Credo ci faccia bene ripensare a quanto ci ha raccontato Umberto Eco con Il nome della rosa, anche se attraverso una versione incredibilmente noiosa come quella che ci propina in queste settimane la Rai. Tra le tante cose che ci sono in quella storia complessa, c’è la descrizione di un mondo, il nostro mondo, in cui solo pochi secoli fa, si poteva morire – tra le molte cause per cui si può morire – perché il “mio” dio non è uguale al “tuo”. E non serviva essere straniero, non era necessario essere venuto da un paese lontano, ci si uccideva tra italiani, tra francesi, tra inglesi, tra tedeschi, perché non solo il “mio” dio è diverso dal “tuo”, ma perché il “mio” è migliore – o almeno il “tuo” è certamente peggiore – e quindi bisogna che anche tu ti convinca ad adorarlo. Per secoli in Europa, in Italia, si è combattuta questa terribile guerra civile, italiani contro italiani, per decidere quale dio far vincere.
In Nuova Zelanda, in una normale mattina di marzo, si è svolta una nuova tragica battaglia di questa guerra che sembra infinita: neozelandesi contro neozelandesi, per affermare che il “mio” dio non vuole che tu preghi il “tuo”.
Noi che non crediamo, noi che – dopo aver sentito queste notizie – ci consideriamo fortunati perché  non crediamo, non possiamo però far finta di nulla, dire che non è un problema nostro. Intanto perché anche uno di noi atei rischia di finire in mezzo alla loro guerra. Ma soprattutto perché anche noi abbiamo trovato i nostri motivi per uccidere gli altri: perché hai la pelle diversa dalla mia, perché parli un’altra lingua, perché la pensi diversamente da me, e quindi sbagli.  
So che molti di voi si illudono che un mondo senza religioni sarebbe migliore. Sarebbe comunque un mondo fatto di uomini, che troverebbero altre ragioni per cercare di sopraffarsi.
Non è chiara quale sia l’etimologia della parola religione. Secondo alcuni deriva dal verbo latino religere, che significa letteralmente continuare a scegliere e quindi in maniera figurata cercare con attenzione; secondo altri deriva dal verbo religare, ossia unire insieme. Vanno bene entrambi i significati, perché le persone che credono si uniscono scegliendo qualcuno o qualcosa a cui dedicare tutta la loro attenzione. E’ qualcosa che non possiamo impedire: chi ha cercato di farlo, a prezzo di crimini indicibili, è stato sempre sconfitto. Però dovremmo chiedere a chi crede di fare uno sforzo, di prestare etimologicamente attenzione agli altri, di più rispetto a quello che già fa, e lo stesso sforzo dovremmo farlo anche noi. Nella consapevolezza che, per quanto fatichiamo a farlo, siamo costretti a essere uniti.
Credo dovremmo tutti – anche noi atei – partire da un punto essenziale, ossia quello di non voler essere maggioranza. So che è complicato, perché è naturale avere la voglia di convincere gli altri della bontà delle nostre idee. Eppure credo che dovremmo farlo, considerandoci sempre come una minoranza, indipendentemente da quanti siamo.
Proviamo a pensarci come una minoranza e scopriremo quanto è difficile esserlo, anche vivendo da secoli nel nostro paese, condividendo con gli altri il colore della pelle, la lingua, le tradizioni. Proviamo a immaginarci stranieri nel paese in cui siamo nati, in cui sono nati i nostri genitori e i nostri nonni. Forse capiremo come deve sentirsi chi è straniero davvero, chi ha un colore di pelle diverso, chi parla un’altra lingua, quando si trova a essere minoranza in un paese, la cui maggioranza gli è, più o meno esplicitamente, ostile. Proviamo a partire da qui, da questa doppia idea di minoranza, per cominciare a sconfiggere le pulsioni, sempre latenti, del conflitto, in cui anche noi fatalmente cadiamo. Se ci pensassimo come minoranze che vogliono rimanere tali? Che hanno paura di esserlo – ogni minoranza sente questa ansia – ma che riconoscono la loro stessa paura nelle altre? Continueremmo a essere uomini, con tutti i nostri terribili difetti, ma forse da questo incontro di minoranze che vogliono rimanere tali, il mondo sarebbe un po’ meno pericoloso. Almeno per i nostri figli.

se avete tempo e voglia, qui trovate quello che scrivo…

Di Luca Billi

Luca Billi, nato nel 1970 e felicemente sposato con Zaira. Dipendente pubblico orgoglioso di esserlo. Di sinistra da sempre (e per sempre), una vita fa è stato anche funzionario di partito. Comunista, perché questa parola ha ancora un senso. Emiliano (tra Granarolo e Salsomaggiore) e quindi "strano, chiuso, anarchico, verdiano", brutta razza insomma. Con una passione per la filosofia e la cultura della Grecia classica. Inguaribilmente pessimista. Da qualche tempo tiene il blog "i pensieri di Protagora" e si è imbarcato nell'avventura di scrivere un dizionario...

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