Lo spunto di questa riflessione è stata mia moglie Zaira, che, mentre parlavamo a cena, mi ha ricordato un programma della Bbc del 1979, in cui un giovane Ian McKellen – ma è giovane anche adesso che ha ottant’anni – spiega il celebre monologo di Macbeth. Siamo ormai alla fine del dramma, il protagonista sa che la resa dei conti è imminente; all’annuncio che Lady Macbeth è morta, il re dice

Tomorrow, and tomorrow, and tomorrow,
creeps in this petty pace from day to day,
to the last syllable of recorded time;
and all our yesterdays have lighted fools
the way to dusty death.

Domani, e poi domani, e poi domani, / di giorno in giorno, striscia, col suo piccolo passo, ogni domani / per raggiungere la sillaba postrema del tempo in cui ci serve la memoria. / E tutti i nostri ieri han rischiarato, pazzi, quel sentiero / che conduce alla morte polverosa.

Sono solo cinque righe, eppure racchiudono l’infinito, attraverso quel passaggio da tomorrow a today per finire a yesterday. E’ un ciclo che si compie, nella velocità di cinque versi, nel tempo altrettanto breve della nostra vita.
Questo mi ha fatto pensare a domani. Almeno dal punto di vista etimologico l’espressione domani mattina è, se non un errore, un’inutile ripetizione, perché domani significa propriamente la prossima mattina. Anche l’inglese tomorrow condivide la stessa etimologia, in quanto morrow è una forma arcaica per morning.
Questa piccolo avverbio è una sorta di spia: ci ricorda che c’è stato un tempo – neppure troppo lontano, quando c’erano ancora i nostri padri – in cui domani non cominciava a mezzanotte, come è ormai per noi, che siamo sempre connessi, anche quando dormiamo, perché da qualche parte di questo sempre più piccolo pianeta oggi è già domani e le notizie, i mercati, gli spettacoli non stanno certo lì ad aspettare noi, e noi dobbiamo sempre essere lì, dove le cose accadono. E anche quando noi dormiamo, qualcuno o qualcosa è sveglio per noi, in modo da regolare l’orologio sul domani: ma poi quando sui nostri apparecchi compare il 0:00 è ancora oggi o è già domani? Invece l’etimologia di questa parola ci spiega che domani comincia davvero quando ci svegliamo, perché la notte è una sorte di tempo sospeso, in cui, mancando la luce, si interrompe anche la vita. Il sonno è una specie di anticipazione della morte, popolato solo dai nostri sogni. O dai nostri incubi. E durante il sonno che accada quello che deve accadere, non è in nostro potere determinarlo, perché noi in quelle ore smettiamo di esistere. Credo sarebbe già un passo avanti accettare che il domani comincerà soltanto la prossima mattina: forse non ci regalerebbe ore di serenità, ma almeno ci rimetterebbe in sintonia con la natura.
Quindi il domani è sempre un risveglio, un ricominciare a vivere. In qualche modo è anche il tempo della speranza. O dell’illusione, se siete ormai così pessimisti come lo sono io. Per questo il domani è il tempo dei giovani, mentre noi vecchi tendiamo sempre a guardare a quello che è successo ieri. Ossia al tempo del rimpianto. O al massimo guardiamo all’oggi. Al tempo del cinico realismo; con tutto il suo buon senso borghese.
Perfino in noi vecchi quando ci svegliamo la prima sensazione è quella di una sorta di meraviglia: anche oggi siamo rinati. Ma è qualcosa che dura un attimo, poi guardiamo l’orologio e pensiamo già all’oggi, il domani è durato meno di un secondo. In fondo il segreto sarebbe tutto qui: far durare questa meraviglia e pensare che ci siamo svegliati domani.
Poi non basta la meraviglia, il domani richiede anche riflessione. Ho cominciato a scrivere questo pensiero – che forse ha poco costrutto, il racconto di un idiota che non significa nulla, e ve ne chiedo venia – perché voglio dirvi che dovremmo cominciare a pensare alla filosofia come a una disciplina che studia e anzi ha l’ambizione di creare il domani. Per troppo tempo – e io certamente sono uno di quelli che continua questa strada sicura e battuta – abbiamo considerato la filosofia una sorta di branca dell’archeologia. In fondo per noi la filosofia – anche a scuola e perfino nelle università – non è altro che la storia della filosofia. Credo che dovremmo – o meglio ci dovrà pensare qualcuno con meno anni e più energia di me – spezzare questa catena. Anche perché c’è stato un tempo in cui Platone e Aristotele, Cartesio e Kant, non erano storia, ma la stavano facendo.
Certo studiare la storia della filosofia è importante, dovete sapere di chi siete figli. Ma fare filosofia significa studiare la realtà, cercare di capire come gli uomini vivono, in che contesti, attraverso quale sistema di relazioni. Così credo che la filosofia possa smettere di essere archeologia, per diventare profezia, che etimologicamente significa semplicemente la capacità di dire qualcosa prima che accada. Ed è in fondo quello che dovrebbe fare la politica, ma che noi abbiamo smesso di fare da tanto tempo. Così potrete far diventare la filosofia il domani anticipato dal pensiero. E forse è proprio ora che smettiate di essere considerati i frutti dei padri: siete liberi di essere tutto quello che potete essere. E se non ve lo permetteremo, dovete prendervi questa libertà, con tutta la responsabilità che comporta.

se avete tempo e voglia, qui trovate quello che scrivo…

Di Luca Billi

Luca Billi, nato nel 1970 e felicemente sposato con Zaira. Dipendente pubblico orgoglioso di esserlo. Di sinistra da sempre (e per sempre), una vita fa è stato anche funzionario di partito. Comunista, perché questa parola ha ancora un senso. Emiliano (tra Granarolo e Salsomaggiore) e quindi "strano, chiuso, anarchico, verdiano", brutta razza insomma. Con una passione per la filosofia e la cultura della Grecia classica. Inguaribilmente pessimista. Da qualche tempo tiene il blog "i pensieri di Protagora" e si è imbarcato nell'avventura di scrivere un dizionario...

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