«Un colpo alla testa, in un parco pubblico, a Roma. Sì, ha commesso errori, tanti, ma nessun uomo merita di morire così. Riposa in pace, Diabolik». Questo è solo uno dei tantissimi messaggi di tifosi, laziali e non, che stanno riempiendo le bacheche social, siti di riferimento, radio calcistiche, per ricordare Fabrizio Piscitelli, 53 anni, capo indiscusso degli Irriducibili, freddato ieri sera al parco degli Acquedotti, a Cinecittà. L’esito drammatico e inquietante di una vita giocata sempre sul limite, che ha reinventato nel bene e (soprattutto) nel male il ruolo del tifo organizzato, del suo rapporto con le società, con la politica, con i poteri e la criminalità organizzata. Non si può comprendere la vita di Piscitelli se la si separa dal suo ruolo e dalle sue scelte in una storia collettiva. In principio, c’è la passione per la Lazio e per la curva, spazio di aggregazione e di costruzione di identità, taz domenicale fuori dal controllo, dove militare e contrapporsi agli avversari di fede e allo stato. Il 18 ottobre 1987, in una anonima partita casalinga di serie B, appare per la prima volta lo striscione con la scritta, cubitale, “Irriducibili”. Sul muretto centrale del vecchio Olimpico, un gruppo di pischelli si presenta con i bomber di ordinanza capovolti: una macchia arancione nel cuore del tifo biancoceleste, per testimoniare un’anomalia simbolica, la volontà di rompere con la tradizione e i riti dei gruppi degli anni Settanta. Niente tamburi, nessun rimando al folclore sudamericano, ma soltanto prove di tifo all’inglese: cori, stendardi, ironia e sarcasmo iconoclasta. Nasce in quegli anni l’ossessione estetica per uno stile di abbigliamento, casual, che sceglie l’anonimato per meglio misurarsi contro avversari e polizia. Una scommessa che si presenta come “rivoluzione”, ma che affonda le radici nelle falde fasciste del tifo laziale, rivestendole di un immaginario anomalo, goliardico e antisistema. Un’operazione che punta a spazzare via gli ultimi elementi di un tifo organizzato formalmente apolitico (gli Eagles Supporters), che garantiva un’agibilità di curva trasversale. Fabrizio Piscitelli fa parte del gruppo storico che lancia questa sfida, programmatica, che si propaga ben presto oltre i confini romani, dando il là a una rifondazione del mondo ultras. Quello che negli anni Settanta si presenta come uno spazio in cui traboccano stili e forme di aggregazione – contraddittorie – nate nei movimenti sociali e metropolitani, sull’affaccio dei Novanta si trasforma radicalmente: la curva ridefinisce lo spazio della “militanza”, nascono i convegni su “Curva Patria Nostra”, si costruisce un discorso pubblico sulle origini elitarie, la tradizione e la retorica imperiale, si afferma un linguaggio e una postura razzista strutturale. Ovviamente si tratta di una dialettica che risponde ai cambiamenti sociali e politici del tempo, ma quello spazio inizia a esprimere una soggettività e un’autonomia non più decifrabile con le lenti degli anni Settanta. Il salto di paradigma è anche “produttivo”: il merchandising diventa terreno di operazioni economiche spregiudicate, di rafforzamento del “direttivo” come organo centrale di guida politica della curva, ma anche e soprattutto di rafforzamento identitario ed egemonico che conquista le nuove generazioni. Giovani e meno giovani scoprono l’orgoglio di Mr Enrich, le innovazioni di un tifo che segnerà gli anni Novanta, la forza di una curva compatta e organizzata: negozi, radio, sedi, locali, fanzine patinate, giornali e, più tardi, il web definiscono un “partito del tifo” mai visto prima, che surfa e accompagna il periodo d’oro della gestione Cragnotti, intestandosi un pezzo di scudetto del 2000 con la manifestazione di protesta davanti alla sede della Figc, a pochi giorni dalla chiusura del campionato. In termini di sociologia elementare, potremmo parlare di una risposta identitaria (oggi diremmo sovranista?) all’affermazione neoliberale nel calcio. Alla privatizzazione della passione, ai recinti delle pay-tv, allo spezzatino che rompe la sacralità della domenica, alla negazione delle trasferte in treno, agli strumenti di controllo e repressione nelle curve – che anticipano la mattanza di Genova – si oppone l’invenzione di un popolo di tifosi traditi, romantici, nostalgici del «vero calcio di una volta», fatto di panini con la frittata, giocatori-eroi, partite campali e così via. Storie ovviamente fantasiose se non parziali, piegate alla ricerca di un’origine fondativa immaginaria, che definiscono un campo di battaglia, un esercito e un nemico. Parallelamente, nella materialità delle scelte, si punta ad organizzare in proprio un pezzo di quella “valorizzazione”, tra vendita di biglietti, trasferte, merchandising, eventi, comunicazione. Finita l’era cragnottiana, la curva si muove a sostegno della società, sull’orlo del fallimento: nel marzo del 2005, il gruppo guida gli scontri davanti alla Agenzie delle entrate per sostenere la richiesta di Lotito di dilazionare il debito della società. Nel frattempo si utilizza la rendita di posizione di una curva gestita come una testuggine per giocare sui