La sala grande del Palace Hotel è strapiena: è arrivata gente da tutta Chicago per ascoltare ancora una volta la “banda”, che si è riunita – forse per l’ultima volta – per quell’occasione speciale. E ci sono proprio tutti, anche quelli che non sono interessati allo spettacolo: i Good Ole Boys, i nazisti dell’Illinois, e soprattutto, tanti, tanti poliziotti. I componenti della band sono sul palco, vestiti come li abbiamo visti per tutta la storia, ma non sono ancora arrivati Jake ed Elwood. Il pubblico rumoreggia, vuole che lo spettacolo finalmente cominci, a questo punto entra in scena Curtis, il vecchio custode dell’orfanotrofio, da cui quei ragazzini hanno imparato cos’è la musica e anche come vestirsi. E nella cui povera cucina campeggia un ritratto di Martin Luther King. E succede un miracolo: d’altra parte i fratelli Blues sono in missione per conto di Dio. Curtis non indossa più occhiali e vestito nero, ma un elegantissimo frac bianco, il sipario si alza ed ecco la band, con un’inappuntabile garofano bianco sul tait nero. Siamo improvvisamente al Cotton club e l’orchestra, guidata da quel vecchio mago in abito bianco – una sorta di Prospero jazz – comincia a suonare Minnie the Moocher, facendo cantare l’intero teatro e anche noi, tutte le volte che riguardiamo quel film al cinema o in televisione.
E’ in questo modo, grazie a quel film, che noi, che siamo venuti molto dopo, abbiamo scoperto Cab Calloway che, durante tutti gli anni Trenta, diresse l’orchestra del più famoso night club di New York, quello dove i neri non potevano essere tra il pubblico, ma dove fecero grande il jazz. Perché The Blues Brothers, al di là dei rocamboleschi inseguimenti in auto e delle battute che hanno reso celebri John Belushi e Dan Aykroyd, è il grande ringraziamento della musica popolare ai propri avi, tutti rigorosamente neri. Quel concerto viene fatto perché Jake è stato ispirato dalle parole di James Brown e grazie agli strumenti che vengono loro venduti da Ray Charles. E anche perché Aretha Franklin permette loro di farlo. Ma – ci dicono chiaramente i fratelli Blues – se non ci fosse stato il jazz dei Roaring Twenties, se non ci fosserostati Duke Ellington e gli altri grandi di quegli anni incredibili, la musica del Novecento non sarebbe stata la stessa o forse semplicemente non ci sarebbe stata. E con la musica una parte importante della cultura della seconda metà del Novecento, che credo possa anche essere definito il secolo del jazz.
Il jazz è la musica del Novecento perché, al di là di tutto quello che è diventato nel corso dei decenni, è essenzialmente l’unione del ritmo della tradizione africana e della melodia di quella europea, è contaminazione, ossia il tratto distintivo di questo secolo, nei suoi momenti più alti. E perché il jazz è una musica di lotta, è la musica degli oppressi che riescono a vincere, è una musica di speranza, e il Novecento è stato anche questo, nonostante ora ce ne siamo dimenticati.
Ce lo dobbiamo ricordare tutte le volte che Cab ci chiederà di cantare con lui, improvvisando ogni volta, perché, come diceva Gershwin

la vita è un po’ come il jazz… è meglio quando si improvvisa.  

se avete tempo e voglia, qui trovate quello che scrivo…

Di Luca Billi

Luca Billi, nato nel 1970 e felicemente sposato con Zaira. Dipendente pubblico orgoglioso di esserlo. Di sinistra da sempre (e per sempre), una vita fa è stato anche funzionario di partito. Comunista, perché questa parola ha ancora un senso. Emiliano (tra Granarolo e Salsomaggiore) e quindi "strano, chiuso, anarchico, verdiano", brutta razza insomma. Con una passione per la filosofia e la cultura della Grecia classica. Inguaribilmente pessimista. Da qualche tempo tiene il blog "i pensieri di Protagora" e si è imbarcato nell'avventura di scrivere un dizionario...

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