Nei ruggenti anni Venti il Central Park casino era uno dei ristoranti più alla moda di New York. E attenzione: casino è scritto senza accento, perché non era un luogo dove si giocava d’azzardo, ma, secondo l’uso della lingua italiana, una casa di campagna, un luogo per piacevoli ritrovi immerso nel verde. E’ facile immaginare che chi ha pensato a quel nome avesse in mente la Casina Valadier sul Pincio. A dire il vero fino allo scoppio della prima guerra mondiale quel locale si chiamava Ladies’ Refreshment salon, perché era aperto solo alle donne.
Il Central Park casino divenne particolarmente alla moda perché, tra gli altri illustri frequentatori, era il locale preferito del sindaco di New York James John Walker, diventato molto popolare perché aveva ordinato alla polizia di chiudere un occhio – o meglio tutti e due – nell’applicare la legge che impediva la vendita degli alcolici nei locali pubblici. Sotto Walker a New York il proibizionismo era stato abolito di fatto. E il sindaco amministrava la sua città dai tavoli del Central Park casino, tanto che si era fatto ricavare un ufficio nel retro, perché passava molto più tempo lì che in municipio.
E fu sempre Walker che alla fine del ’28 decise di sciogliere il contratto d’affitto con il precedente gestore – essendo all’interno di Central Park, il casino era di proprietà comunale – per concederlo a un suo amico che lo voleva trasformare in un night club di lusso; un’altra passione del sindaco Walker erano le ballerine. E infatti sposò Betty Compton, che aveva lavorato nelle riviste di Ziegfield.
Sidney Solomon diede l’incarico di progettare gli interni all’architetto viennese Joseph Urban. Urban era negli Stati Uniti già dal 1911 ed è considerato il padre dell’art decò in quel paese. Era architetto, designer e soprattutto scenografo, e in questo ruolo collaborò sia con i più importanti teatri d’opera di Boston e di New York che con Ziegfield: per anni le Ziegfield Follies ebbero i fondali e le luci progettati da questo istrionico talento che aveva portato negli Stati Uniti il nuovo gusto europeo. Di Urban, nonostante sia stato così influente nel creare il gusto degli anni Venti e Trenta, oggi rimane assai poco: le sue creazioni non erano fatte per durare. Curiosamente uno dei pochi edifici che ancora resistono è Mar-a-Lago, il grande albergo di Palm Beach in Florida, noto da qualche anno per essere diventata la “Casa bianca non ufficiale” di Trump, un altro che pare ami le ballerine. Anche se non ha certo l’eleganza di Jimmy Walker.
Naturalmente al “nuovo” Central Park casino ci voleva un’orchestra e Solomon ingaggiò quella di Leo Reisman, un violinista di Boston di origine ebraica che faceva ballare tutti con la nuova musica che arrivava dai club di New York e di Kansan City, quella musica dei neri, che i bianchi come Reisman e i suoi musicisti avevano ormai fatta diventare anche loro. Erano tutti bianchi gli orchestrali di Reisman e non poteva essere altrimenti, perché sul palco del Central Park casino non potevano esibirsi i neri: non era Harlem, non era il Cotton club, quello era un locale rispettabile, dove i negri dovevano stare al loro posto. Però Leo Reisman aveva bisogno di una tromba che cantasse e quello lo sapevano fare solo pochissimi ed erano tutti neri. E così poteva succedere che a un certo momento sotto il palco del Central Park casino, mentre l’orchestra di Reisman suonava, comparisse all’improvviso un giovane uomo nero, che indossava la divisa da fattorino, e fin qui nulla di strano – quello era un lavoro da negro – ma quel fattorino tirava fuori la sua tromba e la faceva cantare, come nessun altro avrebbe saputo fare.
Quel geniale trombettista era James “Bubber” Miley, che per sei anni era stato nell’orchestra di Duke Ellington. E anzi ne era stato, insieme al trombonista Tricky Sam Nanton, una delle anime. Lo stile di Miley ha caratterizzato in maniera fondamentale la musica di Ellington, specialmente di quel primo periodo, e ha influenzato chi lo ha sostituito come trombettista in quella che sarebbe diventata la più grande big band del mondo. Perché Ellington proprio nel ’29 fu costretto a licenziare “Bubber”: era dannatamente bravo, il più bravo di tutti, ma beveva e non era affidabile, e per un’orchestra che faceva otto spettacoli a settimana serviva qualcuno che offrisse una sicurezza che Miley ormai non poteva più garantire.
E la dipendenza dall’alcol fu una delle cause per cui morì, a soli ventinove anni, il 20 maggio 1932.
Nell’agosto del 1931 Duke Ellington, mentre era a Chicago, scrisse la melodia per una canzone. E quando la finì gli venne in mente una cosa che “Bubber” diceva sempre, scherzando con gli altri musicisti:
non vuol dire nulla, se non c’è ritmo
Ma usava una “nuova” parola che aveva sentito ad Harlem, per dire qualcosa che ti prende, comincia a farti muovere, poi ti fa ballare, fino a quando anche tu diventi swing.
It don’t mean a thing, if it ain’t got that swing
Qualche settimana prima che Miley morisse, l’orchestra di Duke Ellington incise questa canzone, con le parole che aveva scritto Irving Mills – di una famiglia ebraica che veniva da Odessa. La cantava Ivie Anderson – una grande cantante, la cui carriera fu stroncata da una forma acuta di asma – accompagnata dai fiati dell’orchestra, che cantavano proprio come aveva insegnato loro a fare “Bubber”. Era nato lo swing, o almeno da allora cominciarono a chiamarlo così.
E il Central Park casino da cui è partita questa storia dell’età dello swing? Riaprì rinnovato il 4 giugno del 1929: divenne il luogo d’incontro del bel mondo di New York, Solomon sembrava proprio che avesse fatto centro. Passarono poco meno di cinque mesi e il 29 ottobre cambiò tutto. Certo c’erano i ricchi che potevano ancora permettersi di passare le loro serate in quell’esclusivo locale, ma erano sempre meno, ed era sempre più difficile fare festa mentre l’America soffriva a quel modo. Poi il nuovo sindaco, Fiorello La Guardia, decise che le leggi andavano fatte rispettare anche a New York e uno dei primi locali in cui fu fatta una retata fu proprio il Central Park casino, che chiuderà e sarà demolito nel 1936, distruggendo un’altra delle opere di Joseph Urban.
C’è una cosa che però non cambierà mai: ascoltate It don’t mean a thing (if it ain’t got that swing), – scegliete la versione che volete, ce ne sono tantissime, da quella cantata da Ivie Anderson a quella di Lady Gaga – e vedrete il vostro piede che inizia a muoversi, sentirete le vostra dita battere il tempo, comincerete a cantare doo wah, doo wah, doo wah, doo wah. E non potrete più fermarvi. Ecco, questo è lo swing. Perché, come dice “Bubber”,
non vuol dire nulla, se non c’è swing
se avete tempo e voglia, qui trovate quello che scrivo…