’intero Paese senza differenze regionaliste fondate sullo sviluppo più o meno mancato di questa o quella parte della Repubblica. La Repubblica, infatti, nell’essere forma della Stato, ha proprio questo compito: non assegnare privilegi ai più facoltosi e punire i più deboli, bensì trovare un punto di equilibrio che consenta al sociale di avere un ruolo prevalente in quanto espressione del bene comune e, pertanto, sovrastare la logica del privato anche e soprattutto in materia di gestione istituzionale della vita di milioni di cittadini. L’articolo 53 della Costituzione inscrive nella vita sociale e nel patto politico e civico del 1948 la “progressività” del sistema tributario e non lo attribuisce soltanto nel rapporto tra istituzioni e cittadini ma lo rende universale e quindi presuppone che al governo centrale vadano maggiori percentuali di entrate fiscali da regioni che sono più ricche e produttive e che, quindi, le regioni più depresse (fondamentalmente e storicamente quelle meridionali) versino meno all’erario. E’ un tema antico quanto il mondo: i manifesti della Lega Nord dipingevano una gallina dalle uova d’oro (il Nord) costretta a covarle attraverso un lungo tubo a Roma. “Taci e paga, somaro del Nord!“, ammoniva il manifesto: trattando i lombardi e i veneti come dei poveri fessi che lavoravano quindi il doppio dei cittadini del Sud visto come una landa desolata di sfaticati, priva di voglia di lavorare e pronta a campare alle spalle del ricco settentrione italiano. Ora si è passati dal grido “secessione, secessione!” a quello di “autonomia differenziata”. Praticamente la differenziazione è il sovvertimento di quella solidarietà nazionale che dovrebbe tenere unito il Paese che rischia di avere un nord ricco con una sanità e una scuola efficiente (ma è tutto da dimostrare) e un sud invece sempre più povero, addolcito solo un poco con il “reddito di cittadinanza” pentastellato. Davanti a questa situazione, veramente anche la misura principale del programma grillino appare come un ben misero ammortizzatore sociale: se sanità, scuola, servizi sociali al sud peggiorassero proprio grazie alla legge sull’”autonomia differenziata”, i 780 euro promessi verrebbero assorbiti da necessità create da quello stesso Stato che finge di ammorbidire le condizioni di disagio delle fasce più povere della popolazione. Il massimo dell’egoismo politico in salsa economica che mostra come da tempo la Repubblica non sia più un corpo unico nell’esprimersi come forma massima di tutela del bene comune e del singolo cittadino: la disparità di trattamento proviene da una regionalizzazione di competenze in materia di stato-sociale che dovrebbero essere uniformate mediante quella “progressività” di cui già si parlava per la materia fiscale e che invece vengono gestite con logica privatizia, costringendo i poveri a non curarsi, a no poter avere accesso ai più elementari servizi di tutela tanto della salute quanto della vita in generale, mentre i ricchi possono consentirsi trattamenti di eccellenza. Così facendo non c’è bisogno di nessuna proclamazione di una “Repubblica del Nord”, come la Lega sognava non molto tempo fa: nei fatti Veneto, Lombardia ed Emilia saranno separate dal resto di un Paese che saprà di doversela cavare senza che tutta l’Italia intera sia coinvolta nella contribuzione progressiva alle esigenze della popolazione. Si produrrà, pertanto, una concorrenza tra regioni ricche e meno ricche, povere e ancora più povere per salire il gradino che consenta di salvarsi dall’affondamento della nave e, quanto meno, rimanere a galla. E’ il peggiore attacco all’unità nazionale dopo il referendum renziano di tre anni fa e dopo la crisi economica che ha prodotto tutto il malcontento di cui la destra sovranista oggi si nutre. Ancora una volta salvare il Paese vuol dire esprimere quanto di meglio la cultura e la lotta per l’uguaglianza sociale possano mettere in campo: sindacati, partiti e associazioni della sinistra progressista, del cattolicesimo democratico devono unirsi in una difesa della Costituzione partendo sempre più dai fondamentali diritti di tutto il popolo italiano che non può essere diviso in “fortunati del nord” e “sfortunati del sud” ed essere premiato o penalizzato a seconda dell’area geografica in cui ha avuto la sorte di nascere e vivere. Questa volta non vi sono le condizioni di un “boom economico”, anche se qualcuno al governo sembra esserne convinto: dunque una transumanza di lavoratori da sud a nord è impossibile. Pena la rovina completa di una parte del Paese e la compressione economica di un’altra sotto il peso di una domanda irricevibile. In sintesi, la disuguaglianza aumenterà anche per volere istituzionale e non solo per naturale spinta economica del regime del profitto e dello sfruttamento del lavoro. Ciò trascinerà con sé tutta una sequela di contrapposizioni e di screzi interni, da scontro civile, cui si tenterà di porre rimedio spostando ancora una volta l’attenzione su chi da fuori viene in Italia, sui migranti, sulla patetica litania anti-rom e anti-sinti: sulle fasce dunque sempre più deboli della società per alimentare la guerra tra i poveri che già oggi mostra tutti i suoi terribili scenari attraversati da un semplificazionismo dei fatti e dei problemi che sono alla base dell’odio e della crudeltà dilaganti. Non dio salvi la Repubblica Italiana, ma un movimento di cittadine e cittadini che, oltrepassando divisioni politiche e culturali, si impegnino per ridare dignità sociale ai più deboli e dignità politica e civile all’Italia.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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