tavoli della politica e nei giri al confine con la malavita. Lo “scempio” della presidente della Regione Lazio Renata Polverini, omaggiata in curva, che si siede a cavalcioni sulla balaustra su cui è poggiata la “pezza” raffigurante Gabriele Sandri (il tifoso ucciso dalla polizia stradale nel novembre del 2007) rappresenta un punto di rottura radicale per il gruppo, che decide di ritirare lo striscione per alcuni anni. Anche in questo momento, repulisti interni e cronaca nera si inseguono: dopo mesi di tensioni Fabrizio Toffolo, uno dei membri storici del direttivo, si allontana dalla curva. Nel giugno 2013, come già avvenuto sei anni prima, lo stesso Toffolo viene gambizzato mentre passeggiava al parco della Caffarelletta. Si salva rifugiandosi nei garage di un’autofficina nei pressi del parco. Secondo gli inquirenti l’agguato è riconducibile a traffici di droga. Questa lunga storia porta con sé un prezzo culturale altissimo: da una parte, una pedagogia e una identificazione del tifo con l’ideologia fascista e razzista, che spesso ha macchiato e compromesso la credibilità e le prestazioni sportive della stessa società, in Italia e in Europa. Basta ricordare la reiterata esposizione di striscioni razzisti – contro “gli immigrati spacciatori”, “stupratori”, ecc. – nei luoghi di ritrovo pre-partita del tifo laziale oppure l’omaggio a Mussolini dello scorso aprile, a Milano. Dall’altra, un delirio di onnipotenza, politica ed economica, che ha portato a una continua commistione con poteri in chiaro o di sottobosco, con ambienti criminali di rango, dediti al controllo del territorio o alle scalate societarie inverosimili. La stessa battaglia contro le misure repressive nello stadio (tessera del tifoso, biglietti nominali, flagranza di reato, video sorveglianza) non va oltre i titoli di testa, la denuncia morale, incapace di costruire alleanze e strategie al di là delle identità di curva. Tutto questo, al di là del vittimismo di facciata, si svolge in una sorprendente contesto di prudenza e tolleranza da parte delle forze di polizia. Le cronache degli ultimi anni ci parlano di una persona (a volte, un gruppo di persone) coinvolta in traffici internazionali di stupefacenti a cui sono stati sequestrati beni immobiliari milionari, indagata nell’inchiesta di “Mafia capitale” come sodale di Carminati, condannata per la vicenda della “cordata ungherese” e per diversi atti violenti e intimidatori: vicende in cui scompare il confine tra responsabilità personale e collettiva, dimensione pubblica e privata, ambito professionale e calcistico. Su questa forza e agibilità pubblica, che nemmeno gli anni del carcere e degli arresti domiciliari scalfiscono, si fonda il potere di Piscitelli, che gode di spazi di agibilità e collusioni sorprendenti. I rapporti con Lotito vanno a fasi alterne, in base ai precari equilibri di manovra ma anche a quelli economici che ogni volta si riescono a raggiungere. La scelta del presidente della Lazio di affidare un ruolo di primo piano all’ex questore Nicolò D’Angelo, è letta dal gruppo come una dichiarazione di guerra, la rottura di quella agibilità fin qui garantita. Il 23 aprile di quest’anno, in curva nord, appare uno striscione chiarissimo: «Non ci compri un giocatore, ma ti compri l’ex Questore». Negli ultimi mesi avvengono due fatti che forse oggi assumono un significato diverso, che travalicano la dimensione calcistica e del tifo: prima l’attentato dinamitardo alla sede di via Amulio, che prima ospitava una sezione di Forza Nuova; successivamente, e nonostante la vittoria della Coppa Italia, la contestazione nei confronti della società e l’annuncio per la prossima stagione della rinuncia allo storico striscione in curva, come forma di protesta contro le disposizioni del decreto sicurezza bis. Ma questa volta la stragrande maggioranza dei tifosi si dissocia e critica ferocemente le scelte del gruppo. Proclami, prese di posizione, comportamenti e fatti che, ancora una volta, sfumano il confine tra interessi di gruppo, passione genuina, ambito calcistico e interesse privato. Questa mescolanza di elementi è la matrice di fondo in cui si è snodata la vita spericolata di Piscitelli. Separare un solo elemento rende illeggibile il quadro d’insieme. Quello che lascia Diabolik assomiglia più a un campo minato che a una dote facilmente utilizzabile. Una curva in cui emergeranno vecchi rancori e nuove divisioni, in cui l’amore per la squadra e per il calcio va di pari passo con una gestione militare, violenta, opaca del potere di curva. In un mondo del calcio sospeso tra vecchi e nuove interessi economici, attraversato dalla guerra delle piattaforme, assediato da misure repressive che cancelleranno definitivamente i residui del tifo organizzato per come lo abbiamo conosciuto.

Di Nardi

Davide Nardi nasce a Milano nel 1975. Vive Rimini e ha cominciato a fare militanza politica nel 1994 iscrivendosi al PDS per poi uscirne nel 2006 quando questo si è trasformato in PD. Per due anni ha militato in Sinistra Democratica, per aderire infine nel 2009 al PRC. Blogger di AFV dal 2014

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